Nullo die sine linea

 

   A cosa potrei mai – e con arbitrio – allegare parole che non precipitino in queste righe che s’assommano, una sotto l’altra, che non si reifichino in pagina o in video che supporto di future de-inumazioni saranno e persino ad esse pretesto? Ciò che sento è che mi trovo altrove dal luogo che adesso inquino, e che nulla è senza altri a presenziare all’eucaristia della lettura; nulla è senza la somiglianza delle argomentazioni al titolo del post e nulla senza la somiglianza della loro somiglianza a qualcosa di raffigurabile, comprensibile, esportabile, traducibile.
   Non so in che verso scorra il tempo, sul foglio.
   Certo, ancora meno so del tempo che dicono “scorra” tutt’attorno.

   L’afflusso principale sembrerebbe iniziare dall’inizio e finire presso la fine, ma non convince in guisa di fiume; più adeguato sarebbe vederlo come più grande affluente di nessun grande letto.
   La scaturigine è incerta: ora sgorga a mille metri d’altezza, ora zampilla nei recessi della terra, ora semplicemente da un momento inosservato dello spazio.
   Solo alla fine - già assorbito dal mare - potrà fantasticare una provenienza; ma allora, preso dall’oceanico torpore della mescolanza al Tutto, troverà nella rarefazione e nel farsi uguale al diverso motivo d’acquietamento.
   Fatto uguale al mare, come acqua acquietata dismetto le domande che il procedere richiama.

    Ma quando?
   E soprattutto, terminare la scrittura, si sazia dello scrivere?
   No, non ci siamo: ché asciugarsi di parole c’uguaglia al farci tutti presso noi, raddensarci attorno al nocciolo d’un simbolo ancora imperfetto, e avere la presunzione di poter produrre quell’illusione ancora un’ennesima volta.
   Un’ennesima volta, ogni volta, come ipocrisia necessaria, come necessità infida e avvilente. Dobbiamo ricominciare Sempre, dobbiamo sempre accogliere l’agnizione intermedia dell’impossibilità del Senso, dobbiamo terminare fuori dalla concavità fertile dell’Utile.

   Come Elettra a Clitennestra:

so che
faccio cose inopportune e a me non convenienti

ogni volta che la penna sfiora la carta o che le dita cominicano la farneticazione ritmica sulla tastiera: essa toglie l’odore al significato, il frusciare all’ansia, l’ansimare all’amarezza.

   Così scrivi e scrivo e scriviamo, trascinati a queste prode dai primi attimi, presto interrotti, d’ogni sogno o certi che quando l’universo imploderà, dal gran macello nuvoloso volerà via questo nostro foglietto, produzione del Sacro Sconforto Inconsolato, vagherà per anni luce e procellosi corridoi di luce estinta sino a giungere ai sensi di chi non potrà fare a meno che amarci, e scorgere in noi le sanguinose membra ausiliare dell’androgino.

   O forse è il mondo stesso che vorremmo dalla nostra parte.
   Vorremmo che le nuvole ci riconoscessero, invece di tirare dritto verso posti lontani che c’ignorano e ignoriamo.
   Vorremmo che l’erba ci nascondesse, l’aria oscurasse e l’acqua trasportasse gratis verso le Isole Felici dove gli animali stupidi d’estasi han bevuto tutto il Tempo alla fonte e occupato lo Spazio di canti e ottusi versi di gioia.
   Sì, scrivere è come propiziare ricchezze Altre, accattivarsi il Silenzio, recitare formule magiche che un giorno partiranno il Mar Rosso, e ci faranno piovere petali di rosa sul capo cinto di lauro.

   Scrivere scioglierà il cuore dell’Amore.

   E renderà inutile la vita.



 

 

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