Un lampione alto e fuligginoso

   Scandiscono l’estate, là fuori, poi gridano di lunghe code ritmate e lente di fuliggine stroboscopica. Li sento, con fastidio.
   Ad ogni modo basterebbe girare la testa per vederli. Io però continuo ad essere bloccato da altri pensieri e ad immaginarli soltanto, sempre con fastidio, attendendo che il senso prenda la mia mano inconsapevolmente e mi racconti qualcosa con un senso, di loro. Ma come fare? Un’emicrania mi chiude in me, e mi spinge verso i giardini fosforescenti del ricordo.

   Continuano a battere le mani, accompagnando la caduta della cappa polverosa sulle immagini, intonando canti ripugnanti che pure sono vita, ma che valgono più per il fatto di prodursi che per qualunque cosa possano richiamare. Sono sordidi gli uomini: vivono e del resto non si curano.

   Entrano in quel cazzo di stanza, danno uno sguardo alla tappezzeria, uno ai quadri e mezzo alla libreria, poi si buttano davanti alla televisione e tirano fuori, fino a quando non muoiono, lattine di rutti e cibi marci di parole.
   Quando si fa tardi annotano una X su un pezzino di carta rilegato insieme ad altri, sotto una serie di numeri che cambia di giorni in giorno. Se avessero voglia scriverebbero nella prima pagina “anche oggi altre 24 ore sono passate. Grazie a Dio”. Il fatto che non ne abbiano voglia, talvolta lo fa loro dimenticare. In quella dimenticanza, la loro miseria canta, talvolta canta oltre la miseria da cui proviene e vede posti bellissimi e inaccessibili.

   Anche stanotte ho sognato un mondo ordinato, ho sognato i baratri della bellezza che si spalancano dietro l’armonia prevedibile dei corpi. In quel Posto il Dolore era la Bellezza.

   Nel sogno c’erano anche stelle enormi e scalette a pioli di corda spessa che da lassù scandagliavano il vuoto sottostante. Naturalmente saltellavamo per cercare di afferrarle e poi subito smettevamo. Ci sdraiavamo sull’erba umida e le stelle ci solleticavano il naso con le loro scale di corda, un po’ sbeffeggiandoci un po’ eccitandoci. Se allungavamo un braccio, si ritraevano più veloci.

   In un modo simile provavo a girarmi velocemente alla mia destra, o alla mia sinistra, per sorprendere qualcosa che, come me, ama l’abitudine. Ma o non ero abbastanza veloce, o i miei attimi di imprevedibilità corrispondono esattamente ai suoi.

   C’era tutto il mio passato, in quel Posto Meraviglioso. Il che non significa che il mio passato sia tutto meraviglioso o che lo sia perlopiù. Il mio passato dev’essere proprio come tutti i passati quando sono riguardati: di una bellezza mortificante e vana e per lunghi tratti inesorabile. In termini assoluti un solo notturno di Satie è ad essa preferibile. Sullo spartito il notturno è leggibile e chiama sempre interpreti. Il mio passato è invece un insieme di fratture scomposte, di colori di ascensori e di lunghe ore spese fuori da ogni possibile geografia.

   Cento volte sono stato sul punto di raccontarne, al culmine del piacere del nulla e dell’amore. Ma quelle parole mi morivano sulla lingua e mi davano gengivite, a lungo andare.

   Ho dovuto creare io stesso le persone che mi avrebbero saputo ascoltare. Ho detto loro per cosa sarebbe stato bello commuoversi, e per cosa sospirare profondamente. Ma non funzionò mai.

   Ero invidioso: loro avrebbero potuto trovarmi, per fortuna o per Destino. Io ero sulla loro strada, e avrei voluto essere loro in quei momenti. Ad un crocicchio al crepuscolo, testimone la luna ingannatrice.

   Poi i tempi e i desideri non coincidevano mai.
   Ricordo quella giovane tedesca, bruna e dagli occhi luminosi, quando rimanemmo soli davanti al camino nella baita, quando gli altri erano già saliti a letto. Avevamo 15 anni a testa, sentii formarmisi delle parole dentro, e poi venni soprafatto da immagini. Avrei voluto essere uno schermo, e mostrargliele tutte. Ma non riuscii neppure a dirne, perché il nostro intermediario interprete era già andato a letto. Ero sicuro che se fossi riuscito rappresentarle le leggere sensazioni che starle di fronte mi dava avrei potuto superare la mia estraneità. Ero anche sicuro che fosse la certezza che non lo avrei mai fatto a trasformarsi in quel differito benessere.

   Oggi però so che non c’era davvero nulla che avrei potuto dirle. Mi sarei forse reso simpatico, avrei ceduto del calore corporeo e sarei riuscito a sortire in lei una reazione. Io invece sognavo la totale Aderenza Trasparente. E non sapevo neppure perché fosse lei a generarmi questo. (Era il Caso d’averla di fronte, mi suggerisco adesso).

   Non ci stavo neppure al pensiero che bastasse sfregarmi per sollecitarmi i Vapori Metafisici. Ma è forse così. Ora immagino di avermi sulle gambe, bambino e raccontarmi tutta la verità.

   Io bambino mi sarei odiato Me da grande.

   Oggi sono cattivo, e tifo per la salute, per il benessere, per la via breve e la vita semplice. Il mio blocco con le bambine, il delirio idolatra della distanza a cui le ponevo è oggi una piacevole tossicodipendenza dal contatto. Mi sono trasformato in tutto quello che desideravo perché non ero. E io bambino avrei odiato questo me grande che mo’ sa pure parlare di ciò che un tempo era un Universo Infinito e l’indifferenza del mondo.

   Ora che riesco a comunicare, che riesco a sottrarre agli oggetti dell’esperienza la poesia della distanza, la grandezza dell’anzianità, il mistero del sempre stato, la profondità di ciò che per me è incomprensibile mi rivedo bambino e mi sento giudicato.

   Ecco cosa ero da bambino: ero la sensazione dell’Eternità del Tutto e il sentimento della mia insignificanza.

   Ero piovuto al mondo per caso, e mi era precluso il capirne il motivo. Non capivo bene il motivo per cui fossi stato gettato in questo strano posto e in qualche modo lo cercavo. Ma il concetto era qualcosa di troppo elaborato, pretestuoso persino poter ambire alla sua ombra. Ero in una valle di forme, e le cose mi sconvolgevano per la loro essenza e per gli infiniti rimandi che secernevano.

   Ricordo le ore passate al balcone, dopo cena, a fissare il palo della luce a chiedermi quanta gente avesse mai illuminato, e quanti millenni avesse illuminato prima di illuminare la piccola viuzza sotto casa. Le cose erano profondamente piantate nel Tempo, vetuste di storie e di aneddoti nascosti; io ero invece accidentale, provvisorio e troppo curioso.

   Avrei creduto in qualunque cosa si fosse fermata a raccontarmi la Vita. Ma come spesso va, niente lo fece. Amavo quel lampione alto, storto e parzialmente arrugginito.

   Non so esattamente perché. Forse perché era alto, perché era storto e perché era parzialmente arrugginito. Forse perché illuminava quella piccola stradina sterrata da cui ogni sera passava la macchina dei miei genitori che rincasavano. Forse perché riusciva a illuminare tenuemente anche l’altro lato della stradina, dove stava un intero complesso, con tutte le sue finestre, androni, pianerottoli, balconi, e dove, sparpagliati fra le aiuole, stavano un paio di altalene, di scivoli e di piccole giostrine, di quelle con la ruota centrale che giri e dopo 5 minuti di giro devi vomitare.
   O forse lo amavo perché potevo di nascosto sognare di essere uno dei mille pedoni che di sera gli sarebbero potuti passare davanti, distrattamente, con l’aria di chi mai e poi mai avrebbe potuto averlo come oggetto del pensiero.

   Un pedone estivo di una stazione balneare estiva, con la propria ragazza sottobraccio, con la macchina, e con il libretto delle spiegazioni della vita custodito per bene nel cruscotto. Un alieno, in poche parole. L’Incomprensibile.

   Non potevo afferrare assolutamente nulla di quanto mi scorreva attorno. Come avrei potuto capire la vita di qualcun altro? Tutto ciò che potevo arguire è che lui avesse capito, che ci fosse un momento nella vita in cui si capisce tutto. Un momento che si raggiunge dopo migliaia di duri sforzi, di vita faticosa e sofferente.

   Invece ora penso che sarei potuto essere io, a passare di notte sotto quel lampione, mentre dai balconi della zona si diffonde l’odore di carne arrostita e si mescola a quello della salsedine. Ho una bellissima ragazza sottobraccio, la più bella che avessi bambino potuto mai vedere, più bella persino della mamma. Cammino distratto, pensando a qualcosa che non riguarda il lampione, né questo mondo.

   Sto in effetti pensando al me bambino, irraggiungibile nei pochi metri che mi separano dal suo Balcone Onirico, svanito in un turbine di Meditazioni Metafisiche la cui intensità poi non è mai più stata raggiunta.

   Sto pensando proprio a quel bambino, e lo sento pensarmi proprio mentre lo penso.
Nessuno mi conosce tanto bene, eccetto per un punto.

   Lui crede che io adesso sappia qualcosa del mistero che lo avvinceva. Che io sappia qualcosa e che se me ne chiedesse potrei in qualche modo rendergliene conto.

   Un adulto non può non saperlo.

   Penserebbe ad una celia, ad un bieco raggiro da adulto se, stringendolo a me con sconforto fossi io a chiedergli di parlarmi del Mondo, dell’Universo e delle Stelle e del singolarissimo modo in cui quel lampione ne illumina ancora la distanza.


 

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