Un luogo fisico

   Dio solo sa come son finito ad amare il posto in cui lavoro.
   Il posto fisico, intendo, ché quello simbolico è parte del tutto che io sono e che mi diserta, rotella fra ingranaggi, valvola fra motori, pezzo di puzzle o di pizza al taglio. Roba così.
   Lavoro nei sotterranei di una grossa azienda, in un luogo metafisico, come forse sono tutti i luoghi in cui regnano ordine, stabilità, prevedibilità, partizione, numeri e lunghi fili rossi d'Arianna collegano la reperibilità degli oggetti e dei concetti ad un calcolo rapido ed intuitivo. Io faccio i cataloghi.

   Ci sono lunghi stand metallici che rivestono perimetralmente le pareti di due grandi ambienti, celando alla vista il lento lavoro creativo dell'umidità sulle pareti e stand che dividono centralmente i medesimi ambienti in 4 sotto-ambienti principali. Ogni sotto-ambiente ha i suoi scaffali numerati.
   Ad ogni numero corrisponde un colore, ad ogni colore più misure, disposte progressivamente e senza salti.
   Si potrebbero passare ore affascinanti a decifrare i reconditi enigmi della necessità, ma perlopiù il lavoro, la sua meravigliosa monotonia, prende il sopravvento. Allora il mio battito cardiaco è il suono di un movimento astrale. Io sono il tutto nella parte, e la parte nel tutto.
   Sembra assolutamente secondario cercare di capire che razza di items siano lì allineati, ad un tiro di sputo dalla mia scrivania computerizzata. Potrebbero esser qualunque cosa, dato che hanno il cartellino. Potrebbero essere tutti rotti o disfunzionali, ma il cartellino statuisce il loro valore di scambio. Fuori potrebbe nevicare o potrebbero cadere palle di fuoco dal cielo.
   Un’ombra, attraverso gli spessi vetri di marciapiede posti sul mio soffitto, ricopre ora l’ultimo stand in fondo al deposito.    Dev’essersi fermata a guardare la vetrina, al piano di sopra e non sospetta del sistema di specchi che me ne rende partecipe.
   E’ solo un’ombra, la solita ombra, chissà come fa a catturare sempre per un attimo la mia attenzione.

   Io sono quello che fa i cartellini, quello che riconduce il disordine alla regola.
   Io so da dove provengono i numeri, so di cosa si compongono i codici fiscali e quelli a barre, e credetemi, niente che riguardi la loro utilizzabilità. Se questi oggetti fossero persone, io potrei scomporre il loro DNA e ricatalogare il mondo, allineare tutto nel giusto modo, ricombinare gli elementi sino a farli omogenei con il loro senso intrinseco. Poi ne stabilirei uno estrinseco che valesse per tutti ma proprio tutti.
   Poi potremmo perderci tutti nel suono profondo delle lancette.

   Il grosso orologio sulla parete e la stampante ticchettano insieme; lunghe progressioni di numeri compongono la più grande opera di ingegneria astrattiva che mai si sia vista. E’ quasi un peccato che queste catalogazioni richiedano ancora la carta e non possano appagarsi dell’idea, della mostruosa cattedrale dell’intelligenza umana, delle sue associazioni funzionali, della sua maestosa immaginazione.

   Io stesso, a volte, al culmine di questa specie di felicità, mi sento superfluo. L’ordine è già nelle cose, non sono io che lo conferisco loro. Ho in odio le mie pause, le mie indecisioni, gli attimi dentro cui riesco a percepire un abisso incompleto incapace persino di avanzare.
   Senza il mio stipendio, c’è da dire, le cose andrebbero più lisce, per tutti.
   Nottetempo lavoro al programma definitivo che permetterà al mio computer di organizzare lui stesso tutto il lavoro. Ma sono ancora lontano, lo sento, come spesso sento pure che questo lavoro, questo magnifico, monotono, logico, infallibile lavoro che svolgo sta per prendermi intero. E dovrei dare un giro di vite sostanziale al programma. Non rimane molto tempo. Tutto deve essere messo nelle condizioni per risolvere se stesso. Anche Gesù lo diceva: non dar loro pesce, ma insegnagli a pescare. Ci sono troppi attriti, troppi passaggi intermedi.
   E quell’ombra, maledizione, quell’ombra che non si rassegna ancora alla separazione dal nostro manichino, continua a rubarmi troppo tempo.


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