Vigilia

Poggiata la schiena alla parete esterna della chiesa, guardavo la gente passare.
Ma forse guardavo solamente. La gente passava.
La chiesa era lì da parecchi anni; non mi ci sarei potuto poggiare casualmente.
Faceva freddo. Avevo con me la sciarpa ma avevo dimenticato guanti e cappello.
Se li avessi avuti, avrei probabilmente dimenticato di indossarli.

Ero sufficientemente credibile: vestito, non elegantemente ma con non trascurata sobrietà, mani in tasca, sciarpa alta a coprire la bocca, leggermente tremolante e intirizzito, occhi a scrutare i pochi dettagli del campo visivo. Mi si sarebbe detto in attesa di qualcuno.
Poi, presi a guardare l’orologio. Dapprima con costanza metodica, poi con impazienza.
Ma non arrivò nessuno.

Decisi di fare quattro passi, di modo anche da opporre una qualche barriera al freddo. Dopo pochi minuti di marcia, la mia attenzione fu attratta da un’edicola nei paraggi. Rimasi a sfogliare le riviste.
Impiegai un po’ a sfogliare quelle di attualità, quelle di moda, quelle di musica, quelle di giardinaggio, quelle salutiste, quelle di automobili, di motociclette, di economia, di francobolli, di arredamento, di scienza, quelle letterarie e quelle di pettegolezzi.
Senza acquistarne nessuna ed evitando di guardare l’edicolante negli occhi, andai via.

Le luci intermittenti dalle vetrine e dagli alberi della via erano un gran bello spettacolo. In un certo senso – pensai - erano pulsazioni di un altro pianeta, che mi trasmettevano con certezza e senza timore di sbagliarmi le informazioni necessarie a condurre in porto regolarmente il mio pomeriggio. Avevano soprattutto il vantaggio di eliminare ogni possibile tentennamento, e risolvere le ambiguità.
E pulsavano. Mi sentivo un cardiologo alle prese con un cuore sano. Scivolare silenziosamente lungo le strade umide era un piacere necessario.

Entrai nel Grande Magazzino, respirando forte.
Il forte odore di merci, di persone, di luci e di vita mi stordì. L’animo mi si riempì degli atomi di tutto. Ero come un santo, toccato per la prima volta dalla soffio della Grazia, o un mistico, riempito da Dio dopo una privazione lunga un anno. Un sentimento panico, di appartenenza totale accompagnava il mio sguardo sugli scaffali, sugli espositori, sulla miriade di stand.
Il servizio di piatti per cibi che avrei potuto cucinare; il divano di pelle per ristorarmi dalla stanchezza di una lunga giornata di lavoro che avrei potuto avere; le tende per la camera da letto per inibire gli sguardi dei curiosi su una felicità incondizionata e interminabile; il letto matrimoniale in ferro battuto per me e per la donna che avrei potuto amare; i giocattoli per figli che avrei potuto fare; e tutti quei simpatici soprammobili senza utilità che ben servono a familiarizzare col fatto che al mondo esistono anche il gesto gratuito e il dolce tepore di un accogliente idioma casalingo. Venni invaso dalla visione mentale di una famiglia immersa nella magìa dell’intermittenza delle luminarie dell’abete e del suo ancestrale odore di meraviglia infantile, la notte della Vigilia, mentre fuori piove, al caldo, intenta a scambiarsi i doni dai pacchi dalle confezioni variopinte e sbrilluccicanti.
Poi pensai ai miei Natali di bambino e naufragai in quel pensiero.

Rimasi sino all’orario di chiusura, poi una voce dall’altoparlante ci informò che – anche senza affrettarci a uscire – era necessario che chiudessero.
Ora come allora, quando tenuto per mano da mia madre realizzavo che il tempo dei regali era finito e che quella dolce attesa era al termine, il cupo sentore d’un altro lungo anno di normalità mi si stringeva alla gola come un nodo stretto stretto.

Tentando strenuamente di non scoraggiarmi, tentai di far mente locale su come avrei trascorso il resto della serata. Ma non vidi nulla davanti, e quello ch’era dietro mi spingeva verso innanzi.
Aveva le sembianze di un’orrenda calca di schifose famiglie, brulicante e vorace, ansiosa soltanto di far ritorno in calde case, infestate dall’odore di qualunque disgustosa frittura o animale morto, a mettere a punto gli ultimi dettagli per il cenone.

Così, come era successo negli ultimi 5 anni della mia vita mi ritrovai a scegliere fra le solite tre opzioni.
Sfiorando con la mano - per rassicurami - i miei ben protetti flaconcini di nitroglicerina nella tasca del cappotto, le riepilogai a me stesso:

1) farmi saltare in aria
2) far saltare in aria il Grande Magazzino
3) alcool, alcool a fiumi, tanto da bastare fino alla Befana.

Del resto, come ogni anno, avevo risparmiato per tutto il giorno.

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