being nothing takes everything i've got

   Da qualche parte, in un posto tanto più piccolo e alto di questo, c'è un mare infinito di moquette, in equilibrio su un altipiano retto dalla fatica e da corpi che corrono con carpette sottobraccio. Sul suo potente tronco ha effigiate viuzze strette a volte come baci, a volte spalancate come finestre prima del raffreddore. Non è facile raggiungerlo questo mare, e non è facile neppure sapere della sua esistenza. Se si superano però queste che sembrano ovvie difficoltà, l'enorme distesa, pressata dal cielo contro la forma orizzontale dello spazio, si palesa agli occhi del fortunato esploratore come un modo che ha il cielo di far germogliare fili di ritta, fiera e a-prospettica estasi.
   Erba alta, d'un colore sobrio e riposante - mettiamo un grigiolino, o anche un bel beige coloniale - che può essere calcata in profondità, ma anche solamente solcata rullando sulle punte stondate, scivolando da un angolo all'altro del mondo sopraelevato.
   E quando incroci le braccia sui bordi, facendo ciondolare la testa in una sonnolenza morbida, è come se gli abissi che la elevano (e perciò la separano dal posto da cui, fortunatamente provieni) scompaiano, o si fondano con lontane alghette oziose su pareti monocrome. Così puoi passare intere ore a lasciar penzolare la tua immaginazione oltre il visibile: nessuno sbalzo d'umore o malrovescio fatale potrebbe schiodarti dalla conformazione del tuo corpo in simbiosi con la base e lo sfondo.
   Questo se guardi i bordi, chessò, magari solo per isolare nella mente il concetto della fortuna che hai, o per chiamare tutto il resto *tutto il resto* e farne uno sbadiglio felice.
   Hai capito che rotolare non è semplicemente roteare l'apparenza del tuo corpo lungo percorsi ideali, ma soprattutto prendere in giro quella parte di te che crede nei posti da raggiungere.
   Quando sei sul mare di moquette, il posto da raggiungere è l'assenza di sguardo, è il puntello assoluto sul punto su cui già stai.
   Inerpicati sull'altezza dispiegata delle tue gambe, chiudi gli occhi, e inclina il mondo senza inclinare te. Potresti persino nuotare nella stabilità, o mettere radici nel calore che circonda il tuo corpo. Il vento, anche se ve ne fosse traccia, non ti muoverebbe, perché dovrebbe prima muovere se stesso, e invece dorme. Si è afflosciato ai piedi di ogni stelo d'erba sintetica, e il rado passaggio di coccinelle sulla sua estensione esanime stabilisce piccoli ponti fra i punti cardinali, ma tutti intrecciati a giro, così perfettamente continui che se provassi a percorrerli durante un sogno avresti un capogiro per ogni cerchio descritto, e un cerchio alla testa per ogni parola che usassi per farlo.
   C'è sempre un bel non-tepore a sovrastare la geometria del luogo, una temperatura di oblìo che induce ad ignorare la questione, com'è indispensabile ch'io faccia. Solo una cosa posso poi dire: che non mi avvidi della fila che si era creata ai caselli dei pensieri, tutti diretti verso vacanze organizzate e letali.
   Anche se presumo una bella giornata di sole e lo sciabordìo di onde brachicardiche su scafi lucidi e bicromi io ignoro altri dettagli; sono sull'Olimpo del piacere moquettoso e non posso far altro che attendere l'unico, magico e solerte disturbo ambientale di cui potrei mai accorgermi.



 

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