Terremoto

 

   Gli orologi di notte non hanno più importanza; l'oltre la finestra e l'aldiqua della finestra s'omogenizzano, sofficemente come palpebre, nel buio caldo della congiunzione di occhio e mondo.
   V'è una felicità ch'è del sonno e di nient'altro.
   Quando alla fine di una giornata gravata del peso di essere una giornata, increspata da pensieri che le rimangono come cattivi odori, un senso di sfuggente avanguardia sentimentale pregusta i piaceri della sospensione che verrà, un silenzioso gaudio si diffonde timido per tutta l'estensione delle membra. I piedi si contraggono in spasmi silenziosi, le mani cercano la morbidezza delle coltri, ci giriamo e rigiriamo per sondare quanto più letto possibile con quanto più corpo possibile.

   A volte è come se se fossimo capaci d'esprimere la gioia del ritorno l'infrangeremmo. E' come se il solo sospetto della possibile irruzione del pubblico in quel nocciolo pulsante di più che privato - l'origine di ogni felice privazione - potrebbe far andare in frantumi tutti i palazzi di cristallo dell'Universo.
   Con mira infallibile tutti quei cocci ci taglierebbero tutte le membra e tutti i respiri, cadendo da altezze invisibili.

   Ieri notte nella mia città di Sicilia è occorso un terremoto, non catastrofico come sarebbe potuto essere ma sufficientemente intenso da farsi gustare come anticipazione d'una metafisica futura sempre presente e lavorante per voi.
   Sono un siciliano, uno di quegli abitanti del globo terraqueo che non ha smarrito la sua storica abitudine di tremare nottetempo. Grande radicatezza alla tradizione.
   Ecco, cosa ho sentito di me: radici emotive, lunghe e articolate, aggrappate con furore ad una terra che cerca di scuoterle e scuotersele di dosso e che, pedagogicamente, rifiuta il grembo materno per una volta, per un avvertimento, per un avviso che fa disperare per ciò che sempre e in ogni momento potrebbe arrivare.
   Ma c'è di più in quell'affetto. Quelle scosse sono anche consolazione per ciò che avviene non avvenendo, per la tangibilità d'una paura e per la vibratile profondità inframolecolare di un'appartenenza.

   Ho sentito ancora che la mia vita conscia è una finzione, e non filosoficamente ma nell'imo di quella pulsazione notturna. Che ogni zona, persino la più nascosta, è nel suo nascondimento esposta e che ciò che sono è anche il risultato - in qualche modo scomposto e con capacità d'autosuggestione - di ciò che non mi è crollato addosso per tent'anni nel sonno.
   Era bellissimo così.
   Saldo sul cuscino, allungo il braccio per accendere l'abat jour e far parte dello spettacolo d'ogni atomo visibile in movimento, dentro e fuori.
   Avevo spento la tv da una decina di minuti.


   E' stato come se la notte avesse ripreso a cullarmi.




 

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