Un posto dove non sono mai stato
Potrebbe essere stata una stanchezza in cui si scivola senza averne avviso o potrebbe essere stato qualcosa nel cibo. Così, senza preavviso ho rivisto quel posto.
Vi avevo nascosto tesori terrificanti.
Tesori vani, di una materia tanto logora che il contatto
con l'aria sarebbe potuto essere loro fatale. E in più, non li avevo
mai posseduti.
O perlomeno, mai trovati seguendo le indicazioni di mappe
che non ho mai rinvenuto. Quei sogni erano sogni inaccessibili.
Mi è sembrato - così, con la pervicacia dell'incoscienza
- di poterli sfiorare partendo da appena una flebile presunzione di presenza.
Attorno al ricordo della mia sagoma oscura aleggia ancora un'aura di penombra
indistinta, dai confini incerti e cangianti.
Ero geneticamente disposto a sognare; se poi sognai realmente
non saprei dire, ma molte tracce posticce conducono a credere di averlo fatto,
e il mondo, questo mondo, è al contempo questo ed un altro mondo, questo
e milioni di altri mondi. Siamo forse noi ad essere, in parte
per scelta, in parte per coerenza ad una cecità significativamente presunta
sempre e solo quello che siamo.
Io e la mia breve storia avemmo inizio da un letto, e da
colori che ondeggiavano in una foschia alogena d'adolescenza. C'era una stanza
a cui ricordo d'esser tornato, ma non ricordo da dove. Era da tanto che non
vi tornavo.
Sembra irreale pensare che abbia potuto farlo chiunque altro.
Abbassavo le palpebre dopo la fatica del giorno e scoprivo che là sotto
stava annidato qualcun altro, che non conoscete. Chissà da quanto.
Sì, anche di questo ho un vago ricordo, non ero solo.
I n seguito però presunsi di essere solo. I confini
del mio corpo si prestavano a false deduzioni.
Contenevo universi, e rigurgitavo paure.
C'era allora quel qualcuno che aveva preso metà del
mio buio e ampi appezzamenti del mio silenzio, lasciando in giro chiazze d'asimmetria,
terra rivoltata da possenti aratri. Appena tornato (nell'unica vera occasione
in cui mi fu possibile tornare a quel mio - da tempo immemorabile - nido)
rimisi in ordine, in un'attesa palpitante di disordine e delle mani che lo spargevano,
con tocco intermittente a dispersione di calore. Il suo contatto con gli oggetti
avveniva attraverso piccole perdite di calore. La sensazione tattile si dava
in guisa di entropia comunicativa, sacrificio esperienziale, devoluzione di
senso a fondo perduto.
Se qualcuno era passato da quella stanza le impronte conducevano
oltre la porta, perché dalla linea di confine filtrava, trapuntato sul
buio, un tappeto di blu fosforescente.
Sembrava che sogliole, quei buffi pesci piatti, di medie dimensioni
circolassero ordinatamente, apparendo e scomparendo da quello che per loro doveva
essere un tunnel, ma che per me era solo una soglia che sparava verso i miei
piedi una violenta e luminosa tenebra, squarciando la grigia penombra in cui
gli occhi erano immersi.
Le vedevo percorrere il battiscopa fino alla parete parallela,
prendere la scorciatoia del soffitto e poi scender giù lungo la porta
da cui erano sgusciate, tremolando d'un sonno che forse era mio, come forse
era solo mia la stentorea melodia di carillon che, come note s'un pentagramma
di geometrie cicatrizzate, quei pesci di luce indifferente tracciavano con ripetitiva
solennità.
Il loro moto era lo stesso di quello dei pianeti, un decoupage
inesorabile. Nessuno a notarlo.
Quella notte non aveva mai avuto inizio.
Tutto era in ordine, lentamente esatto.
Quella sensazione lasciava la mente in balìa del sospetto
di costituire l'unica stonatura a gravitare attorno al centro di quell'universo
di fosche stanze comunicanti.
E sì che non potevo salire sulle pareti e non potevo
passare sotto l'esigua soglia.
In più mi domandavo chi fossi e perché mi fosse
concesso chiederlo al buio in ascolto, oltre che a quella presenza che mi lasciava
in eredità l'enigma d'un inseguimento improbabile.
E che continuava a volermi sollecitare alla curiosità.
Come da certi piccoli turbini conflittuali d'elettricità
io ero pervaso da domande.
Ero stato destato per quello, con addosso il dubbio proveniente da abissi di sapienza che si erano subito cicatrizzati in una pesante dimenticanza. Sentivo il dondolìo del mio corpo e quelle mani che mi scuotevano, per scomparire subito sollevate le palpebre.
Ora avanzavo verso la porta, risoluto a spalancarla.
Ero stato destato per chiedermi preliminarmente se il mio
aprire gli occhi su quel mistero fosse dovuto ad una mera vanità di ciò
che non ero e che mai sarei potuto essere (la cui forza deiettiva mi aveva posto
là) oppure vi fosse un punto a cui giungere, una conoscenza da fare,
una parola da dire che condensasse in un punto solido l'intero scibile delle
curiosità.
Se vi fosse stato, io mi ci sarei arrampicato e da lì
avrei spiccato un salto nel vuoto senza fine.
Sarebbe equivalso a mai nascere o a essere sempre stato o
a essere finalmente dotato di una mente extra-temporale dal cui saldo basamento
contemplare l'infinito passato nell'atto di convergere sull'infinito futuro,
in spire di fumo senza fondo.
Il desiderio che tutto fosse circonvoluto e autogenerato,
come una serie totale di bambole cinesi, come un moto perpetuo di voluttà
a caduta libera m'inebriava, e già vedevo aprirsi balconi su ogni segreta
bellezza di segreti universi e segreti pianeti.
Vedevo scalinate di marmo intarsiato su stapiombi di stelle,
e vortici vertiginosi di polvere senza posa.
Vedevo la vita farsi e disfarsi, a differenti velocità,
nella gamma più completa di modi e attributi, sotto una pioggia di nomi,
aggettivi, verbi, parole, lettere che formavano arcobaleni d'imprecisata lunghezza.
La sensazione era d'aver insetti addosso. Insetti fastidiosi,
ma veri, insetti in ultimo, forme di vita minutissima, verità ricombinante.
I suoni sibilavano come vento, come messaggi di nessuno a
nessuno, circolanti a solidarizzare, senza alcuno scopo individuato, a rinforzare,
coibentare la dimensione del sempre da ogni spiffero di...
...tempo.
Quanto macabra mi giungeva questa parola.
Il dondolìo sulla spalla, il margine di oscillazione,
laddove prima era tutto fermo.
Perché come parola, come parte di tutto nel Tutto,
il tempo era una parola. E, sola particella di senso in quel turbine di elementi,
mi minacciava e continuava a scuotermi, incrinando la perennità del sonno.
Se qualcosa era possibile dire, se io potevo vedere,
allora il tempo in qualche modo, da qualche parte, era penetrato. La mano, la
mano. Nient'altro che una mano, e una trasmissione di moto. L'unico elemento
generato in quel buco edilizio eterno, l'unico elemento che solidarizzasse con
la mia comprensione, spargendo dubbio.
Come uno spiffero di mancanza, come un insinuante tarlo ultrametafisico,
il tempo penetrava da qualche spiraglio nascosto, e rendeva possibile la mia
visione. E l'uomo d'ombra, avventore del mio buio e le armate di insetti, vi
dico, ognuna con il suo messaggio. Slogan, in definitiva, che s'accettano
come s'accetta Dio, per fede, non solo politica.
Perché le forme, dunque?
Perché il loro divenire, anche se circolare, avrebbe
dovuto fare bella mostra di sé davanti ai miei sensi inebetiti? Da dove
quello sfoggio autolatrico di potenza?
La potenza definitiva, pensavo, sarebbe stata il Niente. La
potenza definitiva non sarebbe stata.
Quella potenza non poteva quindi essere fine a se stessa,
perché c'ero io.
C'era qualcosa di diverso, di estraneo, di disomogeneo.
Una pulce coriacea, aggrappata con i denti sul manto peloso
dell'Infinito.
Sarebbero prima o poi giunte la zampa e le unghie che mi avrebbero
grattato via. Ma via verso dove?
Come immaginare un altro? Bandito dal Tutto, bandito
dal Niente (che sarebbe sopraggiunto), dove sarei stato eiettato? Contro
cosa avrei trovato requie mortali dopo essere stato scagliato a velocità
folli?
Il semplice fatto che fossi qualcosa, qualcosa di cosciente
di sé, o cosciente di una qualche forma (per quanto parziale o bislacca)
di autocoscienza avrebbe potuto negare persino la negazione ultima.
Non c'era, ammesso il precipizio, alcunché a terminare
lo schianto. Io ero semplicemente impossibile. Eppure ero.
Solo la trepidante quiete dell'ignoranza mi permetteva di
non impazzire; solo il sentore dell'apparenza di quell'enorme percezione che
andava dipanandosi in ogni mio distretto di senso mi tratteneva dall'emettere
l'urlo che mi avrebbe squarciato il petto e la gola, dall'interno.
Finché il pensiero mi avesse accompagnato sarei stato
lo zimbello delle stelle.
Ogni sagoma di movimento in cui ero perso, il gorgo volante
ed autoerosivo che mi frullava le idee e andava a sparpagliarle su ogni percezione
non avrebbe smesso di nuocermi sino a quando le avessi opposto un contromovimento
d'estraneità.
Io penso - pensai - consistendo nel mio pensiero. Potrebbe
essere questo il contromovimento, la corrente contraria che dal mio primo istante
io avverso con tutte le membra e tutte le intenzioni. E' la solitudine e lo
scherno del mio stato d'esistenza, la vuota intermittenza delle insegne pubblicitarie
nella mia notte dei tempi.
Nel folto dell'erba insetti divorano insetti. Insetti si riproducono.
Nelle lontananze dello spazio sidereo pianeti si disintegrano
uno sull'altro.
In una vecchia stanza con la muffa alle pareti un uomo sta
lasciando una donna che si getterà dal balcone. Lui la guarderà
cadere. Piangerà, non lacrime di disperazione ma di ringraziamento.
In quel breve istante sente vivo - in un sordo batticuore
- il ricordo di ciò che è stato.
In ultimo prenderà il cappotto dal letto ancora caldo,
e cercando di non far rumore scenderà le scale dell'hotel. Ce l'ha fatta.
E' fuori. Tutto potrà cominciare una volta ancora.
Ogni senso di colpa si perde nella vastità del buio.
Tutto questo è successo una volta.
Tutto questo è successo due volte.
La terza volta tutti hanno già dimenticato.
La terza volta ogni evento diventa regola e può essere
addobbato con palle colorate, a scaglie e a glitters. Ho messo tutti i pesci
che mi hai regalato nell'acquario.
Ma non passo più le ore a fissarlo. Eppure sento che
se spegnessi i suoi neon, se dimenticassi di dar da mangiare ai pesci e dessi
il la alla loro cena reciproca, avvertirei fisicamente la mancanza di quella
regolarità, di quella sofferenza compressa in circoli inevitabili e fantasmatici.
Anche il supremo creatore ha i suoi circenses autoinflitti.
Tiene in piedi l'universo senza sapere perché. La rappresentazione
è più forte e non esiste scrittura che possa sfondare il velo
della vacuità senza parteciparne.
Tutto questo continua ad accadere, da qualche parte.
Tutto questo non è mai abbastanza e forse non esiste
modo di evadere dalla sua necessità. Forse noi tutti accadiamo ancora,
in un'altra sembianza, e continuiamo a girare alla ricerca dell'illusione di
una fine, di un riposo, di un crollo definitivo.
Forse certo, forse, come se avesse un senso dubitarne, o dubitare
di qualunque cosa, o averne certezza.
C'è una sala dei bottoni, nella nostra fantasia, adagiata
in un crepuscolo riverente, che resiste ad ogni ciclo di distruzione/rigenerazione.
Siamo certi di questo, e allo stesso tempo sappiamo che è un balla.
Ad ogni modo, un nostro antico avo vi lavorava. Certo, è
passato tanto tempo. Forse in qualche tratto gli somigliavamo, immagine e somiglianza,
dicevano. Forse addirittura qualcuno potrebbe riconoscerci.
Così allora il nostro sangue potrebbe assicurarci un'eccellenza,
una raccomandazione significativa. La nostra vita, se solo sapessimo come attivare
quel privilegio, potrebbe trascorrere su un tappeto di velluto rotolante. Ognuno
coltiva la segreta speranza d'essere lontano parente di quel demiurgo. L'aria
si farebbe più sottile, opponendo meno resistenza al nostro passaggio.
Le mille e una notte sarebbero milioni e milioni e si perderebbero nell'avanguardia
di ogni desiderio possibile, fino a rendere superfluo il desiderio ed eterna
l'angoscia che crea mondi.
Ma no, la felicità, come la testa nella porta, era
un sogno. Giustizia lo richiese.
Il cadavere di Dio viene giù a pezzi di questi tempi,
fracassando i grattacieli e le fortezze, mandando in frantumi tutti i cristalli
del mondo sublunare, crepando le belle porcellane, pisciando sui divani, masticando
con dentature mosse da convulsioni incontrollabili le nostre ossa vuote e il
loro ripieno di riflessi infrolliti.
Com'è possibile che gli si sia sopravvissuti? Eppure
ancora vedo e ancora percorro giornalmente la mia strada dall'utero alla fossa,
e nessuna automobile irrispettosa del significato delle strisce pedonali può
ammazzarmi. Sotto il mio cappello, fasciato dal bavero del mio impermeabile
e identificato dall'insieme delle mie abitudini e di coloro che delego a contestualizzarle
io osservo il tempo e non ne faccio più parte. Osservo il mondo e niente
può più ferirmi, perché io, io sono il mondo.
Com'è possibile dire ancora qualcosa?
Eppure, state a sentire.
Sta passando troppo tempo. Mi preoccupo e vado a vedere.
Busso alla porta del bagno.
"Tutto bene, lì?"
"Arrivo tra un attimo" dice.
E' tornato dentro, al nostro sacello d'oscurità, che
lo avvolge senza residui. Richiude la porta delicatamente, badando a non intralciare
il traffico delle sogliole. In qualche remota galassia ciò regola strani
cicli.
Si siede, dalla sua parte di scacchiera.
Ma ha qualcosa nello sguardo, ed è incapace di riprendere
subito le operazioni.
Alza lo sguardo, dopo avere trafficato per un po' con la patta dei pantaloni, in cui s'incagliano le ultime propaggini della barba.
"E se esistesse un punto fermo, eh."
"Mettiamolo pure", dissi, e nel metterlo, trattienni
per un attimo il respiro.
"Esiste, per questa ipotesi, un angolo, un meandro lontano
che se vi poggi la mano, e poi puntellandoti con le ginocchia ti ci alzi in
piedi, regge. In senso assoluto, questo punto non c'è. Ma è
come se ci fosse".
"Hai guardato bene, vero?" chiesi.
"E' da sempre che guardo in giro. Ho fatto il giro di
casa miliardi di volte".
Accesi una sigaretta.
"Se questo punto esistesse davvero. Non ho mai
effettivamente pensato a cosa ne conseguirebbe. Non ne ho mai avuto il coraggio".
"Eh eh, non sono discorsi che uno s'aspetterebbe di sentire
da te".
"Credi davvero che se quel punto esistesse tu saresti
qui? No, neanche io so dove saresti".
"Tu invece, dove saresti? Tu che tieni in piedi
questa baracca per il solo gusto di tenercela, tu, custode stanco e impotente
di un disordine che non può essere emendato. E di cui hai sempre dato
la colpa a me e a quelli, insomma, quelli come me".
"Mah, è che io mi ci sono affezionato, alla baracca.
E' un'affezione alternatamente sadica o masochista, lo so. Ma sii realista,
se ci riesce, semmai avesse un senso. Che altre possibilità mi dai?".
"Di te non so, vecchio. Certo dev'essere una bella fregatura
non poter morire. Non ti invidio. Non concepisco non avere forze superiori alle
spalle, chessò un datore di lavoro, le forze della natura, la morte.
Mia madre me lo diceva sempre, che ho la stoffa dell'impiegato. Di te non so.
Dev'essere una gran fregatura. Mi spiace, lo sai".
"Risparmiati la pena, io non sento assolutamente nulla,
neppure la noia, se la intendi come angoscia della ripetizione, non provo emozioni
e in ultima sostanza me ne frego di quello che combinate voi nelle vostre periferie.
E quanto a quest'universo, non sono stato io a crearlo. Ho trovato tutto così.
Il lavoro me lo sono un po' inventato, quando mi avete invocato".
"Vabbè, ora possiamo tornare agli scacchi? Non
si cava mai un ragno da un buco con te. Tzè. Dieci anni Teologia
quando sarebbe bastata un po' di psicologia spicciola della terza età".
Nel mezzo della stanza, sfogliato da un vento impossibile,
il vecchio volume del mio diario giovanile veniva risucchiato oltre la finestra
da una prospettiva di assurdo.
Mi sentivo stanco.
Molto stanco, stanco di una stanchezza in cui si scivola senza
averne avviso.
Stanco, come esser stanco di essere per sempre quello che
continua ad alzarsi dal letto senza trovare il pavimento. Stanco di idee, stanco
di vista, stanco di nome e di postura.
Così, senza preavviso ho rivisto quel posto.
E quel posto colava giù lentamente, dalla finestra,
insieme ai modi per dirlo.