Ogni carezza, ogni fiducia

    Non posso dire se nel fuoco stinto d'amori solo ormai narrati o nelle briciole di parole muffite in polverosi loculi di memoria, ogni carezza, ogni fiducia sopravvivano.
   Forse la mia vita tutta s'essicca lentamente in una cantina sotto spessi vetri di marciapiede, si fa grumo di dimenticanza, e tutta insieme è portata a spasso da topi insensati.
   Scorre nottetempo lungo canalette oltre ogni parete, palla di peli e sterco, spinta da un'inerzia segreta e che non può arrestarsi in alcun dove. Fugge ogni sedimentazione di odore, di suono, di dolore. Scappa dal tempo fuggendo incontro al tempo, atterra dopo un volo insensibile s'un sottofondo di vecchi materassi a ciuffi d'acari, e prosegue incontro a distanze, che non diminuiscono vieppiù che si prosegue.
   Talvolta un sordo rintocco del cuore segnala un'ostruzione delle condotte. Sotto i vasi profondi dei gerani una volta seppellimmo un uccello morto, e ci chiedemmo perché la terra non ce la facesse a digerire quella putrefazione che si spargeva per le stanze.
   La terra era il deciduo che sudava dal nostro corpo, e gli squisiti pasticcini che affogammo nel thé quel giorno che la pioggia ci sorprese in vespa. Ci spogliammo nudi, sapendo che niente avrebbe potuto spogliarci di più. Potevamo finalmente gettarci sul divano, spegnere la televisione, spegnere le finestre, chiudere gli occhi e sentire il nostro respiro come gli ultimi ansiti di una candela. La stanza odorava come una chiesa. Carezzammo le colonne delle navate, rivestimmo il sonno delle rincuoranti coperte del nostro platonismo imperfetto.
   Ciò che colpiva dall'esterno i frammenti di colore sui mosaici di vetro non era luce, e non era neppure ombra. Fosse stata idea, sarebbe caduta giù con una pallonata dal campetto dell'oratorio accanto. Solo il calore degli alti ceri teneva i nostri corpi in omogeneità con la vita, e permetteva alle parole di raggiungere le nostre orecchie scritte in un altra lingua.

   Non so cosa sopravvive, se la memoria abbia circolazioni sanguigne, e s'è davvero ciò che manteniamo ad apparirci in questo fioco sogno di malinconia.
   Dovrei sapere chi ero, e chi sono. Sapere se chi non sono più è chi ora è. E se chi ora è, sarà ancora, o potrà non esser più.
   Dovrei sfuggire alle stesse stelle che mi segnano il percorso, e inciampare su ogni ciottolo, offrendo la caduta a un Dio che non mi guarda più.
   E mi sono sbucciato le ginocchia, e neppure mamma mi guarda più. E se sorrido sdentato, lo specchio fatica ad accorgersene.
   Sì, talvolta su astronavi da altre galassie giungono certi ricordi, a consolarmi, a riannodare certi miei sottili fili alle fibre opache del tempo. Bussano con mazze di ferro sul mio sonno più sciatto e adulto. Bussano fino a quando non s'accertano che un po' di sangue posso ancora versarlo. Dopo, vanno via, per mesi interi, forse anni, lasciando scialbe cicatrici a stigma della mia indentità. Lì, la mano che carezza produce uno strano solletico, una densa scossa differita, che non è per me, che non sono io.
   Ma mi rimane questa sordità, questa sempre nuova dimenticata speranza di te.
   E mi fa nascere di nuovo.



 

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