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Pio VI
Adeo nota


1. Sono così noti e divulgati presso le Nazioni i delitti perpetrati contro le leggi del santuario sia ad Avignone sia nel Contado Venesino di Nostra giurisdizione, e contro i diritti di sovranità, tanto che non hanno bisogno di lunga e particolareggiata descrizione.

Gravemente infatti si è peccato contro di Noi da parte di ambedue i popoli; ma la defezione del popolo avignonese è assai peggiore di quella del popolo del Contado. Gli Avignonesi infatti, per nulla preoccupati d’aver seguito la malvagità di pochi uomini che, per Nostra clemenza, erano sfuggiti alle pene dovute per i loro delitti, come se avessero impugnato con le loro mani il vessillo della ribellione, hanno tanto progredito in prepotenza, da indurre quelli del Contado, anche a mano armata, a formare con loro una nefanda società e a costringere a seguire il loro partito sia quelli del Contado sia gli Avignonesi che si fossero opposti, convincendoli con ogni genere di minacce, di stragi e di supplizi.

2. Ma di codesto delitto, come di altri, non parleremo; possono essere di validissima prova i rispettabili cittadini e gli uomini di Chiesa rapiti a morte, la città di Chalon sur S. occupata con la forza e saccheggiata, le irruzioni ostili nella città di Carpentras, ed altri generi di sfrenata violenza, che macchieranno gli scellerati autori di eterna ignominia e d’infamia. Essi infatti, imitando la crudeltà di Giasone, nemico delle patrie leggi e di Dio, come le sacre pagine di lui attestano, al fine di allontanare i cittadini e quelli del contado dalle leggi della patria e di Dio, non risparmiarono di stragi i loro concittadini, né pensarono che la prosperità acquisita contro gli amici fosse il massimo dei mali, come se essi catturassero trofei di nemici, non dei concittadini: degni perciò che essi, non diversamente come fu di Giasone, fossero dichiarati a tutti odiosi, dissacratori delle leggi e traditori della patria.

3. Fra il popolo cominciarono a diffondersi la causa e il peso di quelle ribellioni, dalle quali il popolo era oppresso sempre di più. Ma quando a ciascuno parve chiaro che la motivazione di tutto ciò era assolutamente fittizia e piena di calunnia, in quanto gli Avignonesi e il popolo del Contado, oppressi da nessun genere di tasse, usufruivano di un regime tanto leggero e temperato che le altre Nazioni invidiavano, non senza motivo, la loro felicità, apparve evidente che l’unica vera causa era il desiderio di una sfrenata libertà: per raggiungere la quale si dichiarò essere necessaria l’integrale Costituzione dell’Assemblea Francese che s’impegna tanto nelle materie politiche quanto in quelle ecclesiastiche e religiose, e porta ad una maggiore e più duratura felicità, e conseguentemente i popoli di Avignone e del Contado passassero sotto la sovranità francese.

4. Fra queste scellerate perversità non abbiamo cessato di manifestare all’uno e all’altro popolo quanta e quale sia la Nostra benevolenza di padre e di sovrano verso gl’ingrati. Fu infatti Nostra cura, non senza rilevante dispendio dell’erario pontificio, liberare tali popoli dagl’impegni incombenti con grande carità; e li abbiamo paternamente ammoniti di guardarsi dalle insidie occulte, che si offrivano loro, alla Religione e anche alla pubblica utilità sotto la chimera della libertà. Se tuttavia per la stessa varietà dei tempi, od anche per l’umana prevaricazione, fosse insorta qualche trasgressione contro le leggi, o si fosse introdotto qualche abuso particolare, abbiamo apertamente dichiarato che Noi, ascoltate le Comunità, avremmo prestato la Nostra opera e l’aiuto perché tutto ritornasse, con la debita correzione, al retto ordine. E affinché nessuno dubitasse che per quanto era in Nostro potere saremmo intervenuti con la Nostra autorità, abbiamo immediatamente deliberato di inviare costà il diletto figlio Giovanni Celestini, uomo ben noto a molti ad Avignone, gestore di affari del Contado Venesino, affinché al più presto raggiungesse Avignone e Carpentras, ed ivi, col Nostro pro-legato e con i più esperti e prudenti cittadini trattasse di quei capitoli, cioè di quei punti che soprattutto si desiderava conoscere, affinché con voti unanimi potessimo assecondare la determinazione di quelle cose che fossero giudicate convenienti ed opportune. In tal senso si espressero due Nostre lettere in forma di Breve, l’una scritta il 21 aprile dell’anno scorso ai diletti figli nobili e al popolo della Nostra città di Avignone, l’altra scritta il 24 febbraio dello stesso anno al Venerabile Fratello il Vescovo di Carpentras, e ai diletti figli designati dai comizi generali della stessa città.

5. Ma del tutto inutili furono i Nostri benefici, inutili le paterne ammonizioni, inutile il viaggio del delegato. Infatti, i cittadini di Avignone, costretti poco legalmente ad intervenire ad una riunione per sostenere quei decreti che avevano estorto al Nostro pro-legato, e che da Noi erano già stati dichiarati nulli e irriti, gli Avignonesi, diciamo, costretti alla riunione rifiutarono di accogliere il delegato e minacciarono persino che l’avrebbero ritenuto un perturbatore pubblico se avesse messo piede in città o nel territorio. Inoltre cercarono il modo di esautorare il diletto figlio Filippo Casoni, pro-legato, e gli altri Nostri ministri, fra i quali non mancò chi, per le insidie subite, fu costretto a darsi alla fuga; infine presero la decisione di sottomettersi alla giurisdizione e al comando del carissimo in Cristo figlio Nostro il cristianissimo Re delle Gallie, e a questo fine furono mandati deputati allo stesso Re e all’Assemblea Francese. Da questo momento per mezzo della Municipalità fu ordinato allo stesso pro-legato di allontanarsi da Avignone; ed effettivamente egli partì il 12 giugno 1790, avendo prima espresso le proteste del caso sia a voce davanti agli stessi ufficiali della Municipalità, che gli avevano ordinato di andarsene, sia con uno scritto davanti a testimoni, poiché ad Avignone non si trovò alcun notaio che registrasse quelle proteste. Pertanto lo stesso pro-legato, partito per Carpentras, rinnovò tosto le proteste il 16 e il 21 del medesimo mese davanti al notaio Oliveiro, cancelliere della Rettorìa, e ordinò che esse fossero conservate fra gli atti della Segreteria, affinché non morisse mai il ricordo di tale evento. Nello stesso tempo da parte dell’Assemblea di Avignone fu pensato all’adeguamento delle materie politiche ed ecclesiastiche con la Costituzione generale dell’Assemblea Francese, e per far questo rapidamente si operò con tale e tanto furore da ogni parte, che nulla di simile nessuno vide neppure nei comizi Gallicani.

6. Da questo derivò che da una parte al legittimo ed antico principato subentrò un misero stato di anarchia, e dall’altra furono tolte dai canoni leggi secolari, sì da sovvertire la sacra gerarchia, l’autorità della Chiesa e la stessa Religione Cattolica. Infatti le Chiese furono spogliate dei loro beni; le suppellettili d’argento furono rubate; i sacri vasi sottratti da mani sacrileghe e trasportati a Marsiglia col ricavo di ingenti somme di danaro; infranti i recinti dei monasteri; maltrattate le sacre vergini e costrette a bussare ad altri monasteri o a ritornare ai patrii lari. Inoltre con pubblico editto del 30 novembre dello scorso anno, sia al Venerabile Fratello Arcivescovo di Avignone, che si era ritirato a Villanova, località della sua Diocesi, sia a tutti i parroci e a tutti gli uomini di Chiesa si ordinava che nel più breve spazio di tempo si portassero ad Avignone ed ivi si vincolassero con giuramento alla civica religione: giuramento dal quale nacque la causa maggiore di tutti i mali. Se fosse stato altrimenti, tutti avrebbero dovuto ritenersi decaduti dal loro grado e le loro Chiese ugualmente, come se mancassero del loro Pastore.

Questo atto Ci richiama alla mente quello scellerato editto contro i buoni e legittimi Pastori emanato dall’imperatore Costante su consiglio e per iniziativa degli Ariani: il che tutti gli scrittori hanno condannato con giustificato orrore. Infatti, anche questo editto, mentre praticamente chiedeva un impegno dagli ecclesiastici, al contempo formulava minacce concepite con queste parole: "O firmate, o vi allontanate dalle Chiese".

7. Alle minacce contenute nell’editto risponde un episodio pieno di profana scelleratezza e traboccante immane sacrilegio.

Infatti il 26 febbraio di quest’anno entrò nella Chiesa cattedrale un ufficiale municipale, di nome Duprazio, abile nell’uso delle armi, con la spada nella mano destra, seguito da un ingente reparto di soldati del Comitato. Egli osò costringere i Canonici della Chiesa, che stavano uscendo dal coro, ad entrare nella sala capitolare per eleggere, in nome della Municipalità, un Vicario capitolare, col pretesto che, secondo i decreti dell’Assemblea Gallicana adottati dagli Avignonesi, dovevano ritenere l’Arcivescovo civilmente morto e la sua Chiesa priva del pastore perché egli da qualche tempo non si trovava ad Avignone e non aveva prestato il giuramento civico.

8. I Canonici negarono di poter eseguire quell’ordine, contrario a tutte le regole della Chiesa, ma l’ufficiale minacciò che non li avrebbe lasciati muovere piede da lì finché non avessero eletto il Vicario. Allora i Canonici chiesero che si facesse venire un notaio, il quale recasse la testimonianza della violenza loro inferta.

Ma, rifiutata la loro richiesta, l’ufficiale presentò loro una carta nella quale erano scritti otto nomi di uomini, fra i quali dovevano scegliere il Vicario, e nello stesso tempo fece chiamare ed introdurre il notaio Poncezio e il segretario della Municipalità Escuierio, affinché presenziassero alla elezione. Invano i Canonici si opposero nuovamente, ma, costretti a dare il proprio voto, le cose si svolsero in modo tale che nessuno potesse dirsi regolarmente eletto. Infatti, dei dieci Canonici presenti in capitolo, il Canonico della Cattedrale Malierio ebbe soltanto quattro voti, l’altro Canonico della Cattedrale Depretis due voti e altrettanti Messangeanio, Canonico della Collegiata di San Genesio; gli altri cinque nessun voto. Tuttavia Duprazio volle che siffatta elezione di Malierio, per il quale non la maggior parte del capitolo, com’è prescritto, ma solo quattro avevano votato, fosse ritenuta valida; volle inoltre che i canonici, sebbene contrari e riluttanti, la sottoscrivessero con la loro firma; e con la minaccia di gravi pene vietò ai notai della città, tanto ai presenti quanto agli assenti, di registrare nei loro atti qualsiasi protesta dei Canonici.

9. Quando l’ufficiale ebbe estorto ai Canonici questa fittizia elezione che i voti e i consigli della Municipalità chiedevano, simulò di non ricordare affatto se il civico giuramento fosse stato prestato dagli stessi Canonici. Pertanto si adoperò affinché lo prestassero. Ma rifiutando i Canonici di volersi vincolare con quel tipo di giuramento, come egli stesso aveva previsto, tosto, in nome della Municipalità, dichiarò che il Capitolo era estinto e che d’ora in poi i Canonici non potevano svolgere nessun ufficio nella Chiesa e in alcun modo formare un solo corpo e riunirsi.

10. Benedetto Francesco Malierio era così avanzato in età da somigliare ad Eleazaro, illustre vecchio della storia sacra: poteva anch’egli lasciare alla gioventù e a tutto il popolo un glorioso esempio, cercando di imitarlo mediante importantissime e santissime leggi. Ma egli si comportò molto diversamente da Eleazaro, il quale, reputando nel suo animo che più dell’età, della veneranda vecchiaia, della nobile canizie era preferibile una gloriosissima morte, piuttosto che abbracciare una vita odiosa, decise di non fare cose illecite per un breve tempo di vita corruttibile.

Invece Malierio, non solo davanti ai soldati presenti nell’aula capitolare non rifiutò l’ufficio di Vicario capitolare, che, essendo ancora vivo il suo Arcivescovo, le leggi della Chiesa e quelle più sante di Dio vietavano potesse essere trasferito a chicchessia, ma lasciato totalmente libero ringraziò pubblicamente la Municipalità, e il 6 marzo – dopo la Messa celebrata dal sacerdote dell’Oratorio, Mouvansio vestito dell’insegna municipale sopra i sacri paramenti – non esitò ad iniziare in Cattedrale, con un rito più solenne, l’ufficio che gli era stato affidato e a prenderne possesso in mezzo ai soldati. Inoltre non disdegnò ricevere gli elogi che gli venivano fatti, come se fosse la colonna della rivolta, sia da Ricarzio, prefetto della città, sia da Vinaio, sostituto procuratore della stessa; infine non tardò ad aggiungere a tutte queste cose un’altra scelleratezza. Infatti davanti a tutti si vincolò con il civico giuramento verso la Nazione, le leggi e il Re della Francia, usando tali parole che neppure i più sfrontati usavano in Francia, e promise di rispettare anzitutto la civile Costituzione del clero, qualsiasi ostacolo si frapponesse e qualsiasi critica venisse mormorata contro di lui, sia dai nemici che lo guardavano di traverso, sia dagli amici dai quali si vedeva abbandonato.

11. Per confermare ciò ancor più coi fatti, lo stesso giorno comandò che si facesse pervenire ai parroci un certo scritto in cui parlava di sede vacante, ed osava sciogliere il vincolo del precetto quaresimale. Il giorno 9 dello stesso mese, con un altro scritto simile, interdisse dai loro uffici tutti coloro che in qualsiasi modo presiedevano ai seminari, perché avevano rifiutato di prestare giuramento; eliminò due seminari; e infine con tanta temerarietà, quanta nessuno a stento possa credere, con lettera del 5 dello stesso mese Ci informò della sua elezione, pregandoci di non disapprovarla affatto. Che le cose stiano così nessuno dubiterà, senza che egli cerchi di attribuire la vergogna e il giuramento alla propria vecchiaia.

12. La città di Avignone si è comportata con Noi secondo codesto criterio. Per quanto riguarda la città di Carpentras e le altre comunità del Contado, Ci arrideva la speranza che sarebbero tornate in breve tempo ai loro doveri. Esse infatti, costrette ad un’assemblea rappresentativa, non solo accolsero il pro-legato espulso da Avignone e Giovanni Celestini mandato da Roma, ma il 27 maggio dell’anno scorso dichiararono apertamente che avrebbero abbracciato la Costituzione Francese solo in ciò che conveniva ai loro interessi, al loro paese e alle circostanze, e che potesse accordarsi con l’ossequio a Noi dovuto, ed affermarono di voler rimanere sempre sotto il Nostro governo e la Nostra giurisdizione. Ma poi, a seguito di violenze o di allettamenti o di insidie dei rivoltosi di Avignone, esse mostrarono apertamente che veneravano il Sommo Pontefice e onoravano i suoi ministri soltanto formalmente, ma in realtà i loro consigli a null’altro miravano se non che il Pontefice e i suoi ministri approvassero, sancissero ed eseguissero tutta la Costituzione Francese sia per gli affari ecclesiastici, sia per quelli politici.

13. Senza dire con inutili parole tutte le deliberazioni prese dall’Assemblea del Contado, basterà citare quei diciassette articoli dove i diritti dell’uomo erano pressappoco accolti come erano stati spiegati e proposti nei decreti dell’Assemblea Francese, ossia quei diritti che erano contrari alla Religione e alla società; essi venivano accolti come fossero base e fondamento della nuova Costituzione. Altrettanto basterà ricordare gli altri diciannove articoli, che erano i primi elementi della nuova Costituzione, presi e attinti dalla stessa fonte della Costituzione Francese. Pertanto, poiché non poteva assolutamente accadere che Noi sancissimo tali deliberazioni e che i Nostri ministri, dovunque fossero, le osservassero, avvenne che l’Assemblea rappresentativa tosto manifestasse quel furioso ardore di ribellione per il quale già da tempo combatteva e che fino ad oggi aveva nascosto.

14. Perciò, presa dall’odio nei confronti del Nostro pro-legato perché non aveva accolto le sue richieste né aveva prestato il giuramento civico, l’Assemblea lo spogliò di qualsiasi potere giurisdizionale e dichiarò che non poteva più considerarlo come Nostro ministro. Né diversamente si agì nei confronti del diletto figlio Cristoforo Pieracchi, rettore di Carpentras, e di tutti gli altri ministri pontefici. Poscia in luogo del pro-legato fu istituito un nuovo tribunale, furono nominati tre conservatori di stato, e furono mandati a Noi due deputati preparati secondo un preciso ordine pieno d’arroganza e d’insulti, indice di aperta defezione: questa la ragione per cui abbiamo negato qualsiasi udienza a deputati siffatti.

Esautorati così i Nostri ministri, Giovanni Celestini dovette ritornare a Roma, e gli altri delegati pontifici, allontanatisi di là, giunsero prima ad Aubignano, luogo vicino a Carpentras, poscia a Bucheto, vicino ai confini del Contado Venesino, quindi, crescendo il tumulto, a Montelimarzio, nel Delfinato, e infine a Camberiaco, ove il 5 marzo di quest’anno rinnovarono le opportune proteste, curando di farle inserire negli atti della cancelleria vescovile.

15. Chi mai avrebbe creduto che questa partenza dei Nostri ministri, determinata da nessun’altra causa se non che essi erano stati spogliati di ogni giurisdizione e vedevano la loro vita in pericolo, come dimostrano le loro ripetute e frequenti proteste, che questa partenza – ripetiamo – sarebbe stato l’appiglio per il Consiglio municipale di Carpentras e per altre comunità di raccontare e ripetere alla gente che i popoli erano stati abbandonati dal loro Principe?

Sciolti pertanto dal giuramento di fedeltà, potevano, se volevano, sottomettersi al Re cristianissimo, come in realtà essi decretarono di fare.

Il popolo Avignonese e del Contado si sottrasse alla Nostra sovranità osando violare le leggi umane e divine. Ma Noi mai pensammo di abbandonare quei popoli, e pertanto presteremo la Nostra opera e daremo il Nostro aiuto in futuro, come in passato, affinché ritornino a Noi. Per questa ragione a coloro che si fossero allontanati da Noi abbiamo perdonato, senza alcuna condizione. Ma questo singolare atto della Nostra clemenza, sia ad Avignone sia a Carpentras, fu accolto con sfrenata arroganza e furono anche adottate dall’una e dall’altra parte deliberazioni indegne, che è meglio passare sotto silenzio e coprire con le tenebre, piuttosto che metterle in luce.

16. Ma non per questo il Nostro amore venne meno. Non ignoriamo infatti, Venerabili Fratelli, che non v’è nessuno fra voi che non detesti con grande orrore i delitti fin qui commessi e da essi non si allontani, per meglio adempire al suo ufficio di pastore. Sappiamo anche che fra voi, diletti figli, canonici, parroci, ed ecclesiastici di Avignone e del Contado vi sono molte persone eccellenti per virtù, accese di fervore religioso, pronte per ciò a sopportare qualsiasi sacrificio per difendere la causa di Dio, della Chiesa e della Patria. Sappiamo infine, diletti figli, che nel vostro nobile e civico rango si trovano molti dotati di apprezzabile devozione verso la Chiesa e di ottimo animo verso di Noi, sia ad Avignone, sia molto di più nel Contado, dove intere comunità conservano intatte ed intemerate la Religione e la fedeltà. Da qui, ammaestrati dalla divina sapienza, deduciamo che abbiano ragione i probi e i giusti; conseguentemente sopportiamo con mansuetudine i cattivi. E quantunque scorgendo tanti delitti siamo afflitti da grandissimo dolore, vogliamo tuttavia parlare paternamente agli uni e agli altri, affinché i buoni perseverino nel proposito di bene, e i cattivi vi ritornino e, con la penitenza, purghino le loro colpe. Inoltre, giacché scriviamo per questo tempo, nulla è più santo di ciò che porta con sé il giorno della riconciliazione e della pace.

Non siamo pertanto inorriditi per le cose contrarie che sono avvenute sia costà che nel regno dei Galli, come se Dio Ci avesse abbandonato. Ma pensiamo e reputiamo che le cose siano accadute sia per i Nostri peccati, sia per quelli del popolo, e non per la morte, ma per la correzione della Nostra stirpe. Pertanto confidiamo che in futuro il Dio ottimo e massimo, davanti al quale tanto spesso Ci siamo prostrati per chiedere perdono a favore del popolo affidato alla Nostra cura, si riconcili con i suoi servi, non allontani mai la sua misericordia da Noi, ma, abbracciando nelle disgrazie il suo popolo, non lo abbandoni: chi è abbandonato nell’ira di Dio onnipotente, di nuovo sarà esaltato nella riconciliazione del grande Signore.

17. Ascoltate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, le Nostre paterne parole, che, seguendo il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali Santa Romana Chiesa, vi rivolgiamo come pastore universale e vostro principe sul divario delle cose ecclesiastiche e politiche. Per quanto riguarda il regime ecclesiastico, nei confronti di coloro che con giuramento lo abbracciarono e seguirono, o mai abbracceranno e seguiranno costì la Costituzione civile del clero, agiremo con la stessa benignità con la quale abbiamo agito nei confronti di coloro che fecero lo stesso nelle Gallie, ove nacque la medesima Costituzione, in parte eretica, in parte scismatica, e nel complesso lontana dalle regole e avversa alla disciplina ecclesiastica; così è Nostro proposito di non fare altro che comminare ed estendere le stesse pene canoniche che reca la Nostra lettera del giorno 13 di questo mese, mandata ai diletti Nostri figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, ai diletti figli del capitolo, al clero e al popolo del regno delle Gallie. Di questa lettera mandiamo a voi molte altre copie, Venerabili Fratelli, affinché le facciate pervenire alle mani dei capitoli, del clero e dei popoli di codesta Nostra giurisdizione.

18. Pertanto, con la Nostra autorità apostolica, dichiariamo irriti, illegittimi e sacrileghi tutti gli atti che con qualsiasi nome, sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia altrove siano stati compiuti per fare abbracciare o seguire, sia tacitamente, sia esplicitamente, tutta la Costituzione civile del clero od anche soltanto una parte, e tutti questi atti che diamo per espressi li condanniamo, respingiamo ed aboliamo.

19. Soprattutto annulliamo ed aboliamo l’editto dell’8 ottobre 1790, col quale il Consiglio municipale di Avignone, non solo temerariamente, ma anche empiamente, tentò di costringere il Venerabile Fratello Arcivescovo di quella città, i canonici, i parroci e gli altri ministri ecclesiastici ad unirsi a sé con civico giuramento, essendo proprio di qualsiasi indegno uomo cattolico, una volta promulgata la dichiarazione, considerare vacanti la sede arcivescovile, le parrocchie e tutti gli altri uffici se non viene espresso un giuramento di tal fatta: tale editto perciò è invalido, sacrilego, e per sua natura idoneo a favorire lo scisma.

20. Parimenti condanniamo ed annulliamo l’elezione di Malierio a vicario capitolare, e la dichiariamo empia, violenta, irrita e sacrilega poiché è del tutto ignorato nella Chiesa di Dio che si possa togliere al pastore legittimo ancora vivente il governo del suo gregge, se non per cause canoniche, previste dalla stessa Chiesa o da questa Santa Sede; e poiché manca dei necessari suffragi ed è priva di ogni libertà, così l’elezione non può essere considerata né canonica, né ecclesiastica, ma un atto militare ed ostile. Infatti la forza militare estorse i suffragi; con la forza militare avvenne che codesta fittizia elezione venisse presentata al popolo fra le giuste proteste dei canonici che precedettero e seguirono l’atto profano; si deve perciò ritenere che lo stesso possesso dell’eletto sia stato accreditato con la forza militare.

A questa vicenda si possono dunque applicare le parole che furono scritte dal Sinodo di Alessandria nella lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, quando Sant’Atanasio fu cacciato dalla sua sede nel conciliabolo di Tiro: "Quando il capo presiedeva, quando il capo parlava, gli altri stavano in silenzio, o piuttosto prestavano ossequio al capo; ciò che comunemente piaceva ai Vescovi, da lui era impedito; egli usava il comando, noi eravamo guidati dai soldati". Ottimamente il Sinodo affermò che siffatta degradazione era da considerare "intrigo di comandanti, non atto sinodale".

Ugualmente si confanno le parole dette da San Giulio, quando al posto dello stesso Atanasio i Vescovi Ariani sostennero il dissipatore Giorgio, e lo mandarono ad Alessandria protetto dal braccio militare.

Egregiamente il Santo Pontefice scriveva che Giorgio era entrato in Chiesa "non con i sacerdoti e i diaconi della città, ma con i soldati... credetemi, carissimi, poiché parliamo con verità come se fosse presente Dio: codesto non è un fatto pio, né giusto, né ecclesiastico".

21. La dichiarata nullità dell’elezione porta con sé la nullità di tutti gli atti compiuti da Malierio fin dall’inizio, senza giurisdizione, contro i rettori del seminario, contro i buoni pastori, contro i religiosi privati dei loro uffici per nessun’altra causa, se non perché rifiutarono di prestare il giuramento di osservare una Costituzione assolutamente acattolica.

A proposito della nostra questione, ancora San Giulio esclama: "Gli atti compiuti da Giorgio nel suo ingresso, mostrano quale sia stata la regola nella sua ordinazione; preti... indegnamente fatti... rapiti i sacri misteri per costringere con la forza alcuni ad approvare la costituzione di Giorgio. Queste cose ed altre simili dimostrano chi siano i prevaricatori dei canoni. Infatti... neanche con la prevaricazione della legge avrebbe costretto ad ubbidire coloro che legittimamente ubbidivano ad essa".

22. Pertanto, quantunque siano gravi e molti i delitti commessi da Malierio, tuttavia, volendo lasciargli tempo e possibilità di ritirarsi e di purgare le sue colpe con pubblica e opportuna riparazione, Ci asteniamo dall’imporgli le pene canoniche più gravi e gli comminiamo la pena più mite di tutte, dichiarandolo sospeso dall’Ordine sacerdotale e colpevole d’irregolarità se osasse esercitare il predetto Ordine.

23. Ordiniamo inoltre al predetto Malierio, sotto pena di sospensione, di non osare da qui in poi di chiamarsi Vicario capitolare né di esercitare alcun ufficio inerente in qualche modo a questa dignità, alla quale è giunto né per diritto né canonicamente. Soprattutto vogliamo che gli sia interdetto mandare lettere dimissorie a coloro che si apprestano a ricevere gli ordini, e che non siano da lui nominati in alcun modo parroci, rettori di seminari, funzionari ed altri ministri ecclesiastici di qualsiasi genere, anche se eletti dal popolo, dichiarando nulli ed irriti tutti i provvedimenti e gli incarichi che fino a questo momento fossero stati disposti, con tutte le relative conseguenze, e qualsiasi altro atto che osasse fare in seguito.

24. Comminiamo la stessa pena della sospensione dall’esercizio dell’Ordine al predetto Mouvansio, prete dell’Oratorio, che celebrò la Messa quando lo pseudo-Vicario Malierio prese possesso, e per somma temerità aggiunse le insegne della Municipalità alle vesti sacerdotali che indossava.

25. Rivolgendoci a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici e cittadini tutti di Avignone, vi preghiamo nel Signore di non accogliere il predetto Vicario capitolare, o qualsiasi altro ministro che per vie tortuose e sotterrane e tentasse di occupare incarichi ecclesiastici; al contrario vi raccomandiamo di ubbidire anzitutto all’Arcivescovo ed ai vostri legittimi parroci; questi infatti saranno sempre i vostri pastori, anche se costretti ad allontanarsi contro la loro volontà; ciò anche se, con orribile sacrilegio, fosse eletto e consacrato un altro Arcivescovo o si designassero altri parroci.

Questo tipo di sacrilegio è stato da Noi denunciato e condannato con Nostra lettera ai Vescovi delle Gallie trasmessa anche a voi.

Sarà quindi compito dell’Arcivescovo guidare le sue pecore, e dei buoni parroci offrire aiuti spirituali al proprio popolo come meglio potranno. Ricordatevi che senza il giudizio canonico della Chiesa non potete, anche in condizioni di violenza e di necessità, sottrarvi o liberarvi da quel vincolo d’obbedienza con il quale siete legati all’Arcivescovo ed ai vostri parroci, come fu riconosciuto e dichiarato il 25 febbraio nel convegno straordinario tenutosi presso la celebre Università della Sorbona.

26. A questo punto riteniamo opportuno difendere sia il vostro Arcivescovo sia gli altri funzionari dalle accuse con le quali erano stati colpiti ingiustamente nell’editto del Consiglio municipale, come se gli stessi non potessero essere lontani da Avignone senza contravvenire a quanto prescritto dai canoni. Effettivamente, secondo i canoni, non possono essere senza colpa né l’Arcivescovo né gli altri ministri assenti, che per l’esercizio del loro dovere sono obbligati ad essere presenti alla Chiesa, sia quando l’Arcivescovo, per giusti e razionali motivi inderogabili, si reca fuori diocesi e quivi si ferma oltre il tempo consentito, sia quando gli altri ministri ecclesiastici si allontanano dal servizio della Chiesa cui sono addetti. Ma se ciò accadesse, gli autori dell’editto non devono affatto ignorare che a norma degli stessi canoni non è permesso ai laici sentenziare contro gli ecclesiastici e castigarli con l’estrema pena della privazione: ma devono essere lasciati alla Chiesa il libero diritto e la facoltà di trattare nei loro riguardi con gradualità e con diverse pene, o privandoli dei redditi dei benefici, o castigandoli con pene spirituali, o privandoli infine degli stessi benefici. Così come se si trattasse del Metropolitano assente, "il Vescovo residente più anziano, sotto pena dell’interdetto da incorrere immediatamente, è tenuto a denunciare entro tre mesi, per lettera o per mezzo di un ambasciatore, al Romano Pontefice, il quale, secondo la maggiore o la minore contumacia, con l’autorità della sua Sede suprema potrà riprendere gli assenti e provvedere le Chiese stesse di pastori più utili, così come riterrà più salutare nel Signore e come è stabilito con le stesse parole dal Concilio Tridentino".

27. Per la verità sono conosciute da tutti quelle grandi masse, costì eccitate, che costrinsero i nobili e gli ecclesiastici ad abbandonare la patria e il domicilio per evitare di giurare o per sfuggire a quei danni che altri probi uomini miseramente subirono; quei danni ai quali non poterono essere sottratti neppure i loro patrimoni, come avvenne per la casa arcivescovile e per gli altri beni dell’Arcivescovo. Si giunse a questo ancorché l’Arcivescovo non avesse mai mosso un piede fuori della sua Diocesi; infatti Villanova, dove egli ha dimorato e tuttora dimora, si trova entro i confini della sua stessa Diocesi; così che per questo non si può dire che egli si sia scostato dalla disposizione Tridentina, che ordina ai Metropolitani di risiedere nella Chiesa arcivescovile o nella Diocesi. Del resto a Noi, cui spetta il giudizio su queste cose, consta per certo che niente più ardentemente desiderava l’Arcivescovo che ritornare costì e sarebbe già tornato da voi, anche con rischio della sua vita, se non avesse temuto che la sua morte, più che di utilità alle sue pecore, fosse di danno e detrimento in questi infelicissimi tempi.

28. Le cose che abbiamo detto al clero e al popolo di Avignone sull’ubbidienza dovuta all’Arcivescovo e ai pastori, ripetiamo anche a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici, e genti delle altre Chiese del Contado. State lontani da coloro che invasero le Chiese altrui o che tentano ancora di invaderle, evitateli, guardateli con orrore: amate invece i vostri legittimi Vescovi e Parroci, ossequiateli ed ascoltateli.

29. Tutti gli abitanti di Avignone e del Contado formino unità di animi e volontà quando si tratta di argomenti religiosi: rivolgete sempre gli occhi alle leggi divine, alle leggi ecclesiastiche e a quelle di questa Sede Apostolica. La Chiesa infatti e la Sede Apostolica sono mosse dallo Spirito di Dio. Se così vi comporterete, come confidando sulla vostra pietà speriamo per il futuro, l’ira di Dio si convertirà in misericordia e da questo riporterete trionfo; coloro che combattono contro la Religione saranno costretti a dire di voi ciò che i nemici dei Giudei dicevano dei Maccabei, cioè che i Giudei avevano Dio quale protettore e per Lui erano invulnerabili perché osservavano le leggi da Lui stabilite.

30. Passando ora dal governo ecclesiastico a quello civile non possiamo comportarci con voi nello stesso modo con il quale Ci comportammo con i Galli. A questi, infatti, non abbiamo voluto parlare della nuova legge relativa alle cose civili approntata dalle Assemblee Generali e sancita dal Re per competenza. Al contrario non possiamo tacere con voi che da molti secoli siete sotto la Sede Apostolica, sotto il governo dei Sommi Pontefici, e che senza la Nostra suprema autorizzazione non potete cambiare la forma del regime temporale: ciò richiedono sia le leggi umane, sia quelle divine.

31. Perciò, usando la Nostra suprema e legittima potestà, in qualità di Principe, annulliamo tutti e i singoli atti compiuti contro i diritti del Nostro Principato sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia in qualunque parte del Contado, e riproviamo innanzi tutto e annulliamo, in quanto irrite, le delibere piene di violenza e di sedizione adottate costà con il proposito di sottrarvi dalla Nostra sovranità per trasferirvi a quella Francese; delibere – diciamo – che il carissimo Nostro figlio in Cristo il cristianissimo Re insieme alla sua inclita Nazione non può approvare e neppure mettere in discussione senza ledere i sacrosanti diritti delle genti, come abbiamo specificato allo stesso Re con ripetute rimostranze.

32. Disapproviamo parimenti ed annulliamo le delibere ugualmente assurde e sediziose di vivere costì con ordinamento repubblicano; riproviamo e annulliamo anche le delibere con le quali per somma pazzia si accolgono le leggi civili straniere, sia emanate sia da emanare, e con le quali si antepongono leggi nuove, pericolose e incerte, alla Costituzione antica, domestica e legittima, sotto la quale voi ed i vostri antenati siete vissuti tranquillamente ed in pace per tanti secoli.

33. E, tralasciando altre innovazioni compiute in massima parte senza il Nostro consenso, nell’eccitazione degli animi e nello stesso calore della sedizione, per cui si debbono ritenere illecite come se a questo punto le avessimo ricordate singolarmente, annulliamo soprattutto gli indegnissimi atti di violenza, per i quali il Nostro pro-legato, il rettore e gli altri ministri sono stati prima esautorati e poscia costretti ad allontanarsi dai nuovi ufficiali e dai tribunali subentrati. E affinché non si possa mai dubitare che Noi conserviamo intatto ed integro il Nostro antico possedimento e custodiamo tutti i Nostri antichi, legittimi e tutelati diritti, con queste parole e nel modo più solenne possibile, con diritto confermiamo non solo le proteste sopra ricordate, spesso rinnovate per mezzo del Nostro pro-legato e che qui vogliamo siano ricordate come se fossero scritte parola per parola, ma anche i reclami che, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, e imitando il costume di altri principi, abbiamo curato di mandare al Re delle Gallie e ad altre assemblee cattoliche con l’intento e la volontà, se sarà necessario, di ricorrere a rimedi più forti, che sono in Nostro potere, per vincere la sempre più insistente pervicacia.

34. Ciò premesso, vi ammoniamo paternamente e vi esortiamo, Venerabili Fratelli e diletti figli che siete rimasti fedeli, affinché non solo con l’esempio, ma anche con la parola esortiate coloro che tanto ed in tanti modi si allontanarono, ad abbandonare quella sedizione, nella quale si sono miseramente avviluppati e a ritornare a Noi, che li abbiamo sempre portati nell’animo, in modo tale che, abbracciandoli nuovamente, non possiamo non accoglierli in seno.

Si ricordino che per il precetto stabilito da Dio, e che le sacre pagine tanto spesso ripetono, i sudditi devono ubbidire al loro Principe, e debbono eseguire le patrie leggi che da lui furono emanate.

Si guardino diligentemente dalla ricerca di cose nuove, che quantunque in apparenza sembrino utili, sono sempre collegate ad un sommo pericolo. Se nelle patrie leggi entrò qualche abuso (già altre volte abbiamo dichiarato e ancora dichiariamo) siamo pronti a sradicarlo e a toglierlo di mezzo, ascoltando, per quanto starà in Noi, i vostri desideri.

Cessino le fazioni e le discordie fra i cittadini; le cose tornino al loro posto; agli animi siano restituite la carità, la giustizia e la pace. Infatti sarete felici ovunque se, osservando le leggi di Dio, della Chiesa e del vostro Sovrano, godrete della pace, dal momento che il Dio della pace e dell’amore sarà con voi, come promise l’apostolo Paolo ai suoi fedeli.

Noi intanto, in pegno di quella pace che per tutti invochiamo dal Signore, a voi, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti figli, impartiamo con affetto la Nostra Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 aprile 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.


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