Tutti i nomi del mondo

   Le scale del terzo piano del Policlinico di Messina; sono seduto in una piccola zona franca da cenere e mozziconi di sigarette. Tutto ciò che riesco a fare è guardarmi la punta delle scarpe, e far girare, nello spazio fra esse, come ballerina distrutta dalla gotta, il casco della moto che ho nelle mani. Le pareti sono intonacate di verde chiaro, ci sono macchie d'umidità sul soffitto e delle ampie zone espressioniste di cemento posticcio che si dipartono dal termosifone rugginoso del tramezzo.
   Un occhio della mia mente è lì, avvolto come un toast dagli eventi che si consumano; un altro è rimasto sdraiato sul letto della mia camera d'un sabato di riposo dal lavoro, un vinile di Art Tatum (solo piano) sì e no al terzo pezzo.
   Al centro preciso della mia mente giunge una telefonata.
   I piani si sciolgono l'uno nell'altro come ad opera d'un facile tastino a lato di una telecamerina ultrapiatta: le scale del *più grande pianista jazz di tutti i tempi* diventano le scale dell'ospedale che portano al piano di ginecologia del Policlinico. E non le scendo più, le salgo, arrancando per la fretta.
   Con me c'è un'amica. Le hanno detto che c'è bisogno del suo sangue di donatrice universale. Con me una colite che sale tre gradini ogni gradino che salgo io.
   Fuori piove, e non ricordo minimamente di aver parcheggiato la moto da nessuna parte. Continuo a giocherellare con il casco, e questo è tutto.
   2,5 mg di diazepam mi tengono incollati i pezzi del puzzle del mondo. Ogni zaffata di mozzicone e ogni ventata di infermiere che mi sfreccia davanti (a lato da sopra e da sotto) è come scollasse vecchia carta da parati marcia di pensieri umidi dalle pareti del mio cervello. Cerco di fare mente locale.
   Ma tutto ciò che intravedo sono macchie di muffa dietro brandelli di carta fradicia. Le pareti una volta devono essere state verdine. Potrebbero esssere stati 10 minuti prima, ma non vorrei giurarci.

   Un altro infermiere tira dritto. Dal modo in cui non mi guarda capisco che non cerca me. C'è un capannello di gente che rumoreggia dietro la porta che dà sulle scale. Devono essere tanti e diventano sempre di più. Rumoreggiano con lievità, come un canto negro di lavoro, seguendo una partitura d'angosce e pause di speranze, trovata lì come certi salmi si trovano sui banchetti di certe chiese di periferia. A ondate regolari, qualcuno se ne distacca per raggiungere l'ammezzato e fumarvi una, mezza o un quarto di sigaretta.
   Il suono pesante di ruote di carrelli e lettini li fa trasalire come se in un incubo si fossero appena avveduti di aver raggiunto il punto più basso del precipizio. Correndo, si riuniscono alla bolgia, sottraendosi alla mia vista, restituendola ai giochi minimali del casco.
   E tutti, appena fuori dal campo visuale, a voce più alta: allora?
   Cellulari suonano impazziti. Potrei ricostruire tutta la storia solo incollando quelle spezzate e convulse conversazioni che si svolgono ai cellulari. Ma davvero, anche se ci provo, non ci riesco. E' una lingua che capisco, ma non riesco a seguire.

   Poi vedo mia madre. Sporge la testa dal portone del reparto e mi cerca con gli occhi.
   Mi trova e s'avvicina. Si siede accanto a me. Mi parla, carezzandomi le mani. Ma no, non sta parlando; mi accorgerei se mia madre lo stesse facendo.
   Emette piuttosto dei suoni, e più li disarticola e più io li sento giungermi. Dallo sguardo che ha adesso sento che vorrebbe prendermi in braccio.
   Così capisco che sta cercando di consolarmi per qualcosa che ha fatto senza il mio permesso.



 

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