Il meccanismo perfetto.
I'm
in love with extreme mental torture, canta Peter Perrett, in un mio
bellissimo giorno d'Estate, forse il primo.
C'è una subito aggredente discrepanza fra questa forte
idea (l'extreme mental torture) e la totale immediatezza dell'aria d'Estate
che pervade la stanza.
La finestra è spalancata; se fossi appena appena meno interessato
a fermare qualcosa - ovvero a comunicare un (presumibile) alcunché, ovvero
a interrompere qualunque evento del (presunto) continuum della mia vita per
profondarmi nel non-evento principe (c'est a dire la scrittura) della giornata
del giovane wimp di provincia - allora forse mi getterei sul letto, abbasserei
il volume dello stereo e inizierei a consistere in me stesso.
Bella roba consistere in se stessi; fermare le immagini, sindacare
sui segni di riconoscimento, pontificare sull'identità definendone i
margini, cesellandone concavità e convessità e indossandone l'anticipazione
nel solco della memoria.
I concetti dell'occidente sono creta, morbida e confortevole:
solo dopo avere fatto 4 salti sul materasso del pre-giudizio possiamo a posteriori
analizzare la sacra sindone postuma, immobile di sinonimica esperienziale, arrancante
di sostanzialità.
Sento tutto questo agitarsi nella mente. Capisco a posteriori
il perché della veloce attrazione esercitata dalla canzone. Poi m'annoio
di questo e di quel pensiero e penso all'amore. E penso a quanto esso ami accompagnarsi
al parossismo delle parole; a quante immagini (che si producono a getto diarroico)
reclamino chiosa immediata e comunicazione ancor più rapida; a quanto
turbine ci esponga felicemente e felicitantemente; a quell'instabilità
di ogni concetto, quel palpitare del senso d'ogni cosa che ce ne svela la normale
(e meglio celata) mistificatorietà e lo fa attraverso l'ipostasi stessa
della mistificazione. Quando tutto lo scibile umano in noi presente inizia ad
assumere delle misteriose e caleidoscopiche forme e si offre senza alcun filtro
secondario all'oggetto d'amore in guisa di gragnuola esplosiva verbale verifichiamo
facilmente quanto ciò accada nella nostra normale quotidianità
in ambiti e affezioni diverse dall'erotico, ma molto più brachicardicamente
e diluitamente.
L'amore (dico per intenderci, eh) serve, a ben guardare, a
svelarci tale intrinseca prostituzione delle parole ai concetti, dei concetti
all'intento e dell'intento alla pulsione.
L'indicibile rimane indicibile non solo perché non
ci sarebbe nulla di sensatamente sostanziale da dire, ma perché, se vi
fosse, sarebbe detto una volta per tutte.
E invece stiamo sempre lì, a fingere l'eterno, a consumare
nella velocità ciò che ci strugge, a centellinare un sapore malmostoso
e infingardo di natura, ad abiurare l'intera bibbia dell'Eros scritta con il
nostro sangue presto secco, a preferire il leggero e svelto cambio degli accordi
alla sola nota ripetuta all'infinito.
Così, piuttosto che consistere in me stesso e trovare nell'ineffabile silenzioso tepore del primo giorno d'Estate il centro immobile del movimento dell'universo, sto semidesto, con espressione ebete e rassegnata a congegnare il perfetto meccanismo con cui sciuperò un momento irripetibile.