Altri mille anni

    A onde, risciacquando ritmicamente la parte di me che fonda il galleggiamento, v'è un oceano, nero di notte, che non mi trascina lontano da te, e indugia su risacca d'inchiostro.
   Se chiudo gli occhi, appoggiato al piccolo palo di cemento invisibile dalla strada, c'è solo lo sciabordio. Come se l'universo avesse scelto di mancare tutto in un unico punto sciabordante; le tue parole impossibili mi sono solo questa carezza d'assenza e m'illustrano i paesi, oltre questo mistificatorio orizzonte di mare, che non vedrò mai.    La luce che mi mandi è la luce che mai invaderà le stanze ancora e per sempre vuote che non riempiremo dei nostri corpi e loro protesi di senso. Ci sono gli scheletri delle nostre vite insieme, e sono tutti sparsi nei miei sogni sulla strada che porta alla realtà.
   Risollevo le palpebre: nulla è cambiato e ora anche le navi in equilibrio sulla linea divisoria del possibile e dell'impossibile sono dileguate oltre. La città che ho alle spalle è solo un'intermittenza di luce sulla sporcizia su cui siedo, un brusìo ottuso di movimento, un alone d'insostanza.
   E dovrei convincere i muscoli delle gambe, disacerbare il cuore e aprirmi un varco verso la strada, salire sulla moto, inserire le chiavi con una precisione innaturale e farmi guidare dal nulla che provvederà all'automatismo del ritorno. Eppure io non ritorno, perché non parto. Non sollevo davvero le palpebre, perché non le abbasso mai.
   Provo a ridere di me. Provo a piangere per te.
   Ma più ci provo più sento questo nascosto ed esatto luogo della città e del mondo come mio. Sento la sua equidistanza da ogni dolore e ogni gioia che potrei mai vivere, da ogni inferno e ogni paradiso di questa terra, la sua equidistanza da te e da me.
    Io sto nel mezzo, in equilibrio, e l'unica cosa che possa aspettare è il passaggio di altri mille anni, che mi riconoscano come marmo antropomorfo.

   E fisso sempre l'orizzonte di una notte che, mai iniziata, non vuole finire.


 

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