Un signore che era ben felice di portare la sua faccia

 

   Un signore che era ben felice di portare la sua faccia, trovandosi un giorno a scrivere nella più luminosa delle sue stanze, e anzi accostando un battente della finestra per poterlo meglio fare, considerò che occorresse sicuramente più di un elemento per poterglisi ingenerare il desiderio di scrittura.
   Di esser sicuro di esser ben felice di portare la propria faccia era ben certo, tantopiù che ora ne muoveva i muscoli più involontari in sorrisi di fiero autocompiacimento, data l’idea luminosa che accostava all’idea della luce stessa, che invadeva la stanza con magnificente arroganza, e che, ancora a maggior conto, gli faceva serrare le palpebre in gesto isolante per poter concentrarsi sulla scrittura e far slargo alle associazioni.
   Ma più che serrare le palpebre, egli pensava, avrebbe potuto accostare il battente della finestra, di modo che lo spazio d’ombra che se ne fosse creato attorno avrebbe favorito meglio l’accostamento degli stimoli esterni, giustamente luminosi, a quelli interni, luminosi solo in metafora ed anzi a ben vedere, piccole macchie d’oscurità sul candore della pagina affamata.
   Dall’unione di più elementi sarebbe scaturito il movimento della scrittura, come un metter di fianco combustibile e comburente, acqua e pendenza, amore e insensatezza e affidarsi certi all’automatismo.
   Di fatto avrebbe potuto lasciare gli elementi da soli in quella stanza, andare a far un giro, per la campagna o per la spiaggia, ed aspettarsi di ritrovare una buona percentuale delle proliferazioni combinatorie degli stessi già in azione in quel mondo mistificato e indipendente che era la luce diffusiva di quella mattina di quella stanza.
   Ma il signore ora si chiedeva se l’automatismo della luce che si diffondeva, l’automatismo della riproduzione degli elementi e l’automatismo dei muscoli della faccia che s’atteggiavano all’autoreferenziale riconoscimento potessero in qualche ardito modo riempire di scrittura la scrittura, e non, per esempio, riempire d’altra casualità l’automatismo che ne costituiva la compresenza temporale.
   Preso da uno spasmo dilemmatico d’identità, si sentì pervadere d’un afflusso di volontà che gli riempì precipitosamente vene e arterie e gli fece contrarre tutti i muscoli del corpo, come se in tale smania potesse prepararsi ad una partenza rapida, forse la più rapida possibile, verso il compimento d’un alcunché che adesso non riusciva minimamente a immaginare se non nella guisa d’interrompere subitaneamente la scrittura, inibire la luce alla vista e alla metafora ed iniziare a ripararsi dalla possibilità, corrosiva ed infamante, d’imbattersi nel suo volto automatico riflesso.



 

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