I prati delle domeniche della vita

Ero un bambino bruciato, un bambino roso da tarli di mobili troppo antichi e respiravo da solo l'aria incustodita di stanze troppo vuote.
Ero un bambino che aspettava, che guardava l'orologio prima ancora di poter leggere le ore, e guardava oltre la finestra, prima ancora di poterla raggiungere.
E se qualcosa scrosciava fittamente, come fili d'erba secca che cadevano dal cielo, cos'era mai? Era la mamma, che non tornava mai? Era il papà che l'accompagnava, ogni sera?
E poi - oh no - il rumore era solo simile.
Dunque le ore, anche prima di contarne i minuti. E i minuti, sempre più larghi o più stretti della percezione di loro. Rintocchi che non esistono, però li stai a seguire, stai lì a contare le piastrelle del pavimento. Cerchi di mettere il piede dentro ognuna, con cura. Cerchi di contarle saltandone prima una, poi due alla volta, facendo coincidere i numeri con le cose. Poi arrivi al muro opposto, e verifichi se è lo stesso anche partendo da lì.
Poi decidi che vorresti non pensarci e riuscire a mettere lo stesso il piede entro i confini di ogni mattonella. Ma se lo fai, non riesci a distrarti e ti accorgi subito di non riuscirci.
Ma se lo fai, non riesci a concentrarti e ti accorgi subito che non c'è niente, sotto il tuo gioco. Un semplice gioco per passare il tempo.
Uno dei giochi con cui il tempo mi teneva al guinzaglio, o dentro il suo acquario.

Ero il bambino che aspettava da solo, a casa.
Perché?
Perché la carta da parato era grigia, i divani blu prussiano, il cielo nero nel pomeriggio.
Non c'era altro motivo.

Perché se parlo da solo, se sussurro delle lacrime a un pupazzo, l'aria le ripete senza nulla aggiungere?
Ero il bambino inchiodato malamente da uno spillo da balia alla sua età, trafitto nell'istante congenito di una domanda senza possibile risposta.
Perché aspettare?

E poi, sì, mamma e papà arriveranno, ma domani io li starò ancora ad aspettare.
E oggi è domani. Cosa farò domani?
Mi sedevo, accanto alla porta e fantasticavo cosa avrei potuto fare domani. E domani era oggi, quindi stavo a fantasticare cosa avrei potuto fare oggi.
E così, non lo facevo.

Ero il bambino che aspettava.
E se ero fiamma di cuoricino ansioso, pure non bruciavo fino in fondo.
Cos'era allora quell'elemento che bruciava sempre e non bruciava mai?
Prendi una scatola di vetro - metti dentro una candela - chiudi da sopra. Si spegne, l'ossigeno si consuma, dopo un po'.
Ma io non mi consumavo e lasciavo il tempo intonso. Eppure c'ero.
I vetri si appannavano col respiro, ma non sapevo scrivere, e non arrivavo alla finestra.
Eppure se ci fossi arrivato avrei saputo cosa scrivere.

Ero una specie di respiro ad orologeria, una specie di bomba che sai che deve esplodere, però non esplode.
E non serve non starti ad auscultare, perché anche se ti distrai, anche se studi ogni più piccolo dettaglio della polvere mentre - da un sopra imprecisato - ti cade addosso, poi ci torni, quando fai il silenzio, quando ti riposi, quando senti che è ora.

E che bei posti devono vedere gli altri.
Tu vorresti andare, e sai che potresti finalmente confrontare i prati che sono nella tua mente e nella tua televisione dell'anima con i prati della vita.
I prati delle domeniche della vita.

Ma non puoi. Aspetti. Mamma e papà.
E fai tic, tic, tac, tic tac. E non riesci nemmeno a decidere se quello che senti è un tic o un tac. Se pensi che è un tic allora è un tic, se pensi che è un tac allora è un tac.
E' come se davvero il tempo non esistesse. Sei tu.
Se vuoi tic è tic, se vuoi tac è tac.
Ma allora perché non esci? Perché aspetti?

Se vuoi la vita è vita. Ma...
...vuol dire che potrei chiudere gli occhi e tutto potrebbe semplicemente scomparire?
Se c'è da aspettare, cosa aspetto?

E il dottore non mi manda mai a chiamare.
E ogni coda rimane ferma al mio numero.
E il telefono non suona mai.
E la lancetta scivola, torna su se stessa, scende, facendo finta di essere sempre uguale, e poi, giunta in fondo, si convince che è sempre uguale.
E fa tic, e poi tac.
Anzi no, sono io.

E questi poveri uomini, che tengono la mia bara sulle spalle oramai da molte ore, non sanno dove piazzarmi.

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