I know who you are at every age

   
   Tornato a casa dopo un'ora di macchina sotto il sole, con il tuo nome in mente e chiazze di sudore sulla camicia, in prossimità delle ascelle.
   Ho provato, invano, a capire cosa vi facesse il tuo nome buttato di piatto nei miei pensieri, come vi fosse finito, così, tutt'a un tratto, senza che ve lo avessi appositamente richiamato, insinuatosi fra le piume della coscienza approfittando di distrazione o forse emerso da me o da qualche oggetto immemorabile della giornata, per caso o per destino.
   Ho preso così a domandarmelo, e di domanda in domanda gli echi si son moltiplicati, il nome è andato in maiuscolo nella scrittura della mente; nel giardino perfetto dove qualcosa è avvenuto o deve ancora avvenire piccoli riflettori ti inseguono, mentre tu, imbarazzata, li fuggi e presto desisti.
   Sei inchiodata agli effetti adesso: la luce ti immobilizza al senso, con legacci rampicanti, e io, nascosto fra il pubblico che temi, ti sto a spiare.
   Ho percepito con la logica parte di quello che sotto forma di sottili vibrazioni mi mandi, ho intravisto dei posti dove la tua immagine s'incastona nella natura complessiva del tempo e dello spazio, senza urti o fratture.
   Non posso sapere esattamente cosa siamo, noi uomini, eppure percepisco talvolta delle provenienze.
   Avverto come parte della pelle, o forse appena sotto, zone ombrose della percezione. E non è una percezione attuale, o attuata.
   In parte è come se potessi far breccia nella sua potenza non attuale, e mi accontenterei di definirlo così, se non sapessi che, in un passato incalcolabile, ciò è già accaduto.
   Non è un deja vu però, perché qualche dettaglio è stato spostato, qualche volto è cambiato, le identità sono aeree. Come se vedessi i corpi dei ricordi, ma non i visi. Ma neanche questo è esatto. Il tuo viso è quanto mi richiama tutto, e m'indirizza all'esprimerlo.
   E' un circolo di suggestioni, chiuso in sé e senza spifferi fuorché questa mia labile capacità di intuirlo, o di sprofondarvi per brevi istanti così profondamente che se fosse lecito indugiarvi per poco più ogni forza per fare ritorno mi mancherebbe.
   Non so chi sei, non so nulla di te come tu ti vedresti o altri farebbe, non vedo nulla fuorché questo che così faticosamente riesco a trasformare in parole. E so bene che non saresti d'accordo anche se confessassi l'implicito arbitrio del dare il tuo nome e il tuo volto alla sensazione antropomorfa che mi torna così ondosamente alla mente e si diffonde in periferia senza trovare gli ostacoli che consuetamente il clima a loro non oppone fuorché in queste giornate eccezionali e torride.
   Forse dentro quanto tengo dentro c'è anche una ragione, ed è quella del perché la tua bellezza non mi sia indifferente e allo stesso tempo lo sia, del perché mi sia stato dato conoscerla prima di vederla, di sentirla parte della mia vita prima che in essa si manifestasse.
   La tua bellezza così ordinata e scrupolosa, così attenta e schermata, pulita e odorosa è la bellezza che era innata nel desiderio della mia cultura domestica, adagiata nella quiete della distanza anagrafica e sempre rimandata ad un giorno che, se fosse dovuto arrivare, sarebbe stato uno di questi qui che vivo a 29 anni.
   Sognavo una donna, o la sognavano le pareti della mia stanza rimandandomene il riverbero, che fosse piacevole guardare , che avesse il tono delicato della tua voce e l'aroma leggero del tuo alito, che fosse più pratica di me nelle faccende esterne della vita e che da questa me ne facesse schermo, ma senza accorgersene ed anzi credendo al contrario di ricevere asilo dalla mia essenza accaldata e sempre arrancante. Erano i tempi in cui era semplicemente la fantasia a costruire i mondi e questa vita continuamente differita.
   In quei tempi la dolcezza dei tuoi lineamenti, la finta concretezza e la finta sicurezza del tuo sguardo erano il fantasma da portare ad ogni appuntamento onirico e immaginativo, spinto in una società ipotetica ma in fondo abbastanza reale, urbana e regolata assai; bella auto e bei figli, amici rigorosamente scelti nella cerchia censitaria comparata, domeniche nella casa di montagna o al mare, e poi ferie in qualche posto esotico per impiegati.
   Sognavo di me altre destinazioni ideali e nello stesso tempo volevo per me una donna come te: diversa da me e proprio per questo bisognosa di me.
   Non so come fu, poi, ma finii per equiparare l'amore all'ideale, e volli colei che potesse seguirmi nei baratri profondi dell'intuizione e nelle penombre della mia deficitaria complessione, problematizzando il respiro.
   Tutte le impossibilità successive girarono attorno a questa volontà, avvertita come necessità.
   
    E tu tornasti ad essere parte di quel mucchio che il mio mestiere respiratorio mi legava ad esecrare.

 

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