Emanuele

   Emanuele, figlio di amici.
   Lo guardavo; è un bel bambino dal carnato olivastro, capelli ricci e occhi tristi. Un bambino normale, tutti i bambini a tre anni sono normali, no?
   Lo guardavo, e, sarà la mia scarsa dimestichezza con i bambini, non mi sembrava un bambino di quelli che ne vedi a decine durante il giorno per strada, mano nella mano con la propria balia o in braccio al papà, emettenti gridolini di sorpresa o vuotando nel pianto emozioni tragiche.
   Però, ecco, è anche vero che quelli non li si osserva da vicino come stamattina ho scrutato Emanuele. E soprattutto, nessun bambino scruta me come Emanuele stamattina mi scrutava. Non è la prima volta che ho questa sensazione in sua presenza.
   Dev'essere letteratura, il solito demone della trasfigurazione coatta che gioca con la realtà come fosse das. (Das!; da quanto il pensiero del das non mi passava per la testa?)
   Diciamolo allora con decisione, Emanuele è un bambino come qualunque altro; sono io che farei qualunque cosa per buttare giù due righe quotidiane e dare a bere a tutti che al mondo nato sono non per nullafacere e pontificarne ma per offrire alla vacua postmodernità copiosa redenzione poetica.
   Del resto, non saprei spiegare di cosa esattamente quello sguardo reciproco si faccia carico. Emanuele gioca, agisce da bambino e da bambino si relaziona con gli adulti che lo circondano.
   Poi passo io, e si blocca.
   Alza la testa e mi guarda, perso in qualche impossibile reverie da Villaggio dei Dannati. Gli occhi scompaiono. Una specie di fluido passa da lui a me (o da me a lui?).

   Al riparo da quello sguardo provo a spremacciare le meningi e la mente associativa.
   Anche io da piccolo avevo gli occhi tristi, i capelli ricci e il carnato olivastro, ma hey - son queste le cose che riferisco di Emanuele e non - chessò - il naso a patatina o le orecchiette piccole che io non avevo. Basta un po' d'esperienza nelle cose della suggestione e nessuna coincidenza si regge.

   Ci sono delle immagini che scattano automaticamente per me quando mi penso infante. Il terrore degli aghi ad esempio (ok, stamattina ho fatto un prelievo e poi ho incontrato Emanuele, ma?). O il modo in cui mi fissavo su certe immagini in lontananza.
   Il balcone era luogo d'elezione con la sua regale sopraelevazione; le persone laggiù distanti - innocuizzate - mi riferivano del mondo ma senza chiedermi partecipazione; l'orizzonte mi incantava come simbolo di ciò che, pur visibile, è privato di definizione e di realtà.
   La prospettiva era un orrendo mostro le cui fauci divorano la vita. Laddove non vedevo, era come se gli aguzzi denti del destino macinassero indefessi ossa umane.

   Più o meno questo ospitava il mio giovane petto, e sarebbe facile ora vedere in quegli occhi tristi di treenne la stessa distante paura che mi dava l'aver da poco smarrito l'incondizionatezza dell'istinto e la certezza che semplicemente l'essere al mondo fosse sufficiente al continuare a vivere.
   Io non credo di aver preso troppo bene la scoperta che il grosso del lavoro era ancora da farsi.
   In tutti i bambini l'assunzione di cultura avviene attraverso curiosità, brama, smania. In me avvenne con riluttanza e addirittura terrore. Io non volevo muovermi. Non volevo aver bisogno di muovermi.
   Non so se tutto questo possa esser carpito dagli occhi, se gli occhi siano lo specchio dell'anima, se l'anima sia una realtà permanente o sia soggetta alla storia della nostra crescita, se la nostra crescita non sia altro che un insopportabile ricatto della natura.
   Tutto ciò di cui son certo è che Emanuele ed io ci incontreremo ancora, e torneremo a fissarci.


 

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