grandezze

 

Le cose più vicine, le cose che tendere una mano nella loro direzione ci naconde - quasi con affetto - la solitudine siderale dei corpi, sono universi di grandezze aliene.
La piccolezza, tenera dimensionalità portatile, che associamo a tutto ciò che v'è di ordinatamente familiare, a ben penetrare con perequazione intellettuale i corpi, e avendoli quindi trasposti in dimensioni *umane* (ovvero raffigurabili) sono già la vita su Marte, o Atlantide o Avalon.
Un prato, la rassicurante cresta ondeggiante dei nostri autunni più miti, è anche un universo, e non meno universo perché di dimensioni minori.
Ma com'è che cade il pregiudizio dimensionale? Di fronte all'imponenza di un rilievo montuoso, o all'infinitezza del confine marino, il respiro si riempie di soggezione, fino ad annullare ogni boria d'autocoscienza.
Ma anche in un piccolo insetto, in guisa di quelli che si scacciano e schiacciano con distrazione sulle arroventate verande d'estate, v'è un'architettura strutturale ugualmente strabiliante, se non più sorprendente perché operante - appunto - in spazi per noi angusti. Vorrei aver avuto occhi più piccoli e pigmenti più acuti.
Quanto afferriamo con mano non può essere misura definitiva.

Ho sognato il museo dei pesi e delle misure di Parigi, stanotte. Sognavo di appiccargli fuoco, e nella fiamma liberatoria della materia, vidi eiacularsi un ghigno quasi lovecraftiano di tutto ciò che è compresso nella compre(n)sione, e la banalità delle nostre idee, e lo scarso materiale su cui s'esercita il nostro amore.


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