niente e tutto nello stesso tempo e in nessun tempo

 

sotto il peso dei pensieri, il sonno fa il giro largo, lunghe passeggiate attorno al lago, per tornare a se stesso, piedi sulla soglia della percezione; respinto, con crudeltà da un inesorabile e involontario trapestìo dell'anima, da un'inquietudine paga delle sue scorrerie.
nell'animo si affollano immagini vocianti che non rimangono lì dove io sono, ma volano dove ancora mi ritrovo bambino e ho una vita che non ricordo, ma che vedo e posso seguire.
a piedi nudi su un treno, le luci soffuse, e un odore fosforescente fluttuante per le carrozze mi precede.
mi sono stordito di solitudine e di distanza dal mio centro. vago su quel treno, in mezzo a figure di me che si fingono gente, e il mondo scivola all'indietro dai finestrini, ma torna da una botola sul tetto, ed è sempre diversa quell'identità di tutto, così apparente, e veloce.

ad occhi aperti, mamma, guardo indietro e vedo, e niente passa! - ci siamo ancora tutti, forse immortali o immortali senz'altro - noi che siamo la somma dei nostri sogni e incubi, delle cose che abbiamo avuto e quelle di cui siamo stati privati, dei film che abbiamo visto e delle vite nostre e di altri che abbiamo semplicemente immaginato, o girato in notti dove si fissava per sempre sulla pellicola dell'anima il rilievo concentrico delle immagini e dei gusti, il conio, il sigillo e la forma.
noi che siamo dentro ogni casa e ogni cosa, che abbiamo aperto ogni mobile, mangiato ogni cibo, atteso ogni pranzo e cena torturati dalla fame.
che abbiamo rubato e provato la colpa, abbiamo fatto bene e male e abbiamo intrecciato ricordi in trame immemorabili. siamo stati al funerale di tutti, e abbiamo visto la vita nascere ancora, dopo averne dimenticato la fine in ognuno.

quante volte siamo morti in sogno o "in un certo senso", precipitando o assassinati da figure nere che sapevamo di amare. quante volte precipitati dentro ascensori dai vetri trasparenti lungo strutture impossibili di metallo avvolgente, incendi d'argento sporco, e poi ancora qualcuno che ci cambiava il pannolino, o forse eravamo noi a cambiarlo a qualcuno. e corridoi di specchi, passaggi segreti del piacere di non essere soggetti alla gravità.
e tutti siamo stati bambini, ci siamo tenuti per mano, poi in braccio, abbiamo giocato con quel piccolo sorriso che poi è diventato la nostra donna, molti anni dopo che erano invece questione di minuti.
e non sai perfettamente, non sai con precisione, perché dici un nome, ma tutti gli altri pressano ai confini, saltano la staccionata, montano a cavallo e vanno via per spazi aperti.

avevo questa sensazione - non so quando, non so se prima o dopo e prima o dopo cosa - ma tutto scorreva su tutto, dentro tutto, in cerchi sempre più grandi.
cosa era tuo, e cosa era mio, cosa era della zia? ci appartenevamo.
attorno a una grande pietra sedevamo, con i fiori fra i capelli, e le mani strette l'una nell'altra, che erano le mani con cui ci sfioravamo, e non sapevamo se eravamo veri, o se qualcuno ci proiettava solo l'ombra. spesso tutto sembrava troppo bello per essere vero.
dove siamo adesso, mamma?
io non lo so bene, e per questo non mi muovo, e posso fare a meno di ascoltare lo sferragliare là fuori.
rimango a fissare oltre la finestra le colate di pece sulle pareti dei palazzi, quei palazzoni grigi e neri, con una sola finestra a spezzare superfici troppo estese. colombi dai colori uniformi sorvegliano quelle prigioni dove carcerati senza volto espiano la perdita della memoria.
poi guardo giù, e c'è sempre la strada, con il figlio del salumiere a cui lancio i giocattoli che non mi piacciono più, ad attendere.
so che presto ciò di cui mi disfo assumerà una sembianza mitica, occuperà lo spazio vuoto nella mensola perenne di ciò che la stanza originaria contiene.
quell'orologio ad esempio, il mio primo orologio con le lancette, col cinturino di pelle nera il giorno di un onomastico luminoso. ricordate la mia felicità? poi scomparve, e poi riapparve.
oggi ancora lo cerco dietro mobili o vecchie borse, ed è come se l'avessi ancora, nel cuore, a ticchettare per finta, a ticchettare per far onore al regalo, per far onore a quell'onomastico di luce, nel lettone, al piano di sopra, al risveglio di una notte di lampi, fra te e il babbo.
l'organo bontempi di plastica bianca e arancione, ed il suono che cerco ancora in ogni organo e che neppure gli organi delle chiese hanno.
ricordo che siamo stati felici, ricordo che non lo siamo stati più e poi abbiamo continuato ad esserlo. siamo stati fortunati, ma tu vivevi nel mondo, ed io nello spazio che aprivi per difendermi. era la tua ombra, ero la tua ombra.

basta una notte d'insonnia a richiamare tutto questo. allora annego i sensi in una tazza di camomilla, come solevo le notti prima di un esame, davanti al domani di domani, che potrebbe essere un giorno qualunque fra quelli già vissuti e mi sento come il Motore Immobile che crea l'universo nel gesto di pensarlo.

ho vissuto, dentro la mia vita, la vita di tanti altri, e talvolta, la mia vita è stata vissuta da altri. dovevo davvero solo stare a guardare.
mi sono imbarcato per mari perigliosi, oppure sono rimasto chiuso in mansarda, a comporre la mia prima canzone d'amore. poi suonai quella canzone a colei per cui fu composta.
e non riesco a distinguere se la meraviglia che sprigiona questo ricordo sia la meraviglia di quel pomeriggio così come avvenne o ciò che invece ancora contiene il mio fantasticare del come sarebbe dovuto andare.
ma in sostanza cosa differenzia ciò che fu da ciò che sarebbe potuto essere? un leggero velo, e i raggi ingannatori di un sole eterno di primavera e troppo ricco per curarsene.
noi crescendo non cresciamo; circoliamo attorno ad un asse più grande di noi, avvoltolando per tracciati imperscrutabili il lungo bandolo di una matassa misteriosa.

tutto si confonde, come se fossi sempre stato in questa insonnia, come se ogni pensiero fosse stato soltanto il gioco morboso con cui ho camuffato questa certa continuità di sentimenti, che a ben guardare sono solo colori come nell'arcobaleno, e noi gli omini che lo dipingiamo.
quelle belle giornate d'infanzia spese (ma mai definitivametne) a guardare la valle, e oltre essa il mare, e oltre esso la fantasia, il sublime, l'infinito!
come avremmo voluto esprimere tutto questo, e tutto il resto ancora; un resto che non c'è, perché ve ne sarebbe sempre un'ulteriorità che non potremmo mai dire tutta.
è lì che ancora miriamo, che veleggiamo in stato di apparente abbandono.
come queste parole ci sono rimaste soffocate in gola quando avremmo dovuto confessarle insieme al nostro amore, per superare la paura della distanza, per vincere il silenzio dell'imbarazzo e affermare la nostra ancestrale discendenza!
ogni amore mescolava le nostre carte, rendendo di nuovo infinito lo sguardo.

allo stesso modo, una semplice insonnia, un accenno di tachicardìa e una compulsione del cuore e della mano mi restituiscono a questo mondo incantato dentro il mondo prosaico della quotidianità, sogno dentro il sogno, specchio oltre lo specchio.

domani mattina questa formula magica, queste righe, saranno solo piccoli cadaveri, ossi di seppia vomitati dalla risacca dell'oblìo, e non recheranno alcuna traccia dell'incanto che questa sera mi fa simile a me stesso, ovvero a niente e a tutto nello stesso tempo e in nessun tempo.


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