Genealogia fobosofica della ginofilìa
Se
manca il verso, la direzione, il senso e il movente, non per questo lazione
che avrete intrapreso risulterà assurda. Nei limiti di oscillazione massimi
di questa singolare spaesatezza potreste ritrovarvi ad essere dei pessimi homini
aeconomici ma degli splendidi amatori del gentil sesso.
Vediamo come.
Ad esercitare la perspicuità intellettuale e seguendo le stringenti argomentazioni della dialettica fobosofica - ciò apparirà estremamente chiaro: ciò per cui ci muoviamo è talmente congenere al nostro impulso, talmente frammisto alle fibre più riposte del nostro esserci e talmente saldo come criterio di auto-riconoscibilità, che reagire in maniera difforme ad uno stimolo che si è presentato con regolarità nel tempo della nostra meccanica vita, un giorno potrebbe lasciarci frastornati. Potrebbe lasciarci estranei a noi stessi, come in ultima istanza siamo.
Ci attribuiamo identità per sveltire le procedure, per eliminare i tempi morti, per renderci disponibili alla sistemicità delle nostre funzioni.
Era inevitabile che io facessi, nella misura chè
concessa dagli dei, eccezione.
In primo luogo perché, nel tempo in cui gli infanti
familiarizzano con il mondo delle forme e dei significati, io sperimentavo la
perscrutazione del vuoto. Il vuoto come punto di riferimento emotivo e relazionale,
venato di quellaura indistinto sacro che minduceva a sacrificargli
lacrime e giocattoli, cibo e confidenza.
A guardiano di questa mia bella abitudine ma che da
un punto di vista meramente ricostruttivo non esiterei a definire la belle epoque
della mia vita - i miei genitori posero baby sitters nichiliste: e anche nelluniforme
negatività del nichilismo le mie baby sitters risultavano essere molto
loro generis.
Vera Vera, che usava sottrarmi il cibo, per il semplice
piacere di privarmi dellunica distrazione in cui veramente credessi. Lo
gettava nella tazza del cesso, chiamandomi ad officiare al rito, con un ghigno
di soddisfazione che presto divenne pure mio. O lo mangiava.
Vera Giovanna, che dando il turno a Vera mi raccoglieva
sempre e puntualmente negli ascessi lacrimosi e scalpitanti di fame. Giustificatamente
(e come darle torto?) infastidita dalle mie 4 ore di pianto consecutive formulava
una rituale minaccia che presto prese ad applicare ancora prima di aver ultimato
verbalmente. O la smetti subito di piangere o ti chiudo nello stanzino.
Una volta dentro cercavo di alzare il volume del pianto, un
po per dispetto, un po per lo stress aggiuntivo del non avere ancora
laltezza per arrivare allinterruttore della luce, posto almeno cinque
centimetri oltre il mio salto (nel buio) più prodigioso.
Naturalmente feci presto labitudine allo stanzino buio,
e in ciò fui facilitato dalla perfetta armonia che si veniva ad instaurare
tra il vuoto della pancia e dal vuoto del buio polveroso.
Sedevo con la schiena alla porta e il sedere al pavimento,
gli unici due riferimenti possibili; la porta che ancora impressionava gli occhi
degli ultimi ricordi di luce, e il pavimento che con premura materna, si faceva
sempre trovare ovunque andassi.
Ne cavai una forte essenzialità esistenziale (nota
per i distratti: non narrativa) e labilità nel sapere distinguere
attività propriamente essenziali da quelle superflue.
Perscrutare il vuoto era essenziale, limpido, chiaro, consolante
come un ventre materno che non sai ancora essere un ventre materno.
Quando la luce giungeva a infrangere quella beata totalità
portando il disordine delle forme e dei nomi nella mia mente si faceva il buio
quello vero e gli occhi andavano in protezione rifugiandosi allinterno.
Ancora oggi quel trauma si ripete regolarmente quando, al
cinema, alla fine del primo e del secondo tempo dogni film. Nel buio,
le immagini, quelle con un senso, una direzione, un significato etc; nella luce,
i volti istupiditi e le voci pontificanti del pubblico.
Non dissi mai nulla ai miei genitori di quel trattamento e della dipendenza che ne nutrivo; loro daltra parte si sorprendevano di quanto riuscissi a mangiare senza spanzare e di quanto fossi alieno dalla possibilità tutta infantile di piangere.
Dopo la terapia Vera-Giovanna i miei rapporti con il vuoto furono più consapevoli e raziocinanti: lavvento dellistruzione mi consentì di articolare le sensazioni, perlopiù di mancanza, che lassenza del buio ingenerava in me. Per compensarla (dato che - non so come - presto i miei scoprirono tutto) fui costretto a fare gli straordinari di notte, e giunsi ad evocare linsonnia come mia nuova amica.
Presto linsonnia aggiunse i suoi tratti surreali alla
mia esperienza percettiva.
Ed è da notare il surrealismo della mia
insonnia sesercitava in gran parte sul buio, e di rimbalzo tornava a me,
zigrinando lautocoscienza e i sentimenti. Lesterno rimaneva oscuramente
invariato, mentre io stesso, il mio modo di percepirmi e le formelle stabili
della percezione andavano deformandosi grottescamente.
Il riconoscimento della psichedelia parecchi anni dopo trova qui forse la scaturigine
prima.
Di fatto, dopo aver con difficoltà superato il radicale rifiuto delle forme e della luce, fu linsonnia a rendermi il mondo sopportabile. La deformazione costante dei confini degli oggetti rendeva meno cruda e livida la necessità della percezione, e permetteva di diluire nel tempo il normale trascolorare dallonnipotenza infantile alla sobria coscienza dellesistenza degli altri.
Trovano qui origine i miei esperimenti con il fuoco, con
lacqua, con la terra e con laria.
Con il fuoco si poteva operare la transustanziazione dei giocatoli
in plastica informe e dei tappeti in carboni ardenti.
Con lacqua quella delle spugnette Stanhome.
Con la terra si potevano fare i castelli di sabbia, con il
fango si può ottenere il mutamento cromatico degli indumenti.
Con laria si può creare la puzza dallodore,
il torcicollo dalla motilità (avevo persino un ventilatore personale)
e soprattutto si possono organizzare delle audaci planate sul pavimento (fedelissimo)
dai mobili più alti (+ transustanziazione degli incisivi).
Tutto ciò avveniva grazie allalterazione del limite che linsonnia generava. La solitudine in cui ero relegato impediva di fissare unindividualità consapevole dei confini, e quando mi ritrovai allasilo i compagnetti altro per me non potevano essere che giocattoli un po sproporzionati, automi un po indisciplinati che mal si prestavano -eccetto quelli di sesso femminile- alle mie manipolazioni.
Da qui venne poi lesclusione del sesso maschile da
qualunque orizzonte di senso nella mia vita, e il mio relegarmi con una fame
ansiogena e insonne nel desiderio della femmina come succedaneo di uno stanzino
buio.
E il naufragar mè ancora dolce in quellamare.