Risveglio morto con ombrellone e bilanceri

  L’ombrellone era lì dove la notte lo aveva lasciato, la marea non aveva conquistato yard né il vento tentato contropiede.
   Nella luce ancora dolce del mattino l’ombrellone sulla spiaggia sembrava aspettare d’esser riconosciuto come primo e unico soggetto di distinzione. Di fatto l’orizzonte che separava due gradi d’azzurro, l’unico gabbiano pittore dell’alba, il giardino sospeso sulla sabbia erano nient’altro che sfondo.
   L’ombrellone, dal canto suo, non aveva assolutamente nulla da raccontare, e si dava allo sguardo indeciso di risveglio come simbolo di tutti gli oggetti indifferenti od oggetti che richiederebbero altri utenti per acquisire significato, se non fenomenologico, almeno pratico.
   Non c’erano ancora cancellature nel testo del mattino, e questo mi rendeva particolarmente cauto.
   Anche arrivare fino a mezzogiorno senza usare neppure una volta la gomma o il cancellino, così, puro come se la prassi delle azioni, respirazione compresa, potesse stagliarsi nello spazio aperto dello sguardo come righe ordinate sulla pagina – questo sarebbe stato, in qualche modo, eludere il risveglio.
   Sì, far finta di niente, nella lunga e grigia camerata, essere come colui che non si stanca e non si risveglia mentre tutti sono ancora lì che rifanno il letto. Sarebbe stato un gran bell’osservare, un gran bel non stiracchiarsi, un gran bel percepire la muta futilità dell’evento.
   E ancora stavo dentro l’incanto ch’è intontimento, mi muovevo inerzialmente, spiavo la spiaggia dal terrazzo simulando agli sguardi dei vicini un qualche senso che questo avrebbe rivestito nell’economia complessiva di quel Luglio e della mia vita.
   Nessuna sbavatura! A guardarmi, pensavo, quale perfetto ozioso villeggiante: saggia il buongiorno, si distende arrendevole nella noia della luce, e grava il davanzale del resto dei suoi pensieri.
   Nessun amore del passato o dal passato, nessuna fame o sete, nessun pathos sociale, nessun impegno neppure con se stesso e solo pensieri della risma che leggete. Cellulare spento, ricevitore del telefono fisso staccato – mi sentivo pronto con la fionda a impedire qualunque messaggero del mondo (pennuto o meno) di recarmi segnalazioni esterne mirate al centro di me.
   Ed è pure vero che, soppresse le segnalazioni interne, quelle esterne possono pure mettere in scena lo spettacolo della storia universale senza neppure impressionare la rètina.
   I pensieri, questi disturbi dello stato desto come gl’incubi lo son del sonno, vanno prevenuti con scrupolo, anche in considerazione del fatto che, spontaneamente, sol per il fatto di possedere dei sensi, se ne produrranno d’inevitabili e incontrollabili.

   I sensi andrebbero distratti, o ancora meglio, innervati di salute.
   La salute, che ingiustamente ho schifato e banalizzato per troppi anni della mia vita, ora mi porta questa rivelazione: essa narcotizza la mente, ostruisce i varchi dell’intuizione mentre spande calcare sul tubo catodico dell’immaginazione.

   Così, con il sole che mi bacia sulle labbra, il vento che sensuale mi accarezza i genitali e il mattino ridotto a semplice tappezzeria, come altri rollerebbe una canna maestosa, tiro fuori manubri e bilanceri.


 

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