Ovunque vai, qualcosa succede
Cara XXX
mi è difficile significarti quanto tu mi sia cara.
Ci provo iniziandoci una mail, ma è poca cosa, e si vede.
Però tu mi conosci e ci conosci, quindi non mi angoscio
più di tanto a formulare nuove espressioni per dirtelo, tu sei XXX, io
sono Alessandro.
Questo vuole dire niente, e vuole dire tutto.
Niente perché non ci basta; nell'evidenza di
me non copro né il bisogno di dover essere e fare qualcosa né
ci pago le spese di spedizione.
Tutto perché da ciò che siamo nasce tutto,
e tutto è già contenuto in noi prima ancora che lo compiamo o
non lo compiamo. A 5 anni eri la stessa XXX che ne ha 29, e a 29 sei la stessa
che ne ha avuti - e da qualche preziosa parte continua ad averne - 5.
Tu contieni te stessa, il tuo spazio contiene il tuo tempo.
Niente muore mai, e tutto, già avvenuto, sta per riaccadere.
Non è previsto un messia esterno per il nostro patire, al limite qualche buon incontro che maieuticamente ci faciliti lo sforzo di venir fuori da noi stessi, conoscere noi stessi per usare quelle parole così pesanti e profonde. Il "messia" interno, se proprio così lo chiameremo, ha per ognuno i suoi tempi. Ed è sempre un po' sfigato. Il mio è pure estenuantemente lento, ad esempio.
Avevo 14 anni quando sono iniziate le coliche e da allora
non sono mai cessate. Certo, ho avuto momenti di flusso e momenti di riflusso.
Certi giorni mi sento uno che potrebbe ottenere tutto, certi altri mi rannicchio
sotto coperte da barbone sperando che nessuno venga a rubarmi i cartoni o che
qualche cane venga a mangiarmi le ossa.
Da una cosa però mi accorgo che un qualche (misero,
lento, ma inesorabile) processo di *guarigione* è iniziato.
Ho familiarizzato con me stesso, vale a dire, con la mia malattia
psicosomatica.
Che, checché ne dicano sbrigativamente i medici, non
equivale a uscirne, o a iniziare il processo per uscirne. Per quello che ora
ne so, per quanto ho vissuto in me, capisco che serve a vivere dentro me, che
serve ad allontanare la fobia di essere me, e la vergogna di essere diverso
da ogni possibile proiezione del mio ego nel futuro.
Solo nel confronto con l'immagine che di noi introiettiamo
dall'esterno, elaborandola nel tempo irriflesso, avallata dagli altri a cui
siamo noi a porgerla (e che gli altri ci restituiscono potenziata di elementi
estranei, in un circolo senza fine) il nostro debole organismo (e tanto più
debole quanto più sensibile) avverte sé come sempre mancante,
come irrimediabilmente votato allo scacco.
Ecco, questo ho capito, a questo mi è servita la sofferenza
e la filosofia con cui l'ho innaffiata: che perlopiù teniamo maggiormente
in credito le (posticce, funzionali e spesso - quasi sempre - false)
immagini esterne di noi che la libertà di essere ogni momento quello
che siamo.
Quasi certamente non sarò mai il grande scrittore che
sogno ancora - come riflesso condizionato - di essere, o il musicista di culto
che scoprirete tutti voi cuori di pietra dopo la mia morte.
Embè, accettata questa possibilità, svuotatala
d'ansia, ho sottratto uno strato alla mia sofferenza e mi sono *appropriato*
del mio nulla e del mio tutto in un solo gesto. Credo di poter largamente rispondere
delle mie azioni, tanto ho in dispregio gli alibi miei con me stesso.
Farò delle cose al mondo, certo, ovunque vai qualcosa
succede.
Ma non farò cose - se anche la fortuna m'assiste -
che immagino e immaginerò essere sproporzionate al mio potere.
Non voglio arrivare lontano: per fare che poi? Le stesse
cose che posso fare dal mio costante qui e ora.
M'interesserebbe molto di più essere sempre in contatto
con le persone che amo ed i cui piccoli affanni ho assunto anche come parte
dei miei, quelle accanto alle quali il mio cuore non è costretto a palpitare
d'Altro, e a scovare con tempestività tutti quegli acari che si nascondono
nella moquette del desiderio.
La paura della paura, ecco cosa mi può tenere sotto
giogo. Ma ormai spesso la riconosco e un po' la blocco.
La paura delle cose paurose, che guardate in viso, son schifezze
come ce ne son tante, dalla notte dei tempi.
La paura della noia per te, la paura di divertirsi troppo,
per me.
Un giorno nasce e un giorno muore.
E moriremo un giorno, forse per passare a stati d'aggregazione
meno complessi e più sereni, e forse non ci servirà troppa consapevolezza.
Quella serve qui, a farci scorgere come, al di là delle apparenti differenze
"strutturali", siamo uguali alle pietre e ai fiori; ci siamo,
e questo è tutto, e questo è nulla.
Lì una frana o un colpo di vento, qui la scuola, la
famiglia, l'educazione, gli incontri.
Per ora io il tedioso corso che ben sai, tu il tuo lavoro
temporaneo nella biblioteca.
Qualcosa ci succederà. Qualcosa ci sta succedendo.
Qualcosa è già successo.
Ti bacio affettuosamente