Gli uccelli
Tempo di malattia, tempo di riflessioni ancorate alla gromma
dell'immobilità.
La febbre scema, il corpo è deficiente di stimoli e
il mondo ottuso nel suo angolo s'apre oltre la finestra.
V'è sole, un sole grazioso, non invadente e delicato.
Sento uccelli cantare sugli alberi di fronte; il canto è
attutito dalla distanza e da un fruscìo che sembra di automobili fuori
vista. Vorrei star camminando per la campagna piuttosto che
vegetare su una sedia.
E invece scorro l'ambizione alla partecipazione universale
sulle solite righe in successione. Sono un orologio grafico, sostituto del fumatore
che ero; non brucio minuti di tabacco, ma polverizzo la pazienza del dire e
del leggere in concetti residui di permanenza.
Scrivere in qualche modo è voler dare - per quanto
poco ormai l'illusione si autosostiene - al divenire la forma dell'essere. Bloccare
il flusso quanto basta per mettergli il collare del concetto e portarlo a spasso
per aiuole. Menare il can per l'aia.
Ma quando il corpo si assesta su una blanda percezione della
vita, e il tempo arranca penosamente di fratta in fratta quel divenire è
di per se stesso neutralizzato.
Le ruote dei carri si trascinano pigre, gli uccelli s'alzano
al rallentatore.
Volano gli uccelli volano
nello spazio tra le nuvole
con le regole assegnate
a questa parte di universo
al nostro sistema solare
Altri uccelli continuano a cantare. E' consolante. Cantano.
Nascosti, stanno sul loro albero e cantano. Chissà
da quanto. Chissà da quante generazioni. Chissà che c'era nella
porzione di spazio che ora occupo ad udire il dilettevole canto.
O chissà, forse sono stato io ad essere distratto a
lungo, e solo ora la febbre mi risintonizza su frequenze più regolari
e più rarefatte, sulle frequenze del canto degli uccelli.
Questa cosa mi commuove sino alla soglia delle lacrime, perché
è come aver ritrovato qualcosa. C'entra poco l'aver sentito proprio stanotte,
durante una delle mie veglie febbrili, dell'approvazione della legge sulla liceità
della caccia delle specie a rischio. Sarebbe la solita emozioncina disonesta.
Nella sua sordidezza non trovo alcunché di sorprendente.
Me l'aspetto sempre e me lo aspetto peggio. Piuttosto a volte
mi sorprende lentezza del processo degenerativo.
No, questo cinguettare nonostante, a discapito
e malgrado tutto ha qualcosa di alchemico. Qualcosa che supera la povera
capacità d'una volontà per quanto forte e ricorda quegli altri
segnali di vita nei cortili e nelle case all'imbrunire nonché
le luci che fanno ricordare le meccaniche celesti.
Per quanto strano, il cinguettìo conferisce grazia
persino al suono della sega elettrica del falegname poco avanti. Forse gli uccelli
se ne stanno semplicemente lamentando.
Forse, santo forse.
E' lì il segreto.
Qualunque intenzione io o la scienza naturalistica s'attribuisca
a queste piccole visioni melodiche, queste continuano a cantare e ad allietare
il mio senso d'appartenenza all'indecifrabile, al gioioso, all'oscuro, all'indifferenza
all'estinzione.