Genealogia di un vizio

   E' tutto un guasto nostro questo sentire e quest'entropia dolorosa; e se non nostro allora proprio del *noi* che è trasferibile in tutto, proiettato sull'altro secondo una modalità ipertrofica dell'Io.
   Chissà se la paura degli animali di essere predati riesce a trasformarsi in ossessione, in un'ossessione - intendo - minimamente rapportabile a quella che fra noi è cagione di sbudellamenti preventivi, ipocondria permanente e, in termini assoluti, di una intrinseca spiacevolezza del vivere. L'Io come roccaforte delle peggiori paure.
   Difesa a morte, da tutto.

   Non sono mai stato uomo o animale a sufficienza per poter rispondere.
   Non sono mai stato abbastanza interessato ad essere alcunché in particolare.
   Ovunque vai qualcosa succede, no?

   Dovrebbe generare sospetto la mia costanza alla scrittura, come succedaneo di una propositività che nella vita quotidiana è largamente assente, o la mia (tutta millantata)specializzazione in quisquilie filosofiche, che succedaneo è d'un'imperizia nelle prassi umili dell'esistenza. Mi faceva notare mia madre che saranno sì e no 6 - 7 anni che ho imparato a sbucciare la frutta. Avevo rimosso.

   Certo, il mio esser nato, lungi dal cedere al pregiudizio d'una innata propensione all'attività, si è prestato come meglio non avrebbe potuto all'inefficacia.
   Tutto iniziò un giorno, che non rammento, ma dev'esserci stato, in cui preferii prepensionare le macchinine e i robottini per dedicarmi ai libri. Troppo bassi erano quegli scaffali, troppo maledettamente alla portata.
   Ho il sospetto, durante la mia infanzia, di aver concentrato i migliori sforzi sulla comprensione degli altri, degli adulti, piuttosto che su quella di me stesso.
   E del resto cosa ero io, se non quel frustrante tentativo di adeguamento alla tappezzeria della casa, e, per estensione, del mondo?
   Stare a leggere libri ha molto presto rivelato i suoi piaceri e i suoi vantaggi.

   In primo luogo c'era la separazione. Con un libro in mano il mondo esterno scompariva, o scomparivo io, che era un po' lo stesso. Non c'era bisogno di molto altro se non gli occhi, una superficie comoda (di quelle che se ne trovan un sacco in case medio-borghesi, a monumento del tempo del riposo che non c'è mai) e la dolcissima predisposizione a sprofondare in un mondo non necessariamente favoloso, ma invitante solo per il fatto di non essere quello concretamente presente.
   Un mondo, badate bene, persino conseguenziale, dove gli intrecci, per quanto abilmente scomposti o camuffati, si sottomettono docilmente ad un'eziologia di maniera.
   Da bimbo è sempre meglio poter contare sugli effetti delle cause e/o sulle cause degli effetti, o si rischia di non voler crescere [e retrospettivamente, diavoli, che fregatura averlo fatto davvero].

   In secondo luogo c'era l'assunzione di identità. Aveva un po' rotto le palle, la maestra con quella storia che il bambino non manifesta alcuna predisposizione, alcun interesse specifico o alcuno slancio partecipativo alla vita della classe. Inutile ora stare a spiegare quale abisso ontologico intercorra fra un libro di scuola o un libro libro. Basterà accennarlo: il primo è una palese e mortificante contraffazione del libro vero, al cui interno infidi autori hanno infiltrato didascalie pronte al contagio. Che volgarità.    Niente mi avrebbe mai portato ad aprire un sussidiario, o un libro di matematica.
   A me piaceva sorvolare parolone dal bel suono, e decidere se fare ulteriori ricerche sul dizionario. Quando il nome era così bello o suggestivo, sarebbe stato delittuoso ancorargli un significato, tenerlo piantato al suolo terrestre riempendolo di inutile fuffa di scambio. Io non scambiavo mica.
   No, doveva rimanere lì, a emanare tutta la sua algida seduzione, come il nome di una stella.
   I nomi comuni più belli erano tutti nomi propri, per me. E più ne collezionavo, più m'identificavo con quel collezionista.
   I miei, lontanamente dal fiutare il pericolo, si mostrarono accondiscendenti verso questa mia propensione al libro. Non li ho mai capiti. Mi sono sempre sentito un illegale del mondo, un voyeur vizioso e viziato.

   In terzo luogo, ero proprio un illegale. E non solo perché era bastata una sedia a tirare via da uno degli scaffali più alti Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere (a proposito, quando si parla di sesso pensiamo di poter fare sempre quelli che ammiccano o che estendono le proprie curiosità agli altri. Ciò è insopportabile, come il titolo di quel libro. M'infastidiva assai).
   Mi sentivo illegale perché con quel gesto di sospensione ad libitum dell'interesse verso le circostanze e i dintorni sapevo di costituirmi eccezione, e sentivo il frusciare tutt'attorno delle molecole in movimento.
   Io, stavo coi piedi fisici chiusi in un blocco di cemento e i ventilatori del tempo puntati da qualche parte, sulle pareti della stanza.
   Come avere un allaccio abusivo al palo dell'energia elettrica appena fuori la finestra.
   Volete vivere? Bene, ma non è affar mio, anzi, abbassate il volume.

   In quarto luogo, familiarizzavo con l'estraniamento da me. Ho speso tanto tempo essendo qualcun altro che a fatica riuscivo a tornare in qualche posto. Spesso il luogo a cui facevo ritorno non era lo stesso. Non era me stesso.
   E quel me stesso finisce per diventare ipotesi, o persino scelta.
   Potendo essere chiunque, di certo non avrei scelto di essere me. E del resto, cosa avrebbe dovuto implicare essere me? Da dove cominciare? Fare colazione? Vestirsi? Hey, non c'è bisogno che io sia io per questo. Tutti lo fanno.
   Naturalmente, nonostante la grande presunzione, non fui mai permaloso; mi mancò sempre l'arroganza di costituirmi parte per me stesso.
   Mi vedevo uomo, e mi sentivo invischiato nella mia umanità fino al midollo; i miei gesti erano gesti qualunque. Il sì e il no dubbi reversibili.
   O almeno credo.


 

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