Millenni
I toni del crepuscolo si riflettono sul lustro e opaco cristallo
del tavolino basso. Di spalle al mondo, affondato nelle profondità di
un divano iniquo, osservo il manierismo superfluo delle nuvole che lo attraversano
vanitose, fino a frastagliarsi sull'ombra finta del vaso dei fiori di carta.
Le immagini si dissolvono l'una nell'altra, con un tonfo invisibile di fuochi
d'artificio di vapore ricadente. Ad ogni angolo della stanza una luminescenza
giapponese inizia a estendere la sua microscopica aura sulle pareti, letargiche.
Cerco di guadagnare la fine della giornata, ma è come
se onde concentriche di rumori provenienti dalla vetrata dell'ultimo piano sbocciassero
all'attenzione, ronzando in un circolo che presto assume la complessità
di una sinfonia. Così faccio un giro per la casa vuota, consacrando il
buio d'ogni stanza ad altare di possibilità inespresse, di giornate in
agguato, di episodi futuri che fanno parte dell'arredamento pur non essendo
mai accaduti. Un giorno questo pavimento germoglierà eventi che sono
nei semi del tempo, sparpagliati nell'aere da spifferi nascosti, dove i salsicciotti
si stoffa non possono nulla.
Intanto porgo l'orecchio, e ogni suono proviene distintamente
dall'esterno. Ed è una tale felicità poter dire con un unico nome
la molteplicità che cade dietro ogni persiana, poter dire spazio l'apparenza
mentale contigua delle cose disposte nel loro rimescolarsi temporale. Basterebbe
un piccolo gesto voyeuristico del braccio per tirarle sù.
Ma intanto, quel rettangolo così permeabile al suono
della paura, racchiude in una medesima prospettiva tutto ciò da cui mi
distinguo e mi riparo, e mi concede la presunzione delle parole.
Le parole sono come queste persiane e prevedono ognuna un
gesto di proterva approssimazione difensiva.
Ogni cosa di cui potei evocare il nome attende quel vano esorcismo.
Le apparecchiature elettriche intermittono come cattedrali part time.
Attestano una presenza che tradisce un'ansia d'esistenza, blandendo ogni soluzione.
Spesso, confuso con i miei pensieri, penso che se un divano
potesse pensare non la penserebbe tanto diversamente da me.
Potrei essere un davanzale e guardare per sempre da quest'altezza
i movimenti solo apparenti della città che scorre verso domani come un
ruscello fangoso, e la vita che scorre giù fino a mare per rigagnoli
secondari.
Sì, sarei potuto essere la cima di quella montagna,
o i suoi ripidi declivi, o quella siepe che non separa più niente a nessuno.
Avrei guardato comunque giù a valle, consumato da un
desiderio comunque irrealizzabile di raggiungere la meta ultima di ogni movimento,
di essere condotto -bambino- al luogo premio dopo una giornata per me incompresibile
in campagna dagli zii, o di arrivare alla meta d'un viaggio in macchina che
ci prese tre interminabili giorni di ipnosi paesaggistica e si concluse con
una breve sosta senza regali prima del rientro a casa. La stessa casa.
Poi l'acqua mi trova. Dalla vasca fino ai miei piedi, dal
Manzanarre al Reno, dalla Montagna a Maometto.
Ha continuato a scorrere. Dita nodose di millenni mi sfiorano
per un attimo i pensieri.
Eppure ricordavo di averla chiusa.