A voi non interesserebbe subentrare?
Ho
rivisto oggi la scalinata, dopo almeno tre anni.
Un tempo fu grave tragitto per recar visita ad amici di amici,
e poca luna ne schiariva i terrapieni di pietra che accompagnano la fatica al
viandante. Qualche specie di pianta certo anche allora avrà presieduto
a quel silenzio prediletto dai tossici, a quella rada immondizia - perlopiù
siringhe - abbandonata nella fretta di percorrerla velocemente, questa salita
che oggi invece è tiepida di un sole benevolo e amichevole.
In pochi giorni potrebbe diventare la mia salita.
Non prenderò
a bucarmi, ma potrei iniziare a cambiar vita.
Potrei volermi spiegare la mia esigenza, con serafico fatalismo,
e lasciare che le parole indichino un vecchio cancello arrugginito alla fine
dei gradini, le graziose aiuole che guidano ad un portone dalla serratura scassata
e infine il piccolo appartamento popolare d'epoca fascista al terzo piano d'un
edificio sopravvissuto, non senza qualche fortuna, ai bombardamenti a tappeto
della seconda guerra mondiale.
Ci sono due stanze grandi, una più piccola, un vestiboletto,
bagno e cucina piccoli ma non microscopici. Avrei due coinquilini e un piccolo
affitto da corrispondere - tramite l'affittuaria ufficiale - ad una vecchina
di novantadue anni, che malvede la presenza di maschi al suo interno. L'affittuaria
nominale - tale Ambra - venivo a sapere dall'inquilino che già occupa
una delle due stanze grandi, vorrebbe disdire l'affitto a suo nome, o stornarlo
su chi sopraggiungerà. In mancanza di chi possa succederle legalmente,
darebbe il preavviso minimo, e le sorti della casa piomberebbero nell'imprevedibilità.
Un po' un peccato - notava - dato che è rimasta nel giro di
noi amici da parecchi anni. Chiunque di noi ha avuto bisogno di fuggire dalla
domesticità, o trovare riparo dalla vita Ufficiale con la u maiuscola
ha chiesto asilo qui, e se una delle tre stanze era libera, ci si poteva fermare,
pagando - a seconda - un terzo o metà dell'affitto. Questa casa c'è
sempre stata. Io sto cercando però casa da comprare. In un paio
di mesi vorrei essere fuori mi dice sempre Massimo, l'inquilino. Un po'
un peccato, dunque, sarebbe perderla. A voi non interesserebbe subentrare?
Guardavo
oltre la finestra; si godeva la vista di un bel rampicante su un muro divisorio,
e appena più defilato, di uno scorcio dello Stretto di Messina.
L'aria di provvisorietà della casa mi riempiva i polmoni.
I pavimenti traballanti mi donavano una singolarissima gioia
nel deambulare per le stanze, i fornelletti a gas da campeggio e le quattro
pentole abbrustolite sulle mensole precarie mi facevano venir voglia di imparare
a cucinare, come mai i lussuosi fornelli incassati nel marmo di casa dei miei.
Sarebbe bellissimo chiudere gli occhi ogni sera - pensavo
- nella stessa casa dove per la stessa casualità distributiva
della vita sul pianeta, altri animaletti dell'umidità condividono
con me lo stesso tetto.
Quanto
andavo pensando - e lo sapevo - mi suonava male, e un po' affettato; come se
stessi cercando di fare in qualche modo colpo su me stesso.
Non indugiavo però oltre nel biasimarmi perché
la gioia che sentivo di separatezza, di quiete, di liberazione dalla vita che
da trent'anni ho assicurato a tutte le mie abitudini e alla sicurezza delle
catene mi giungeva come autentica.
L'unico baluardo all'incontrastato slancio consiste nella
mia (comprensibile, dopo quanto ho premesso) fobia verso l'impegno duraturo,
verso la scelta anticipata e sempre prematura. Quella forma di incosciente
rassicurazione che gli uomini si impegnano a procurarsi nella stipula dei
più disparati contratti-capestro col fato: dal pagamento a rate, al matrimonio,
o al semplice rispondere "ROSSO" alla domanda qual è il
tuo colore preferito?
Che senso avrebbe sgattaiolare fuori dal campo delle telecamere
delle mie intenzioni, aspettative, immagini autoinflitte di me stesso per infilarsi
in un'ancòra più diretta ed esposta forma di sedimentazione firmando
un contratto d'affitto a mio nome?
Tutto ciò che vorrei è dover ancora rubare attimi
al tempo, e farmi trovare dagli eventi sempre per caso.
Voglio che quel caso coincida con la necessità.
La vita che fuggo è questa orrenda certezza a cui offro tutte le mie paure sociali, e sotto il cui riparo schivo tutto quanto mi renderebbe istintivamente partecipe di un tempo che gli orologi si limitano semplicemente ad esorcizzare.
Non posso
prevedere se tutte le rinunce a cui andrei verosimilmente incontro mi restituirebbero
quel qualcosa che so di avere ma che da lungi è scivolato sul fondo di
me stesso.
Da tanti piccoli segni arguisco di non aspettare altro.
Ad esempio non cambio la pila al mio orologio da oltre un
mese ormai ed è come se avessi paura che prima o poi qualcuno me lo farà
notare.
La sua voce mi paralizzerebbe.