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Giovanni Paolo II
Mulieris dignitatem


I. Introduzione

Un segno dei tempi

1. La dignità della donna e la sua vocazione - oggetto costante della riflessione umana e cristiana - hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più recenti. Ciò è dimostrato, tra l’altro, dagli interventi del Magistero della Chiesa, rispecchiati in vari documenti del Concilio Vaticano II, il quale afferma poi nel messaggio finale: "Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. E per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere". (Conc. Oecum. Vat. II "Nuntius ad Mulieres", die 8 dec. 1965: AAS 58 [1966] 13-14) Le parole di questo messaggio riassumono ciò che aveva già trovato espressione nel Magistero conciliare, specie nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes" (cf. "Gaudium et Spes", 8.9.60) e nel decreto sull’apostolato dei laici "Apostolicam Actuositatem" (cf. "Apostolicam Actuositatem", 9).

Simili prese di posizione si erano manifestate nel periodo preconciliare, per esempio in non pochi discorsi del Papa Pio XII (cf. Pii XII "Allocutio ad Mulieres e Societatibus Christianis Italiae delegatas", die 21 oct. 1945: AAS 37 [1945] 284-295; Pii XII "Allocutio ad delegatas Conventui Unionis universalis Sodalitatum mulierum catholicarum", die 24 apr. 1952: AAS 44 [1952] 420-424; Pii XII "Allocutio ad eas quae interfuerunt XIV Conventui Internationali ex "Union Mondiale des Organisations féminines catholiques"", die 29 sept. 1957: AAS 49 [1957] 906-922) e nell’enciclica "Pacem in Terris" di Papa Giovanni XXIII (cf. Ioannis XXIII "Pacem in Terris", die 11 apr. 1963: AAS 55 [1963] 267-268). Dopo il Concilio Vaticano II, il mio predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo "segno dei tempi", attribuendo il titolo di dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena (Pauli VI "Declaratio S. Teresiae de Avila, Virginis, "Doctoris universalis Ecclesiae"", die 27 sept. 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 949-957; Pauli VI "Declaratio S. Catherinae Senensis, Virginis, "Doctoris universalis Ecclesiae"", die 4 oct. 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 982-988) ed istituendo, altresì, su richiesta dell’assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la "promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne" (AAS 65 [1973] 284s). In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: "Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il nuovo testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti...; appare all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità" (Pauli VI "Allocutio ad eas quae interfuerunt Nationali Conventui Consociationis Italicarum Mulierum", CIF, die 6 dec. 1976: Insegnamenti di Paolo VI, XIV [1976] 1017).

I Padri della recente assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 1987), dedicata a "la vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II", si sono di nuovo occupati della dignità e della vocazione della donna. Essi hanno auspicato, tra l’altro, l’approfondimento dei fondamenti antropologici e teologici necessari a risolvere i problemi relativi al significato e alla dignità dell’essere donna e dell’essere uomo. Si tratta di comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio. Solo partendo da questi fondamenti, che consentono di cogliere la profondità della dignità e della vocazione della donna, è possibile parlare della sua presenza attiva nella Chiesa e nella società.

È quanto intendo trattare nel presente documento. L’esortazione post-sinodale, che verrà resa pubblica dopo di esso, presenterà le proposte di indole pastorale circa il posto della donna nella Chiesa e nella società, sulle quali i Padri sinodali hanno fatto importanti considerazioni, avendo anche vagliato le testimonianze degli uditori laici - donne e uomini - provenienti dalle Chiese particolari di tutti i continenti.

L’anno mariano

2. L’ultimo Sinodo si è svolto durante l’anno mariano, che offre un particolare impulso ad affrontare questo tempo, come indica anche la enciclica "Redemptoris Mater" (cf. "Redemptoris Mater", 46). Questa enciclica sviluppa e attualizza l’insegnamento del Concilio Vaticano II, contenuto nel capitolo VIII della costituzione dogmatica sulla Chiesa "Lumen Gentium". Tale capitolo reca un titolo significativo: "La beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa". Maria - questa "donna" della Bibbia (cf. Gen 3,15; Gv 2,4;19,26) - appartiene intimamente al mistero salvifico di Cristo, e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero della Chiesa. Poiché "la Chiesa è in Cristo come un sacramento... dell’intima unione con Dio e della unità di tutto il genere umano" ("Lumen Gentium", 1), la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare all’eccezionale legame tra questa "donna" e l’intera famiglia umana. Si tratta qui di ciascuno e di ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere umano, nei quali si realizza nel corso delle generazioni quella fondamentale eredità dell’intera umanità che è legata al mistero del "principio" biblico: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27; un’illustrazione del significato antropologico e teologico del "principio" può vedersi nella prima parte delle allocuzioni del mercoledì dedicate alla "teologia del corpo", a partire dal 5 settembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 234-236).

Questa eterna verità sull’uomo, uomo e donna - verità che è anche immutabilmente fissata nell’esperienza di tutti - costituisce contemporaneamente il mistero che soltanto nel "Verbo incarnato trova vera luce... Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione", come insegna il Concilio ("Gaudium et Spes", 22). In questo "svelare l’uomo all’uomo" non bisogna forse scoprire un posto particolare per quella "donna", che fu la Madre di Cristo? Il "messaggio" di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, antico e nuovo testamento, non può forse dire molto alla Chiesa e all’umanità circa la dignità e la vocazione della donna?

Proprio questa vuol essere la trama del presente documento, che si inquadra nel vasto contesto dell’anno mariano, mentre ci si avvia al termine del secondo millennio dalla nascita di Cristo e all’inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a questo testo lo stile e il carattere di una meditazione.

 

II. Donna-Madre di Dio (Theotókos)

Unione con Dio

3. Quando "venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna". Con queste parole della lettera ai Galati (Gal 4,4) l’apostolo Paolo unisce tra loro i momenti principali che determinano in modo essenziale il compimento del mistero "prestabilito in Dio" (cf. Ef 1,9). Il Figlio, Verbo consostanziale al Padre, nasce come uomo da una donna, quando viene "la pienezza del tempo". Questo avvenimento conduce al punto chiave della storia dell’uomo sulla terra, intesa come storia della salvezza. È significativo che l’Apostolo non chiami la Madre di Cristo col nome proprio di "Maria", ma la definisca "donna": ciò stabilisce una concordanza con le parole del protoevangelo nel libro della Genesi (cf. Gen 3,15). Proprio quella "donna" è presente nell’evento centrale salvifico, che decide della "pienezza del tempo": questo evento si realizza in lei e per mezzo di lei.

Così inizia l’evento centrale, l’evento chiave nella storia della salvezza, la Pasqua del Signore. Tuttavia, vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla storia spirituale dell’uomo intesa nel modo più ampio, così come si esprime attraverso le diverse religioni del mondo. Appelliamoci qui alle parole del Concilio Vaticano II: "Gli uomini si attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano: che cosa sia l’uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano il bene e il peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via per raggiungere la vera felicità, che cosa siano la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo" ("Nostra Aetate", 1). "Dai tempi più antichi fino ad oggi, presso i vari popoli si trova una certa percezione di quella forza arcana che è presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si ha riconoscimento della suprema divinità o anche del padre" ("Nostra Aetate", 2).

Sullo sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello spirito umano in cerca di Dio - a volte quasi "andando come a tentoni" (cf. At 17,27) -, la "pienezza del tempo", di cui parla Paolo nella sua lettera, mette in rilievo la risposta di Dio stesso, di colui "in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (cf. At 17,28). È questi il Dio che "aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, e ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (cf. Eb 1,1-2). L’invio di questo Figlio, consostanziale al Padre, come uomo "nato da donna", costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un carattere salvifico, come insegna in un altro passo il Concilio Vaticano II: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura" (cf. Ef 2,18; 2Pt 1,4; "Dei Verbum", 2).

La donna si trova al cuore di questo evento salvifico. L’autorivelazione di Dio, che è l’imperscrutabile unità della Trinità, è contenuta nelle sue linee fondamentali nell’annunciazione di Nazaret. "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo". "Come avverrà questo? Non conosco uomo". "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio... Nulla è impossibile a Dio" (cf. Lc 1,31-37). Già secondo i Padri della Chiesa, la prima rivelazione della Trinità nel nuovo testamento è avvenuta nell’annunciazione. In un’omelia attribuita a S. Gregorio il Taumaturgo si legge: "Sei splendore di luce, o Maria, nel sublime regno spirituale! In te il Padre, che è senza principio e la cui potenza ti ha ricoperto, è glorificato. In te il Figlio, che hai portato secondo la carne, è adorato. In te lo Spirito Santo, che ha operato nelle tue viscere la nascita del grande Re, è celebrato. È grazie a te, o piena di grazia, che la Trinità santa e consustanziale ha potuto essere conosciuta nel mondo" . Cfr. S. Andreae Cretensis "In Annuntiat. B. Mariae": PG 97, 909).

È facile pensare a questo evento nella prospettiva della storia d’Israele, il popolo eletto di cui Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi nella prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali l’umanità da sempre cerca risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più l’assillano. Non si trova forse nell’annunciazione di Nazaret l’inizio di quella risposta definitiva, mediante la quale Dio stesso viene incontro alle inquietudini del cuore dell’uomo? (cf. "Nostra Aetate", 2) Qui non si tratta solo di parole di Dio rivelate per mezzo dei profeti, ma, con questa risposta, realmente "il Verbo si fa carne" (cf. Gv 1,14). Maria raggiunge così un’unione con Dio tale da superare tutte le attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto Israele e, in particolare, delle figlie di questo popolo eletto, le quali, in base alla promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe un giorno divenuta madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre che il Messia promesso sarebbe stato il "Figlio dell’Altissimo"? A partire dalla fede monoteista veterotestamentaria ciò era difficilmente ipotizzabile. Solamente in forza dello Spirito Santo, che "stese la sua ombra" su di lei, Maria poteva accettare ciò che è "impossibile presso gli uomini, ma possibile presso Dio" (cf. Mc 10,27).

Theotókos

4. In tal modo "la pienezza del tempo" manifesta la straordinaria dignità della "donna". Questa dignità consiste, da una parte, nell’elevazione soprannaturale all’unione con Dio in Gesù Cristo, che determina la profondissima finalità dell’esistenza di ogni uomo sia sulla terra che nell’eternità. Da questo punto di vista, la "donna" è la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano: rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne. D’altra parte, però, l’evento di Nazaret mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo alla "donna", Maria: l’unione tra madre e figlio. La Vergine di Nazaret diventa, infatti, la Madre di Dio.

Questa verità, accolta sin dall’inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione nel Concilio di Efeso (anno 431) (La dottrina teologica sulla Madre di Dio sostenuta da molti Padri della Chiesa, chiarita e definita nei Concilii di Efeso e di Calcedonia , è stata riproposta dal Concilio Vaticano II, nel capitolo VIII della "Lumen Gentium", 52-69. Cfr. "Redemptoris Mater", 4.31-32 et notae 9.78-83). Contrapponendosi all’opinione di Nestorio, che riteneva Maria esclusivamente madre di Gesù-uomo, questo Concilio mise in rilievo l’essenziale significato della maternità di Maria Vergine. Al momento dell’annunciazione, rispondendo col suo "fiat", Maria concepì un uomo che era Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque, è veramente la Madre di Dio, poiché la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, e neppure solo la "natura" umana. In questo modo il nome "Theotókos" - Madre di Dio - divenne il nome proprio dell’unione con Dio, concessa a Maria Vergine.

La particolare unione della "Theotókos" con Dio, che realizza nel modo più eminente la predestinazione soprannaturale all’unione col Padre elargita ad ogni uomo ("filii in Filio"), è pura grazia e, come tale, un dono dello Spirito. Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede Maria esprime la sua libera volontà, e dunque la piena partecipazione dell’"io" personale e femminile all’evento dell’ncarnazione. Col suo "fiat", Maria diviene l’autentico soggetto di quell’unione con Dio, che si è realizzata nel mistero dell’incarnazione del Verbo consostanziale al Padre. Tutta l’azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell’"io" umano. Lo stesso avviene nell’annunciazione a Nazaret.

"Servire vuol dire regnare"

5. Questo evento possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo comprendiamo pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra l’angelo e Maria nel saluto: "piena di grazia" (cf. "Redemptoris Mater", 7-11, "atque textus Patrum ibi memorati" in nota 31). L’intero dialogo dell’annunciazione rivela l’essenziale dimensione dell’evento: la dimensione soprannaturale . Ma la grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona e nobilita. Pertanto, quella "pienezza di grazia", concessa alla Vergine di Nazaret, in vista del suo divenire "Theotókos", significa allo stesso tempo la pienezza della perfezione di ciò "che è caratteristico della donna", di "ciò che è femminile". Ci troviamo qui, in un certo senso, al punto culminante, all’archetipo della personale dignità della donna.

Quando Maria risponde alle parole del celeste messaggero col suo "fiat", la "piena di grazia" sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo al dono che le è stato rivelato, dicendo: "Eccomi, sono la serva del Signore" (Lc 1,38). Questa frase non può essere privata né sminuita del suo senso profondo, estraendola artificialmente da tutto il contesto dell’evento e da tutto il contenuto della verità rivelata su Dio e sull’uomo. Nell’espressione "serva del Signore" si fa sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere creatura in rapporto a Dio. Tuttavia, la parola "serva", verso la fine del dialogo dell’annunciazione, si inscrive nell’intera prospettiva della storia della Madre e del Figlio. Difatti, questo Figlio, che è vero e consostanziale "Figlio dell’Altissimo", dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante della sua missione: "Il Figlio dell’uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45).

Cristo porta sempre in sé la coscienza di essere "servo del Signore", secondo la profezia di Isaia (cf. Is 42,1;49,3.6;52,13), in cui è racchiuso il contenuto essenziale della sua missione messianica: la consapevolezza di essere il redentore del mondo. Maria sin dal primo momento della sua maternità divina, della sua unione col Figlio che "il Padre ha mandato nel mondo, perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cf. Gv 3,17), si inserisce nel servizio messianico di Cristo (cf. "Redemptoris Mater", 39-41). È proprio questo servizio a costituire il fondamento stesso di quel regno, in cui "servire... vuol dire regnare" ("Lumen Gentium", 36). Cristo, "servo del Signore", manifesterà a tutti gli uomini la dignità regale del servizio, con la quale è strettamente collegata la vocazione d’ogni uomo.

Così considerando la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno nella presente meditazione dell’anno mariano. Tale realtà determina anche l’essenziale orizzonte della riflessione sulla dignità e sulla vocazione della donna. Nel pensare, dire, o fare qualcosa in ordine alla dignità e alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il cuore e le opere da questo orizzonte. La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva nell’unione con Dio. Maria - la donna della Bibbia - è la più compiuta espressione di questa dignità e di questa vocazione. Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della dimensione di questa immagine e somiglianza.

 

III. Immagine e somiglianza di Dio

Libro della Genesi

6. Dobbiamo collocarci nel contesto di quel "principio" biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come "immagine e somiglianza di Dio" costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana (cf. S. Iranaei "Adv. haereses", V, 6, 1; V, 16, 2-3: S. Ch. 153, 72-81 et 216-221; S. Gregorii Nysseni "De hom. op.", 16: PG 44, 180; "In Cant. hom.", 2: PG 44, 805-808; S. Augustini "In Ps. 4,8": CCL 38, 17). "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche fondamentali: l’uomo è l’apice di tutto l’ordine del creato nel mondo visibile - il genere umano, che prende inizio dalla chiamata all’esistenza dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione -; ambedue sono esseri umani, in egual grado l’uomo e la donna, ambedue creati a immmagine di Dio. Questa immagine e somiglianza con Dio, essenziale per l’uomo, dall’uomo e dalla donna, come sposi e genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela" (Gen 1,28). Il Creatore affida il "dominio" della terra al genere umano, a tutte le persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità e vocazione dal comune "principio".

Nella Genesi troviamo ancora un’altra descrizione della creazione dell’uomo - uomo e donna (cf. Gen 2,18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d’ora, tuttavia, bisogna affermare che dalla notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell’essere umano. L’uomo è una persona, in egual misura l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l’uomo simile a Dio è il fatto che - diversamente da tutto il mondo delle creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi ("animalia") - l’uomo è anche un essere razionale ("animal rationale") ("Persona est naturae rationalis individua substantia": Manlii Severini Boëthii "Liber de persona et duabus naturis" III: PL &$, 1443; cf. S. Thomae Aquinatis "Summa Theologiae", I, q. XXIX, art. I). Grazie a questa proprietà l’uomo e la donna possono "dominare" sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1,28).

Nella seconda descrizione della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,18-25) il linguaggio in cui viene espressa la verità sulla creazione dell’uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo senso è meno preciso, è - si potrebbe dire - più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due testi. Il testo di Genesi 2,18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo nel passo conciso di Genesi 1,27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente ad esso, aiuta a comprendere in modo ancora più profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio come uomo e donna.

Nella descrizione di Genesi 2,18-25 la donna viene creata da Dio "dalla costola" dell’uomo ed è posta come un altro "io", come un interlocutore accanto all’uomo, il quale nel mondo circostante delle creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un "aiuto" adatto a sé. La donna, chiamata in tal modo all’esistenza, è immediatamente riconosciuta dall’uomo come "carne della sua carne e osso delle sue ossa" (cf. Gen 2,23) e appunto per questo è chiamata "donna". Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: "’is-’issah", cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. "La si chiamerà donna ("’issah"), perché dall’uomo ("’is") è stata tolta" (Gen 2,23).

Il testo biblico fornisce sufficienti basi per ravvisare l’essenziale uguaglianza dell’uomo e della donna dal punto di vista dell’umanità (Tra i Padri della Chiesa che affermano l’eguaglianza fondamentale dell’uomo e della donna davanti a Dio cf. Origenis "In Iesu nave", IX, 9: PG 12, 878; Clementis Alexandrini "Paed.", I, 4: S. Ch. 70, 128-131; S. Augustini "Sermo 51", II, 3: PL 38, 334-335). Ambedue sin dall’inizio sono persone, a differenza degli altri esseri viventi del mondo che li circonda. La donna è un altro "io" nella comune umanità. Sin dall’inizio essi appaiono come "unità dei due" e ciò significa il superamento dell’originaria solitudine, nella quale l’uomo non trova "un aiuto che gli sia simile" (Gen 2,20). Si tratta qui solo dell’"aiuto" nell’azione, nel "soggiogare la terra"? (cf. Gen 1,28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l’uomo può unirsi divenendo con lei "una sola carne" e abbandonando per questo "suo padre e sua madre" (cf. Gen 2,24). La descrizione biblica, dunque, parla dell’istituzione, da parte di Dio, del matrimonio contestualmente con la creazione dell’uomo e della donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita alle nuove generazioni degli uomini, alla quale il matrimonio e l’amore coniugale per loro natura sono ordinati: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela" (Gen 1,28).

Persona - comunione - dono

7. Penetrando col pensiero l’insieme della descrizione di Genesi (Gen 2,18-25), ed interpretandola alla luce della verità sull’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), possiamo comprendere ancora più pienamente in che cosa consista il carattere personale dell’essere umano, grazie al quale ambedue - l’uomo e la donna - sono simili a Dio. Ogni singolo uomo, infatti, è ad immagine di Dio in quanto creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo, inoltre, che l’uomo non può esistere "solo" (cf. Gen 2,18); può esistere soltanto come "unità dei due", e dunque in relazione ad un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all’altro "io". Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

All’inizio della Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l’antico testamento è soprattutto la rivelazione della verità circa l’unicità e unità di Dio. In questa fondamentale verità su Dio il nuovo testamento introdurrà la rivelazione dell’imperscrutabile mistero della vita intima di Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità nella Trinità: è unità nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce anche su quella somiglianza ed immagine di Dio nell’uomo, di cui parla il libro della Genesi. Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come "unità dei due" nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano nell’intimo mistero dell’unica vita divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l’unità della divinità, esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf. 1Gv 4,16).

L’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime pertanto anche l’"unità dei due" nella comune umanità. Questa "unità dei due", che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina ("communio"). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell’essere personale di tutti e due, dell’uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito. Sull’immagine e somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal "principio", è radicato il fondamento di tutto l’"ethos" umano: l’antico e il nuovo testamento svilupperanno tale "ethos", il cui vertice è il comandamento dell’amore (Dice S. Gregorio di Nissa: "Dio è inoltre amore e fonte di amore. Dice questo il grande Giovanni: "L’amore è da Dio" e "Dio è amore" . Il Creatore ha impresso in noi anche questo carattere. "Da questo tutti sapranno se siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" . Dunque, se questo non c’è, tutta l’immagine viene sfigurata" ).

Nell’"unità dei due" l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad esistere "uno accanto all’altra" oppure "insieme", ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente "l’uno per l’altro".

Viene così spiegato anche il significato di quell’"aiuto", di cui si parla in Genesi 2,18-25: "Gli darò un aiuto simile a lui". Il contesto biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve "aiutare" l’uomo - e a sua volta questi deve aiutare lei - prima di tutto a causa del loro stesso "essere persona umana": il che, in un certo senso, permette all’uno e all’altra di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità. È facile comprendere che - su questo piano fondamentale - si tratta di un "aiuto" da ambedue le parti e di un "aiuto" reciproco. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2,18-25 indica che il matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però non è l’unica. Tutta la storia dell’uomo sulla terra si realizza nell’ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere "per" l’altro, nella "comunione" interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è "maschile" e di ciò che è "femminile". I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci permettono costantemente di ritrovare il terreno in cui si radica la verità sull’uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti mutamenti dell’esistenza umana.

Questa verità riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel capitolo sulla "comunità degli uomini" della costituzione pastorale "Gaudium et Spes" leggiamo: "Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché "tutti siamo una cosa sola" (Gv 17,21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes". 24).

Con queste parole il testo conciliare presenta sinteticamente l’insieme della verità sull’uomo e sulla donna - verità che si delinea già nei primi capitoli del libro della Genesi - come la stessa struttura portante dell’antropologia biblica e cristiana. L’uomo - sia uomo che donna - è l’unico essere tra le creature del mondo visibile che Dio creatore "ha voluto per se stesso": è dunque una persona. L’essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla del "ritrovarsi"), che non può compiersi se non "mediante un dono sincero di sé". Modello di una tale interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di Persone. Dire che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l’uomo è chiamato ad esistere "per" gli altri, a diventare un dono.

Ciò riguarda ogni essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità propria dell’una e dell’altro. Nell’ambito della presente meditazione circa la dignità e la vocazione della donna, questa verità sull’essere umano costituisce l’indispensabile punto di partenza. Già il libro della Genesi permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale della relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la verità sulla maternità, nonché quella sulla verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla luce della rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più alta espressione all’avvento della "pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4) nella figura della "donna" di Nazaret: Madre-Vergine.

L’antropomorfismo del linguaggio biblico

8. La presentazione dell’uomo come "immagine e somiglianza di Dio" subito all’inizio della Sacra Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto costituisce la chiave per comprendere la rivelazione biblica come un discorso di Dio su se stesso. Parlando di sé sia "per mezzo dei profeti, sia per mezzo del Figlio" (cf. Eb 1,1.2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio umano, usa concetti e immagini umane. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo, la ragione sta nel fatto che l’uomo è "simile" a Dio: creato a sua immagine e somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura "simile" all’uomo, e, proprio in base a questa somiglianza, egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio della Bibbia è sufficientemente preciso per segnare i limiti della "somiglianza" i limiti dell’"analogia". Infatti, la rivelazione biblica afferma che, se è vera la "somiglianza" dell’uomo con Dio, è ancor più essenzialmente vera la "non-somiglianza" (cf. Nm 23,19; Os 11,9; Is 40,18; 46,5; cf. "insuper Conc. Oec. Later. IV": Denz-Schönm, 806), che separa dal Creatore tutta la creazione. In definitiva, per l’uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui "che abita una luce inaccessibile" (1Tm 6,16): è il "diverso" per essenza, il "totalmente altro".

Questa osservazione sui limiti dell’analogia - limiti della somiglianza dell’uomo con Dio nel linguaggio biblico - deve essere tenuta in considerazione anche quando, in diversi passi della Sacra Scrittura (specie nell’antico testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio qualità "maschili" oppure "femminili". Troviamo in essi l’indiretta conferma della verità che ambedue, sia l’uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c’è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia "maschili" sia "femminili".

Riportiamo qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: "Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49,14-15). E altrove: "Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati" (Is 66,13). Anche nei salmi Dio viene paragonato a una madre premurosa: "Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore" (Sal 131,2-3). In diversi passi l’amore di Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una madre, Dio "a portato" l’umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42,14;46,3-4). L’amore di Dio è presentato in molti passi come amore "maschile" dello sposo e padre (cf. Os 11,1-4; Ger 3,4-19), ma talvolta anche come amore "femminile" della madre.

Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica anche indirettamente il mistero dell’eterno "generare", che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo "generare" in sé stesso non possiede qualità "maschili" né "femminili". È di natura totalmente divina. È spirituale nel modo più perfetto, poiché "Dio è spirito" (Gv 4,24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né "femminile" né "maschile". Dunque, anche la "paternità" in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale "maschile", che è propria della paternità umana. In questo senso l’antico testamento parlava di Dio come di un padre e si rivolgeva a lui come ad un padre. Gesù Cristo, che ha posto questa verità al centro stesso del suo Vangelo come normativa della preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio chiamandolo: "Abbà - Padre" (Mc 14,36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino. Parlava come Figlio, legato al Padre dall’eterno mistero del generare divino, e ciò faceva essendo nello stesso tempo Figlio autenticamente umano della sua Madre Vergine.

Se all’eterna generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la paternità divina possiede caratteri "maschili" in senso fisico, si deve invece cercare in Dio il modello assoluto di ogni "generazione" nel mondo degli esseri umani. In un tale senso - sembra - leggiamo nella lettera agli Efesini: "Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome" (Ef 3,14-15). Ogni "generare" nella dimensione delle creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo completamente divino, cioè spirituale. A questo modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni "generare" nel mondo creato. Perciò tutto quanto nel generare umano è proprio dell’uomo, come pure tutto quanto è proprio della donna, ossia la "paternità" e la "maternità" umane, porta in sé la somiglianza, ossia l’analogia col "generare" divino e con quella "paternità" che in Dio è "totalmente diversa": completamente spirituale e divina per essenza. Nell’ordine umano, invece, il generare è proprio dell’"unità dei due": ambedue sono "genitori", sia l’uomo sia la donna.

 

IV. Eva-Maria

Il "principio" e il peccato

9. "Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio" ("Gaudium et Spes", 13). Con queste parole l’insegnamento dell’ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul peccato e, in particolare, su quel primo peccato che è quello "originale". Il biblico "principio" - la creazione del mondo e dell’uomo nel mondo - contiene in sé al tempo spesso la verità su questo peccato, che può essere chiamato anche il peccato del "principio" dell’uomo sulla terra. Anche se ciò che è scritto nel libro della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso della descrizione della creazione dell’uomo come maschio e femmina (cf. Gen 2,18-25), al tempo stesso svela ciò che bisogna chiamare "il mistero del peccato" e, più pienamente ancora, "il mistero del male" esistente nel mondo creato da Dio.

Non è possibile leggere "il mistero del peccato" senza fare riferimento a tutta la verità circa l’"immagine e somiglianza" con Dio, che sta alla base dell’antropologia biblica. Questa verità presenta la creazione dell’uomo come una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale sono contenuti non solo il fondamento e la fonte dell’essenziale dignità dell’essere umano - uomo e donna - nel mondo creato, ma anche l’inizio della chiamata di tutt’e due a partecipare alla vita intima di Dio stesso. Alla luce della rivelazione creazione significa nello stesso tempo inizio della storia della salvezza. Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si configura come contrasto e negazione.

Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (Gen 3) è la conferma della verità circa l’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, se questa verità significa la libertà, cioè la libera volontà, di cui l’uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche abusare scegliendo, contro la volontà di Dio, il male. Nel suo significato essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che Dio è - come creatore - in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso "come Dio, conoscendo il bene e il male" (Gen 3,5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il peccato delle origini ha la sua "misura" umana, il suo metro interiore nella libera volontà dell’uomo ed insieme porta in sé una certa caratteristica "diabolica" ("Diabolicus" e lingua Graeca = "divido, separo, calumnior"), come è messo chiaramente in rilievo nel libro della Genesi (Gen 3,1-5). Il peccato opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio "io", nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna ("communio personarum") e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura.

La descrizione biblica del peccato originale in Genesi (Gen 3) in un certo modo "distribuisce i ruoli" che in esso hanno avuto la donna e l’uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni passi della Bibbia, come, per esempio, la lettera paolina a Timoteo: "Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna" (1Tm 2,13-14). Non c’è dubbio, tuttavia, che, indipendentemente da questa "distribuzione delle parti" nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato dell’uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso è anche il peccato dei "progenitori", al quale è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo chiamiamo "peccato originale".

Tale peccato, come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell’essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo di tale riferimento si può capire anche il mistero dei quella "non-somiglianza" con Dio, nella quale consiste il peccato e che si manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella "non-somiglianza" con Dio, che "solo è buono" (cf. Mt 19,17) ed è la pienezza del bene. Se questa "non-somiglianza" del peccato con Dio, la stessa santità, presuppone la "somiglianza" nel campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per questa ragione la "non somiglianza" contenuta nel peccato è tanto più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna anche ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui toccato, "offeso" e, ovviamente, offeso nel cuore stesso di quella donazione che appartiene all’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo.

Nello stesso tempo, però, anche l’essere umano - uomo e donna - viene toccato dal male del peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi (Gen 3) lo mostra con le parole che descrivono chiaramente la nuova situazione dell’uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della "fatica" con cui l’uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen 3,17-19), nonché quella dei grandi "dolori" con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen 3,16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla necessità della morte, che costituisce il termine della vita umana sulla terra. In questo modo l’uomo, come polvere, "tornerà alla terra, perché da essa è stato tratto": "Polvere tu sei e in polvere tornerai" (cf. Gen 3,19).

Queste parole trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che l’immagine e la somiglianza di Dio nell’essere umano, sia donna che uomo, è stata distrutta dal peccato; significano, invece, che è stata "offuscata" (cf. Origenis "In Gen. hom.", 13, 4: PG 12, 234; S. Gregorii Nysseni "De virg.", 12: S. Ch. 119, 404-419; S. Gregorii Nysseni "De Beat.", VI: PG 44, 1272) e, in un certo senso, "diminuita". Il peccato, infatti, "diminuisce" l’uomo, come ricorda anche il Concilio Vaticano II (cf. "Gaudium et Spes", 13). Se l’uomo, già per la sua stessa natura di persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la sua dignità si realizzano nell’alleanza con Dio, nell’unione con lui, nel tendere a quella fondamentale unità che appartiene alla "logica" interiore del mistero stesso della creazione. Questa unità corrisponde alla profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza e, in particolare, dell’uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è stato sin dall’inizio elevato, mediante l’eterna elezione da parte di Dio in Gesù: "In Cristo... egli ci ha scelti prima della creazione del mondo... nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà" (cf. Ef 1,4-6). L’insegnamento biblico nel suo insieme ci consente di dire che la predestinazione riguarda tutte le persone umane, uomini e donne, ciascuno e ciascuna senza eccezione.

"Egli ti dominerà"

10. La descrizione biblica del libro della Genesi delinea la verità circa le conseguenze del peccato dell’uomo come indica, altresì, il turbamento di quell’originaria relazione tra l’uomo e la donna che corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L’uomo, sia maschio che femmina, è una persona e, dunque "la sola creatura che sulla terra Dio abbia voluto per se stessa"; e nello stesso tempo proprio questa creatura unica e irripetibile "non può ritrovarsi se non mediante un dono sincero di sé" (cf. "Gaudium et Spes", 24). Da qui prende inizio il rapporto di "comunione", nella quale si esprimono l’"unità dei due" e la dignità personale sia dell’uomo che della donna. Quando dunque leggiamo nella descrizione biblica le parole rivolte alla donna: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen 3,16), scopriamo una rottura e una costante minaccia proprio nei riguardi di questa "unità dei due", che corrisponde alla dignità dell’immagine e della somiglianza di Dio in ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all’essere un dono sincero, e perciò al vivere "per" l’altro subentra il dominio: "Egli ti dominerà". Questo "dominio" indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell’"unità dei due" possiedono l’uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l’uguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un’autentica "communio personarum". Se la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio creatore, comporta un elemento a sfavore della donna, nello stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell’uomo. Tocchiamo qui un punto estremamente sensibile nella dimensione di quell’"ethos" che è inscritto originariamente dal Creatore già nel fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza.

Questa affermazione di Genesi (Gen 3,16) è di una grande, significativa portata. Essa implica un riferimento alla reciproca relazione dell’uomo e della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio nato nel clima dell’amore sponsale, che fa si che "il dono sincero di sé" da parte della donna trovi risposta e completamento in un analogo "dono" da parte del marito. Solamente in base a questo principio tutt’e due, e in particolare la donna, possono "ritrovarsi" come vera "unità dei due" secondo la dignità della persona. L’unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento della vera soggettività personale di tutti e due. La donna non può diventare "oggetto" di "dominio" e di "possesso" maschile. Ma le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature conseguenze nell’uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria, essi portano in sé il costante "fomite del peccato", cioè la tendenza a intaccare quell’ordine morale, che corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell’uomo come persona. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (cf. 1Gv 2,16). Le parole della Genesi, riportate precedentemente (Gen 3,16), indicano in che modo questa triplice concupiscenza, quale "fomite del peccato", graverà sul reciproco rapporto dell’uomo e della donna.

Quelle stesse parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente raggiungono i diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la donna rimane svantaggiata o discriminata per il fatto di essere donna. La verità rivelata sulla creazione dell’uomo come maschio e femmina costituisce il principale argomento contro tutte le situazioni, che, essendo oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed esprimono l’eredità del peccato che tutti gli esseri umani portano in sé. I libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l’effettiva esistenza di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal male e di liberarsi dal peccato: da ciò che reca offesa all’altro, che "sminuisce" l’uomo, non solo colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è l’immutabile messaggio della Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime l’"ethos" biblico sino alla fine (È appunto appellandosi alla legge divina che i Padri del IV secolo reagirono fortemente contro la discriminazione ancora in vigore, nei confronti della donna, nel costume e nella legislazione civile del loro tempo. Cfr. S. Gregorii Nazianzeni "Or.", 37, 6: PG 36, 290; S. Hieronymi "Ad Oceanum ep.", 77, 3: PL 22, 691; S. Ambrosii "De instit. virg.", III, 16: PL 16, 309; S. Augustini "Sermo 152", 2: PL 38, 735; "Sermo 392", 4: PL 39, 1711).

Ai nostri tempi la questione dei "diritti della donna" ha acquistato un nuovo significato nel vasto contesto dei diritti della persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato e in vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità sull’"unità" dei "due", cioè su quella dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e originalità personale dell’uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò che esprimono le parole bibliche: "Egli ti dominerà" (Gen 3,16) non può a nessuna condizione condurre alla "mascolinizzazione" delle donne. La donna - nel nome della liberazione dal "dominio" dell’uomo - non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua propria "originalità" femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si "realizzerà", ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l’esclamazione del primo uomo alla vista della donna creata è un’esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra.

Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l’uomo - deve intendere la sua "realizzazione" come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’"immagine e somiglianza di Dio". Solamente su questa via può essere superata anche quell’eredità del peccato che è suggerita dalle parole della Bibbia: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà". Il superamento di questa cattiva eredità è, di generazione in generazione, compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi nei quali l’uomo è responsabile di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna, egli agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione.

Protoevangelo

11. Il libro della Genesi attesta il peccato che è il male del "principio" dell’uomo, le sue conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere umano, ed insieme contiene il primo annuncio della vittoria sul male, sul peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3,15 solitamente dette "Protoevangelo": "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno". È significativo che l’annuncio del redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste parole, riguardi "la donna". Questa è nominata al primo posto nel Protoevangelo come progenitrice di colui che sarà il Redentore dell’uomo (cf.S. Irenaei "Adv. haereses", III, 23, 7: S. Ch. 211, 462-465; V, 21, 1: S. Ch. 153, 260-265; S. Epiphanii "Panar.", III, 2,78: PG 42, 728-729; S. Augustini "Enarr. in Ps. 103s." 4, 6: CCL 40, 1525). E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro il male, per mezzo dell’"inimicizia" tra la stirpe della donna e la stirpe di colui che, come "padre della menzogna" (Gv 8,44), è il primo autore del peccato nella storia dell’uomo, questa sarà anche l’inimicizia tra lui e la donna.

In queste parole si schiude la prospettiva di tutta la rivelazione, prima come preparazione al Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto il nome della donna le due figure femminili: Eva e Maria.

Le parole del Protoevangelo, rilette alla luce del nuovo testamento, esprimono adeguatamente la missione della donna nella lotta salvifica del Redentore contro l’autore del male nella storia dell’uomo.

Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede ricevuta dalla rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi frequentemente dai Padri, dagli scrittori ecclesiastici e dai teologi (cf. S. Iustini "Dial. cum Thryph.", 100: PG 6, 709-712; S. Irenaei "Adv. haereses", III, 22, 4: S. Ch. 211, 438-445; V, 19, 1: S. Ch. 153, 248-251; S. Cyrilli Hierosolymitani "Catech.", 12, 15: PG 33, 741; S. Ioannis Chrysostomi "In Ps. 44,7": PG 55, 193; S. Ioannis Damasceni "Hom. II in dorm. B. V. M.", 3: S. Ch. 80, 130- 135; Esychii Hierosolymitani "Sermo V in Deiparam": PG 93, 1464s.; Tertulliani "De carne Christi", 17: CCL 2, 904s.; S. Hieronymi "Epist. 22", 21: PL 22, 408; S. Augustini "Sermo 51", 2-3: PL 38, 335; "Sermo 232", 2: PL 38, 1108; Card. I. H. Newman "A Letter to the rev. E. B. Pusey", Longman, London 1865; M. I. Scheeben "Handbuch der Katholischen Dogmatik", V, 1 , 243-266; V, 2 Freiburg 1954], 306-499. Cfr. "Lumen Gentium", 56). Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come "madre di tutti i viventi" (Gen 3,20), è testimone del "principio" biblico, in cui sono contenute le verità sulla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo "principio" e della "creatura nuova" (cf. 2Cor 5,17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è "creatura nuova": è la "piena di grazia". È difficile comprendere perché le parole del Protoevangelo mettano così fortemente in risalto la "donna" se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva alleanza di Dio con l’umanità, l’alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con una donna, la "donna", nell’annunciazione a Nazaret. Questa è l’assoluta novità del Vangelo: altre volte nell’antico testamento Dio, per intervenire nella storia del suo popolo, si era rivolto a delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua alleanza con l’umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè. All’inizio della nuova alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c’è la donna: la Vergine di Nazaret. Si tratta di un segno indicativo che "in Gesù Cristo" "non c’è più uomo né donna" (Gal 3,28). In lui la reciproca contrapposizione tra l’uomo e la donna - come retaggio del peccato originale - viene essenzialmente superata. "Tutti voi siete uno in Cristo Gesù", scriverà l’Apostolo (Gal 3,28).

Queste parole trattano di quell’originaria "unità dei due" che è legata alla creazione dell’uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della redenzione dell’uomo in Gesù Cristo, Figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all’eterno disegno di Dio creatore. Proprio per questo, il giorno della creazione dell’uomo come maschio e femmina "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato essenzialmente "sminuito" dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell’uomo.

La "donna" del Protoevangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della "donna", il cui inizio è Eva, "la madre di tutti i viventi" (Gen 3,20): prima di tutto lo assume e lo abbraccia all’interno del mistero di Cristo - "nuovo ed ultimo Adamo" (cf. 1Cor 15,45) -, il quale ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L’essenza della nuova alleanza consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consostanziale all’eterno Padre, diventa uomo: accoglie l’umanità nell’unità della persona divina del Verbo. Colui che opera la redenzione è al tempo stesso un vero uomo. Il mistero della redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l’umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, "escluso il peccato" (Eb 4,15). In questo modo egli ha "svelato anche pienamente l’uomo all’uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione", come insegna il Concilio Vaticano II ("Gaudium et Spes", 22). In un certo senso, lo ha aiutato a riscoprire "chi è l’uomo" (cf. Sal 8,5).

In tutte le generazioni, nella Tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa, l’accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con quello Eva-Maria. Se Maria è descritta anche come "nuova Eva", quali possono essere i significati di questa analogia? Sono certamente molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica "donna": una rivelazione commisurata al mistero della redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il libro della Genesi (Gen 3,16) e riandare verso quel "principio" in cui si ritrova la "donna" così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è "il nuovo principio" della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna (cf. S. Ambrosii "De instit. virg.", V, 33: PL 16, 313).

Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall’evangelista sulle labbra di Maria dopo l’Annuciazione, durante la sua visita a Elisabetta: "Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente" (Lc 1,49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è "Figlio dell’Altissimo" (Lc 1,32), il "santo" di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la scoperta dalla propria umanità femminile. Grandi cose ha fatto in me": questa è la scoperta di tutta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l’eterna originalità della "donna", così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente "mediante un dono sincero di sé".

Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell’elargizione da parte di Dio. Il peccato già al "principio" aveva offuscato questa consapevolezza, in un certo senso l’aveva soffocata, come indicano le parole della prima tentazione ad opera del "padre della menzogna" (cf. Gen 3,1-5). All’avvento della "pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4), mentre comincia a compiersi nella storia dell’umanità il mistero della redenzione, questa consapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica "donna" di Nazaret. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell’umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.

 

V. Gesù Cristo

"Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna"

12. Le parole del Protoevangelo nel libro della Genesi ci permettono di trasferirci nell’ambito del Vangelo. La redenzione dell’uomo, là annunciata, qui diventa realtà nella persona e nella missione di Gesù Cristo, nelle quali riconosciamo anche ciò che la realtà della redenzione significa per la dignità e la vocazione della donna. Questo significato ci viene maggiormente chiarito dalle parole di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente semplice e, proprio per questo, straordinario, se visto sullo sfondo del suo tempo: è un atteggiamento caratterizzato da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della missione di Gesù di Nazaret, e l’incontro con ciascuna di esse è una conferma della "novità di vita" evangelica, di cui già si è parlato.

È universalmente ammesso - persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte al messaggio cristiano - che Cristo si sia fatto davanti ai suoi contemporanei promotore della vera dignità della donna e della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provocava stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: "Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna" (Gv 4,27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. "Si meravigliavano", anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, "pensò tra di sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice"" (Lc 7,39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di "santo sdegno", dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole di Cristo: "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio" (Mt 21,31).

Colui che parlava ed agiva così faceva capire che "i misteri del regno" gli erano noti fino in fondo. Egli anche "sapeva quello che c’è in ogni uomo" (Gv 2,25), nel suo intimo, nel suo "cuore". Era testimone dell’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza, come uomo e donna. Era anche consapevole fino in fondo delle conseguenze del peccato, di quel "mistero d’iniquità" operante nei cuori umani come amaro frutto dell’offuscamento dell’immagine divina. Quanto è significativo il fatto che, nel fondamentale colloquio sul matrimonio e sulla sua indissolubilità, Gesù, davanti ai suoi interlocutori, che erano per ufficio i conoscitori della legge, "gli scribi", faccia riferimento al "principio". La questione posta è quella del diritto "maschile" di "ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo" (Mt 19,3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: "Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via" (Mt 19,7). Gesù risponde: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu cosi" (Mt 19,8). Gesù s’appella al "principio", alla creazione dell’uomo come maschio e femmina e a quell’ordinamento di Dio, che si fonda sul fatto che tutt’e due sono stati creati "a sua immagine e somiglianza". Perciò, quando l’uomo "lascia suo padre e sua madre" unendosi a sua moglie, così che i due diventino "una carne sola", rimane in vigore la legge che proviene da Dio stesso: "Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi" (Mt 19,6).

Il principio di questo "ethos", che sin dall’inizio è stato inscritto nella realtà della creazione, viene ora confermato da Cristo contro quella tradizione, che comportava la discriminazione della donna. In questa tradizione il maschio "dominava", non tenendo adeguatamente conto della donna e di quella dignità, che l’"ethos" della creazione ha posto alla base dei reciproci rapporti delle due persone unite in matrimonio. Questo "ethos" viene ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è l’"ethos" del Vangelo e della redenzione.

Le donne del Vangelo

13. Scorrendo le pagine del Vangelo, passa davanti ai nostri occhi un gran numero di donne, di diversa età e di diverso stato. Incontriamo donne colpite da malattia o da sofferenze fisiche, come la donna che aveva "uno spirito che la teneva inferma, era cura e non poteva drizzarsi in nessun modo" (cf. Lc 13,11), o come la suocera di Simone che era "a letto con la febbre" (Mc 1,30), o come la donna "affetta da emorragia" (cf. Mc 5,25-34), che non poteva toccare nessuno, perché si riteneva che il suo tocco rendesse l’uomo "impuro". Ciascuna di loro fu guarita, e l’ultima, l’emorroissa, che toccò il mantello di Gesù "tra la folla" (Mc 5,27), fu da lui lodata per la grande fede: "La tua fede ti ha salvata" (Mc 5,34). C’è poi la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita, rivolgendosi a lei con tenerezza: "Fanciulla, io ti dico, alzati!" (Mc 5,41). E ancora c’è la vedova di Naim, alla quale Gesù fa tornare in vita l’unico figlio, accompagnando il suo gesto con un’espressione di affettuosa pietà: "Ne ebbe compassione e le disse: "Non piangere"" (Lc 7,13). E infine c’è la Cananea, una donna che merita da parte di Cristo parole di speciale apprezzamento per la sua fede, la sua umiltà e per quella grandezza di spirito, di cui è capace soltanto un cuore di madre: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28). La donna cananea chiedeva la guarigione della figlia.

A volte le donne, che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano, mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi, annunciando il Vangelo del regno di Dio; e "li assistevano con i loro beni". Il Vangelo nomina tra loro Giovanna moglie dell’amministratore di Erode, Susanna e "molte altre" (cf. Lc 8,1-3).

A volte figure di donne compaiono nelle parabole, con le quali Gesù di Nazaret illustrava ai suoi ascoltatori la verità sul regno di Dio. Così è nelle parabole della dramma perduta (cf. Lc 15,8-10), del lievito (cf. Mt 13,33), delle vergini sagge e delle vergini stolte (cf. Mt 25,1-3). Particolarmente eloquente è il racconto dell’obolo della vedova. Mentre i "ricchi... gettavano le loro offerte nel tesoro..., una vedova povera vi gettò due spiccioli". Allora Gesù disse: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti..., nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere" (Lc 21,1-4). In questo modo Gesù la presenta come modello per tutti e la difende, poiché, nel sistema socio-giuridico di allora, le vedove erano esseri totalmente indifesi (cf. Lc 1,1-7).

In tutto l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata "figlia di Abramo" (Lc 1,1- 16): mentre in tutta la Bibbia il titolo di "figlio di Abramo" è riferito solo agli uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me" (Lc 23,28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne, nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara "novità" rispetto al costume allora dominante.

Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l’opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere. Ecco la Samaritana, alla quale lo stesso Gesù dice: "Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito". Ed essa, sentendo che egli conosceva i segreti della sua vita, riconosce in lui il Messia e corre ad annunciarlo ai suoi compaesani. Il dialogo, che precede questo riconoscimento, è uno dei più belli del Vangelo (cf. Gv 4,4-27).

Ecco poi una pubblica peccatrice, che, nonostante la condanna da parte dell’opinione comune, entra nella casa del fariseo per ungere con olio profumato i piedi di Gesù. All’ospite che si scandalizzava di questo fatto egli dirà di lei: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato" (cf. Lc 7,37-47).

Ecco, infine, una situazione che è forse la più eloquente: una donna sorpresa in adulterio è condotta da Gesù. Alla domanda provocatoria: "Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa, tu che ne dici?", Gesù risponde: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". La forza di verità, contenuta in questa risposta, è così grande che "se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani". Rimangono solo Gesù e la donna. "Dove sono? Nessuno ti ha condannata?". "Nessuno, Signore". "Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più (cf. Gv 8,3-11).

Questi episodi costituiscono un quadro d’insieme molto trasparente. Cristo è colui che "sa che cosa c’è nell’uomo" (cf. Gv 2,25), nell’uomo e nella donna. Conosce la dignità dell’uomo, il suo pregio agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo pregio. Tutto ciò che dice e che fa ha definitivo compimento nel mistero pasquale della redenzione. L’atteggiamento di Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio messianico, è il riflesso dell’eterno disegno di Dio, che creando ciascuna di loro, la sceglie e la ama in Cristo (cf. Ef 1,1-5). Ciascuna, perciò, è quella "sola creatura in terra che Dio ha voluto per se stessa". Ciascuna dal "principio" eredita la dignità di persona proprio come donna. Gesù di Nazaret conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa un contenuto del Vangelo e della redenzione, per la quale è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del mistero pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In questo modo tutto si spiega compiutamente.

La donna sorpresa in adulterio

14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall’eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l’altro nel costume che discrimina la donna in favore dell’uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l’episodio della donna "sorpresa in adulterio" (cf. Gv 8,3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: "Non peccare più", ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l’accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia "maschile", dei vostri abusi?

È questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è esposta all’opinione pubblica con "il suo peccato", mentre dietro questo "suo" peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il "peccato altrui", anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all’attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il "peccato altrui"! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell’uomo, come "peccato altrui"), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose "madri nubili" delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell’uomo colpevole, "si liberano" del bambino prima della nascita. "Si liberano": ma a quale prezzo? L’odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di "annullare" il male di questo peccato; normalmente, però, la coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal "principio".

È significativo l’atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni (Gv 8,3-11). Forse in pochi momenti come in questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i farisei (cf. Mt 19,3-9), non è forse in contatto col mistero del "principio", quando l’uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all’uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l’uomo fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l’uno all’altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore, dell’amore sponsale: per diventare "un dono sincero" l’uno per l’altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt’e due - uomo e donna - sin dal "principio". Dopo il peccato originale operano nell’uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, "fomite del peccato". Esse agiscono nell’uomo dal profondo. Per questo Gesù nel discorso della montagna dirà: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28). Queste parole, rivolte direttamente all’uomo, mostrano la verità fondamentale della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché - nell’ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all’eterna "unità dei due", questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene nello stesso tempo "data come compito" all’uomo. Coerentemente Cristo si appella alla responsabilità dell’uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente all’impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua vocazione - come, del resto, quelle dell’uomo - trovano la loro eterna sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell’esistenza umana, sono strettamente connesse con l’"unità dei due". Perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui "oggetto": oggetto di godimento, di sfruttamento.

Custodi del messaggio evangelico

15. Il modo di agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una coerente protesta contro ciò che offende la dignità della donna. Perciò le donne che si trovano vicine a Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli "insegna" e che egli "fa", anche quando questa è la verità sulla loro "peccaminosità". Da questa verità esse si sentono "liberate", restituite a se stesse: si sentono amate di "amore eterno", di un amore che trova diretta espressione in Cristo stesso. Nel raggio d’azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che Gesù parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva con una donna. L’esempio, in un certo senso più significativo al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem. Gesù - il quale sa che è peccatrice, e di questo le parla - discorre con lei dei più profondi misteri di Dio. Le parla del dono infinito dell’amore di Dio, che è come "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4,14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera adorazione, che il Padre ha diritto di ricevere in spirito e verità (cf. Gv 4,24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad Israele (cf. Gv 4,26).

È questo un evento senza precedenti: quella donna, e per di più "donna-peccatrice", diventa "discepola" di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4,39-42). Un evento senza precedenti, se si tiene presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel modo di agire di Gesù di Nazaret un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: "Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro" (cf. Gv 11,5). Maria "ascoltava la parola" di Gesù: quando va a trovarli in casa, egli stesso definisce il comportamento di Maria come "la parte migliore" rispetto alla preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cf. Lc 10,38-42). In un’altra occasione anche Marta - dopo la morte di Lazzaro - diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le più profonde verità della rivelazione e della fede. "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto" - "Tuo fratello risusciterà" - "So che risusciterà nell’ultimo giorno". Le disse Gesù: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?" - "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio, che deve venire al mondo" (Gv 11,21-27). Dopo questa professione di fede Gesù risuscita Lazzaro. Anche il colloquio con Marta è uno dei più importanti del Vangelo.

Cristo parla con le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un’autentica risonanza della mente e del cuore, una risposta di fede. E Gesù per questa risposta spiccatamente "femminile" esprime apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cf. Mt 15,28). A volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata dall’amore: insegna, dunque, prendendo spunto da questa risposta femminile della mente e del cuore. Così avviene nel caso di quella donna "peccatrice" il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto da Gesù come punto di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei peccati: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco" (Lc 7,47). In occasione di un’altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in particolare davanti a Giuda, della donna e della sua azione: "Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una azione buona verso di me... Versando questo olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei" (Mt 26,6-13).

In realtà, i Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo come, al momento della prova definitiva e determinante per tutta la missione messianica di Gesù di Nazaret, ai piedi della croce, si siano trovate, prime fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne, invece, sono molte. Non solo c’erano la Madre di Cristo e la "sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19,25), ma "molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo" (Mt 27,55). Come si vede, in questa che fu la più dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate più forti degli apostoli: in questi momenti di pericolo quelle che "amano molto" riescono a vincere la paura. Prima c’erano state le donne sulla via dolorosa, "che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui" (Lc 23,27). Prima ancora c’era stata la moglie di Pilato, che aveva avvertito il proprio marito: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua" (Mt 27,19).

Prime testimoni della risurrezione

16. Sin dall’inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde a una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: "Non è qui. È risorto, come aveva detto" (Mt 28,6). Sono le prime a stringergli i piedi (Mt 28,9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cf. Mt 28,1-10; Lc 24,8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16,9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. È la prima ad incontrare il Cristo risorto. All’inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce soltanto quando egli la chiama per nome. "Gesù le disse: "Marià". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: "Maestro". Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Gv 20,16-18).

Per questo essa venne anche chiamata "l’ apostola degli apostoli" (Rabani Mauri "De vita beatae Mariae Magdalenae", XXVII: "Salvator... ascensionis suae eam ad apostolos istituit apostolam" . "Facta est Apostolorum apostola, per hoc quod ei committitur ut resurrectione dominicam discipulis annuntiet": In Ioannem Evangelistam expositio, C. XX. L. III, 6 , X, 629).

Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull’affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. Si può dire che in questo modo si sono compiute le parole del profeta: "Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie" (Gl 3,1). Nel cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una volta conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello Spirito Santo, il Paraclito (cf. At 2,17).

Quanto è stato detto finora circa l’atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due, uomo e donna. Si deve parlare di un’essenziale "parità": poiché tutt’e due - la donna come l’uomo - sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, tutt’e due sono suscettibili in eguale misura dell’elargizione della verità divina e dell’amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue "visite" salvifiche e santificanti.

Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell’uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell’Apostolo: "Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell’ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in egual misura al fatto che "diventano profeti i vostri figli" e che lo diventano anche "le vostre figlie". "Profetizzare" significa esprimere con la parola e con la vita "le grandi opere di Dio" (cf. At 2,11), conservando la verità e l’originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L’"eguaglianza" evangelica, la "parità" della donna e dell’uomo nei riguardi delle "grandi opere di Dio", quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazaret, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle "grandi opere di Dio", delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.

 

VI. Maternità-Verginità

Due dimensioni della vocazione della donna

17. Dobbiamo ora rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile. Alla luce del Vangelo, esse acquistano la pienezza del loro senso e valore in Maria, che come vergine divenne Madre del Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono in lei incontrate e congiunte in modo eccezionale, così che l’una non ha escluso l’altra, ma l’ha mirabilmente completata. La descrizione dell’annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò sembrava impossibile alla Vergine di Nazaret. Quando si sente dire: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù", ella subito chiede: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,33-34). Nell’ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca "conoscenza" dell’uomo e della donna nell’unione matrimoniale. Maria, ferma nel proposito della propria verginità, pone la domanda al divino messaggero, e ne ottiene la spiegazione: "Lo Spirito Santo scenderà su di te"; la tua maternità non sarà conseguenza di una "conoscenza" matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito Santo, e la "potenza dell’Altissimo" stenderà la sua "ombra" sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio. Come Figlio dell’Altissimo egli ti viene dato esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha mantenuto il suo verginale "Non conosco uomo" (cf. Lc 1,34) e, al tempo stesso, è diventata Madre. La verginità e la maternità coesistono in lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei limiti. Anzi, la persona della Madre di Dio aiuta tutti - specialmente tutte le donne - a scorgere in quale modo queste due dimensioni e queste due strade della vocazione della donna, come persona, si spieghino e si completino reciprocamente.

Maternità

18. Per prender parte a questo "scorgere", occorre ancora una volta approfondire la verità sulla persona umana, ricordata dal Concilio Vaticano II. L’uomo - sia il maschio che la femmina - è l’unico essere nel mondo che Dio abbia voluto per se stesso: è una persona, è un soggetto che decide di sé. Al tempo stesso, l’uomo "non può trovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes", 24). È stato già detto che questa descrizione, anzi, in un certo senso, questa definizione della persona corrisponde alla fondamentale verità biblica circa la creazione dell’uomo - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Questa non è un’interpretazione puramente teorica, o una definizione astratta, poiché essa indica in modo essenziale il senso dell’essere uomo, mettendo in rilievo il valore del dono di sé, della persona. In questa visione della persona è contenuta anche l’essenza di quell’"ethos" che, collegandosi alla verità della creazione, sarà sviluppato pienamente dai libri della rivelazione e, in particolare, dai Vangeli.

Questa verità sulla persona apre, inoltre, la strada ad una piena comprensione della maternità della donna. La maternità è frutto dell’unione matrimoniale di un uomo e di una donna, di quella "conoscenza" biblica che corrisponde all’"unione dei due nella carne" (cf. Gen 2,24), e in questo modo essa realizza - da parte della donna - uno speciale "dono di sé" come espressione di quell’amore sponsale col quale gli sposi si uniscono tra loro così strettamente da costituire "una sola carne". La "conoscenza" biblica si realizza secondo la verità della persona solo quando il reciproco dono di sé non viene deformato né dal desiderio dell’uomo di diventare "padrone" della sua sposa ("Egli ti dominerà"), né dal chiudersi della donna nei propri istinti ("Verso tuo marito sarà il tuo istinto") (cf. Gen 3,16).

Il reciproco dono della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita, di un nuovo uomo, che è anche persona a somiglianza dei suoi genitori. La maternità implica sin dall’inizio una speciale apertura verso la nuova persona: e proprio questa è la "parte" della donna. In tale apertura, nel concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna "si ritrova mediante un dono sincero di sé". Il dono dell’interiore disponibilità nell’accettare e nel mettere al mondo il figlio è collegato all’unione matrimoniale, che - come è stato detto - dovrebbe costituire un momento particolare del reciproco dono di sé da parte e della donna e dell’uomo. Il concepimento e la nascita del nuovo uomo, secondo la Bibbia, sono accompagnati dalle seguenti parole della donna-genitrice: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (cf. Gen 4,1). L’esclamazione di Eva, "madre di tutti i viventi", si ripete ogni volta che viene al mondo un nuovo uomo ed esprime la gioia e la consapevolezza della donna di partecipare al grande mistero dell’eterno generare. Gli sposi partecipano della potenza creatrice di Dio!

La maternità della donna, nel periodo tra il concepimento e la nascita del bambino, è un processo bio-fisiologico e psichico che ai nostri giorni è conosciuto meglio che non in passato ed è oggetto di molti studi approfonditi. L’analisi scientifica conferma pienamente come la stessa costituzione fisica della donna e il suo organismo contengano in sé la disposizione naturale alla maternità, al concepimento, alla gravidanza e al parto del bambino, in conseguenza dell’unione matrimoniale con l’uomo. Al tempo stesso, tutto ciò corrisponde anche alla struttura psicofisica della donna. Quanto i diversi rami della scienza dicono su questo argomento è importante ed utile, purché non si limitino ad un’interpretazione esclusivamente bio-fisiologica della donna e della maternità. Una simile immagine "ridotta" andrebbe di pari passo con la concezione materialistica dell’uomo e del mondo. In tal caso, andrebbe purtroppo smarrito ciò che è veramente essenziale: la maternità, come fatto e fenomeno umano, si spiega pienamente in base alla verità sulla persona. La maternità è legata con la struttura personale dell’essere donna e con la dimensione personale del dono: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gen 4,1). Il Creatore fa ai genitori il dono del figlio. Da parte della donna, questo fatto è collegato in modo speciale ad "un dono sincero di sé". Le parole di Maria all’annunciazione: "Avvenga di me quello che hai detto" significano la disponibilità della donna al dono di sé e all’accoglienza della nuova vita.

Nella maternità della donna, unita alla paternità dell’uomo, si riflette l’eterno mistero del generare che è in Dio stesso, in Dio uno e trino (cf. Ef 3,14-15). L’umano generare è comune all’uomo e alla donna. E, se la donna, guidata dall’amore verso il marito, dirà: "Ti ho dato un figlio", le sue parole nello stesso tempo significano: "Questo è nostro figlio". Eppure, anche se tutti e due insieme sono genitori del loro bambino, la maternità della donna costituisce una "parte" speciale di questo commune essere genitori, nonché la parte più impegnativa. L’essere genitori - anche se appartiene ad ambedue - si realizza molto più nella donna, specialmente nel periodo prenatale. È la donna a "pagare" direttamente per questo comune generare, che letteralmente assorbe le energie del suo corpo e della sua anima. Bisogna, pertanto, che l’uomo sia pienamente consapevole di contrarre, in questo loro comune essere genitori, uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di "parità di diritti" delle donne e degli uomini è valido, se non ti tiene presente questo in un modo del tutto essenziale.

La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione "comprende" quello che sta avvenendo dentro di lei. Alla luce del "principio" la madre accetta ed ama il figlio che porta in grembo come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo - non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere -, tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo - sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore - si trova sempre "all’esterno" del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria "paternità". Questo - si può dire - fa parte del normale dinamismo umano dell’essere genitori, anche quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo. L’educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una nuova personalità umana.

La maternità in relazione all’alleanza

19. Ritorna nelle nostre riflessioni il paradigma biblico della "donna", assunto dal Protoevangelo. La "donna", come genitrice e come prima educatrice dell’uomo (l’educazione è la dimensione spirituale dell’essere genitori), possiede una specifica precedenza sull’uomo. Se la sua maternità (innanzitutto in senso biofisico) dipende dall’uomo, essa imprime un "segno" essenziale su tutto il processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana. La maternità della donna in senso biofisico manifesta un’apparente passività: il processo della formazione di una nuova vita "avviene" in lei, nel suo organismo, tuttavia avviene coinvolgendolo in profondità. Nello stesso tempo, la maternità in senso personale-etico esprime una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura principale l’umanità stessa del nuovo essere umano. Anche in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed una speciale sfida, che si rivolgono all’uomo e alla sua paternità.

Il paradigma biblico della "donna" culmina nella maternità della Madre di Dio. Le parole del Protoevangelo: "Porrò inimicizia tra te e la donna" trovano qui una nuova conferma. Ecco che Dio in lei, nel suo "fiat" materno ("Avvenga di me"), dà inizio ad una nuova alleanza con l’umanità. È questa l’alleanza eterna e definitiva in Cristo, nel suo corpo e sangue, nella sua croce e risurrezione. Proprio perché questa alleanza deve compiersi "nella came e nel sangue" il suo inizio è nella genitrice. Il "Figlio dell’Altissimo" solamente grazie a lei e al suo verginale e materno "fiat" può dire al Padre: "Un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare, o Dio la tua volontà" (Eb 10,5.7).

Nell’ordine dell’alleanza, che Dio ha stretto con l’uomo in Gesù Cristo, è stata introdotta la maternità della donna. E ogni volta, tutte le volte che la maternità della donna si ripete nella storia umana sulla terra, rimane ormai sempre in relazione all’alleanza che Dio ha stabilito col genere umano mediante la maternità della Madre di Dio.

Questa realtà non è forse dimostrata dalla risposta che Gesù dà al grido di quella donna in mezzo alla folla, che lo benediceva per la maternità della sua Genitrice: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte"? Gesù rispose: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano" (Lc 11,27-28). Gesù conferma il senso della maternità in riferimento al corpo; nello stesso tempo, però, ne indica un senso ancor più profondo, che si collega all’ordine dello spirito: essa è segno dell’alleanza con Dio che "è spirito" (Gv 4,24). Tale è soprattutto la maternità della Madre di Dio. Anche la maternità di ogni donna, intesa alla luce del Vangelo, non è solo "della carne e del sangue": in essa si esprime il profondo "ascolto della Parola del Dio vivo" e la disponibilità a "custodire" questa Parola, che è "parola di vita eterna" (cf. Gv 6,68). Sono, infatti, proprio i nati dalle madri terrene, i figli e le figlie del genere umano, a ricevere dal Figlio di Dio il potere di diventare "figli di Dio" (Gv 1,12). La dimensione della nuova alleanza nel sangue di Cristo penetra l’umano generare rendendolo realtà e compito di "creature nuove" (2Cor 5,17). La maternità della donna, dal punto di vista della storia di ogni uomo, è la prima soglia, il cui superamento condiziona anche "la rivelazione dei figli di Dio" (cf. Rm 8,19).

"La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" (Gv 16,21). L parole di Cristo si riferiscono, nella loro prima parte, a quei "dolori del parto" che appartengono al retaggio del peccato originale; nello stesso tempo, però, indicano il legame che la maternità della donna ha col mistero pasquale. In questo mistero, infatti, è contenuto anche il dolore della Madre sotto la croce - della Madre che mediante la fede partecipa allo sconvolgente mistero della "spogliazione" del proprio Figlio. "È questa forse la più profonda "kénosi" della fede nella storia dell’umanità" ("Redemptoris Mater", 18).

Contemplando questa Madre, alla quale "una spada ha trafitto il cuore" (Lc 2,35), il pensiero si volge a tutte le donne sofferenti nel mondo, sofferenti in senso sia fisico che morale. In questa sofferenza ha una parte la sensibilità propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla sofferenza più dell’uomo. È difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle tutte per nome: si possono ricordare la premura materna per i figli, specialmente quando sono ammalati o prendono una cattiva strada, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere e delle donne che hanno subito un torto o vengono sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle coscienze a causa del peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche con queste sofferenze bisogna porsi sotto la croce di Cristo.

Ma le parole del Vangelo sulla donna che prova afflizione, quando per lei giunge l’ora di dare alla luce il figlio, esprimono subito dopo la gioia: e "la gioia che è venuto al mondo un uomo". Ed anch’essa è riferita al mistero pasquale, ossia a quella gioia che viene comunicata agli apostoli il giorno della risurrezione di Cristo: "Così anche voi, ora, siete nella tristezza" (queste parole furono pronunciate il giorno prima della passione); "ma vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16,22-23).

La verginità per il regno

20. Nell’insegnamento di Cristo la maternità è collegata alla verginità, ma è anche distinta da essa. Al riguardo, rimane fondamentale la frase detta da Gesù ed inserita nel colloquio sull’indissolubilità del matrimonio. Sentita la risposta data ai farisei, i discepoli dicono a Cristo: "Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Mt 19,10). Indipendentemente dal senso che quel "non conviene" aveva allora nella mente dei discepoli, Cristo prende lo spunto dalla loro errata opinione per istruirli sul valore del celibato: egli distingue il celibato per effetto di deficienze naturali, anche se causate dall’uomo, dal "celibato per il regno dei cieli". Cristo dice: "E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt 19,12). Si tratta, dunque, di un celibato libero, scelto a motivo del regno dei cieli, in considerazione della vocazione escatologica dell’uomo all’unione con Dio. Egli poi aggiunge: "Chi può capire, capisca", e queste parole sono una ripresa di ciò che aveva detto all’inizio del discorso sul celibato (cf. Mt 19,11). Pertanto il celibato per il regno dei cieli è il frutto non solo di una libera scelta da parte dell’uomo, ma anche di una speciale grazia da parte di Dio, che chiama una determinata persona a vivere il celibato. Se questo è un segno speciale del regno di Dio che deve venire, nello stesso tempo serve a dedicare in modo esclusivo tutte le energie dell’anima e del corpo, durante la vita temporale, per il regno escatologico.

Le parole di Gesù sono la risposta alla domanda dei discepoli. Esse sono rivolte direttamente a coloro che ponevano la domanda: in questo caso erano uomini. Nondimeno, la risposta di Cristo, in se stessa, ha valore sia per gli uomini che per le donne. In questo contesto essa indica l’ideale evangelico della verginità, ideale che costituisce una chiara "novità" in rapporto alla tradizione dell’antico testamento. Questa tradizione certamente si collegava in qualche modo anche con l’attesa di Israele, e specialmente della donna di Israele, per la venuta del Messia, che doveva essere della "stirpe della donna". In effetti l’ideale del celibato e della verginità per una maggiore vicinanza a Dio non era del tutto alieno in certi ambienti giudaici, soprattutto nei tempi immediatamente precedenti alla venuta di Gesù. Tuttavia il celibato per il regno, ossia la verginità, è una novità innegabile connessa con l’incarnazione di Dio.

Dal momento della venuta di Cristo l’attesa del Popolo di Dio deve volgersi verso il regno escatologico che viene e nel quale egli stesso deve introdurre "il nuovo Israele". Per una simile svolta e cambiamento di valori, infatti, è indispensabile una nuova consapevolezza della fede. Ciò Cristo sottolinea due volte: "Chi può capire, capisca". Ciò comprendono solo "coloro ai quali e stato concesso" (cf. Mt 19,11). Maria è la prima persona nella quale si è manifestata questa nuova consapevolezza, poiché chiede all’angelo: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,34). Anche se è "promessa sposa di un uomo, chiamato Giuseppe" (Lc 1,27), ella è ferma nel proposito della verginità, e la maternità che in lei si compie proviene esclusivamente dalla "potenza dell’Altissimo", è frutto della discesa dello Spirito Santo su di lei (cf. Lc 1,35). Questa maternità divina, dunque, è la risposta del tutto imprevedibile all’attesa umana della donna in Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso.

Questo dono è divenuto l’inizio e il prototipo di una nuova attesa di tutti gli uomini a misura dell’eterna alleanza, a misura della nuova e definitiva promessa di Dio: segno della speranza escatologica.

Sulla base del Vangelo si è sviluppato e approfondito il senso della verginità come vocazione anche per la donna, in cui trova conferma la sua dignità a somiglianza della Vergine di Nazaret. Il Vangelo propone l’ideale della consacrazione della persona, che significa la sua dedizione esclusiva a Dio in virtù dei consigli evangelici, in particolare quelli della castità, povertà ed obbedienza. La loro perfetta incarnazione è Gesù Cristo stesso. Chi desidera seguirlo in modo radicale sceglie di condurre la vita secondo questi consigli. Essi si distinguono dai comandamenti ed indicano al cristiano la via della radicalità evangelica. Sin dagli inizi del cristianesimo su questa via s’incamminano uomini e donne, dal momento che l’ideale evangelico viene rivolto all’essere umano senza alcuna differenza di sesso.

In questo più ampio contesto occorre considerare la verginità anche come una via per la donna, una via sulla quale, in un modo diverso dal matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna. Per comprendere questa via bisogna ancora una volta ricorrere all’idea fondamentale dell’antropologia cristiana. Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il Creatore sin dall’inizio ha voluto per se stesso (cf. "Gaudium et Spes", 24), e contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando "un dono sincero" per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo redentore dell’uomo e sposo delle anime: un dono "sponsale". Non si può comprendere rettamente la verginità, la consacrazione della donna nella verginità, senza far ricorso all’amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che la persona diventa un dono per l’altro (cf. "Allocutiones diebus Mercurii habitae", 7 et 21 apr. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1126-1131 et 1175-1179). Del resto analogamente, è da intendere la consacrazione dell’uomo nel celibato sacerdotale oppure nello stato religioso.

La naturale disposizione sponsale della personalità femminile trova una risposta nella verginità così intesa. La donna, chiamata fin dal "principio" ad essere amata e ad amare, trova nella vocazione alla verginità, anzitutto, il Cristo come il redentore che "amò sino alla fine" per mezzo del dono totale di sé, ed essa risponde a questo dono con un "dono sincero" di tutta la sua vita. Ella si dona, dunque, allo sposo divino, e questa sua donazione personale tende all’unione, che ha un carattere propriamente spirituale: mediante l’azione dello Spirito Santo diventa "un solo spirito" con Cristo-sposo (1Cor 6,17).

È questo l’ideale evangelico della verginità, in cui si realizzano in una forma speciale sia la dignità che la vocazione della donna. Nella verginità così intesa si esprime il cosiddetto radicalismo del Vangelo: lasciare tutto e seguire Cristo (cf. Mt 19,27). Ciò non può esser paragonato al semplice rimanere nubili o celibi, perché la verginità non si restringe al solo "no", ma contiene un profondo "si" nell’ordine sponsale: il donarsi per amore in modo totale ed indiviso.

La maternità secondo lo spirito

21. La verginità nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche comportare un grande sacrificio per il cuore della donna, apre all’esperienza di una maternità di diverso senso: la maternità "secondo lo spirito" (cf. Rm 8,4). La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: "Ogni volte che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l’avete fatto a me" (Mt 25,40). L’amore sponsale comporta sempre una singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano nel raggio della sua azione. Nel matrimonio questa disponibilità, pur essendo aperta a tutti, consiste in particolare nell’amore che i genitori donano ai figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini, abbracciati dall’amore di Cristo sposo. In rapporto a Cristo, che è il redentore di tutti e di ciascuno, l’amore sponsale, il cui potenziale materno si nasconde nel cuore della donna-sposa verginale, è anche disposto ad aprirsi a tutti e a ciascuno. Ciò trova una conferma nelle comunità religiose di vita apostolica, ed una diversa conferma in quelle di vita contemplativa o di clausura. Esistono inoltre altre forme di vocazione alla verginità per il regno, come, per esempio, gli istituti secolari oppure le comunità di consacrati che fioriscono all’interno di movimenti, gruppi e associazioni: in tutte queste realtà la stessa verità sulla maternità spirituale delle persone che vivono nella verginità trova una multiforme conferma. Comunque, non si tratta solamente di forme comunitarie, ma anche di forme extra-comunitarie. In definitiva la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione.

Su questa base si verifica anche uno specifico avvicinamento tra la verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata. Un tale avvicinamento muove non solo dalla maternità verso la verginità, come è stato messo in rilievo sopra, essa muove anche dalla verginità verso il matrimonio, inteso come forma di vocazione della donna in cui questa diventa madre dei figli nati dal suo grembo. Il punto di partenza di questa seconda analogia è il significato delle nozze. La donna, infatti, è "sposata" sia mediante il sacramento del Matrimonio, sia spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell’uno e nell’altro caso le nozze indicano il "dono sincero della persona" della sposa verso lo sposo. In questo modo - si può dire - il profilo del matrimonio si ritrova spiritualmente nella verginità. E se si tratta della maternità fisica, non deve forse anch’essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla verità globale sull’uomo che è un’unità di corpo e di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due diverse vie - due diverse vocazioni di vita della donna - una profonda complementarietà e, addirittura, una profonda unione all’interno dell’essere della persona.

"Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore"

22. Il Vangelo rivela e permette di capire proprio questo modo di essere della persona umana. Il Vangelo aiuta ciascuna donna e ciascun uomo a viverlo e così a realizzarsi. Esiste, infatti, una totale uguaglianza rispetto ai doni dello Spirito Santo, rispetto alle "grandi opere di Dio" (At 2,11). Non solo questo. Proprio di fronte alle "grandi opere di Dio" l’Apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore" (Gal 4,19). Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 7,38) l’Apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina costante della Chiesa nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel Vangelo di Matteo (Mt 19,10-12), senza affatto offuscare l’importanza della maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione della Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità.

Troviamo un riflesso della stessa analogia - e della stessa verità - nella costituzione dogmatica sulla Chiesa. Maria è la "figura" della Chiesa (cf. "Lumen Gentium", 63; S. Ambrosii "In Luc.", II, 7: S. Ch. 45, 74; "De instit. virg.", XIV, 87-89: PL 16, 326-327; S. Cyrilli Alexandrini "Hom.", 4: PG 77, 996; S. Isidori Hispalensis "Allegoriae", 139: PL 83, 117). "Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine..., Maria è andata innanzi, presentandosi in modo eminente e singolare, quale vergine e quale madre... Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (Rm 8,29), cioè tra i fedeli, alla cui rigenerazione e formazione essa coopera con amore di madre" ("Lumen Gentium", 63). "Orbene, la Chiesa, la quale contempla l’arcana santità di lei e ne imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà, diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio" ("Lumen Gentium", 64). Si tratta qui della maternità "secondo lo spirito" nei riguardi dei figli e delle figlie del genere umano. E una tale maternità - come si è detto - diventa la "parte" della donna anche nella verginità. La Chiesa "pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo Sposo" ("Lumen Gentium", 64). Ciò trova in Maria il più perfetto compimento. La Chiesa, dunque, "ad imitazione della Madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità" ("Lumen Gentium", 64. Sul rapporto Maria-Chiesa, che ininterrottamente ricorre nella riflessione dei Padri della Chiesa e di tutta la Tradizione cristiana, cf. "Redemptoris Mater", 42-44 et notae 117-127. Cfr. insuper Clementis Alexandrini "Paed." 1, 6: S. Ch. 70, 186s.; S. Ambrosii "In Luc." II, 7: S. Ch. 45, 74; S. Augustini "Sermo 192", 2: PL 38, 1012; "Sermo 195", 2: PL 38, 1018; "Sermo 25", 5: PL 54, 211; "Sermo 26", 2: PL 54, 213; Bedae Venerabilis "In Luc." I, 2: PL 92, 330. "Ambedue madri- scrive Isacco della Stella, discepolo di S. Bernardo -, ambedue vergini, ambedue concepiscono per opera dello Spirito Santo... Maria... ha generato al corpo il suo capo; la Chiesa... dona a questo capo il suo corpo. L’una e l’altra sono madri del Cristo: ma nessuna delle due lo genera tutto intero senza l’altra. Perciò giustamente... quel che è detto in generale della vergine madre Chiesa s’intende singolarmente della vergine madre Maria; e quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice di una delle due può essere inteso indifferentemente dell’una e dell’altra". ).

Il Concilio ha confermato che, se non si ricorre alla Madre di Dio, non è possibile comprendere il mistero della Chiesa, la sua realtà, la sua essenziale vitalità. Indirettamente troviamo qui il riferimento al paradigma biblico della "donna", quale si delinea chiaramente già nella descrizione del "principio" (cf. Gen 3,15) e lungo il percorso che va dalla creazione, attraverso il peccato, fino alla redenzione. In questo modo si conferma la profonda unione tra ciò che è umano e ciò che costituisce l’economia divina della salvezza nella storia dell’uomo. La Bibbia ci convince del fatto che non si può avere un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è "umano", senza un adeguato ricorso a ciò che è "femminile". Analogamente avviene nell’economia salvifica di Dio: se vogliamo comprenderla pienamente in rapporto a tutta la storia dell’uomo, non possiamo tralasciare, nell’ottica della nostra fede, il mistero della "donna": vergine-madre-sposa.

 

VII. La Chiesa-sposa di Cristo

Il "grande mistero"

23. Un’importanza fondamentale hanno al riguardo le parole della lettera agli Efesini: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, infatti, ha preso mai in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo, l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna, e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!" (Ef 5,25-32).

In questa lettera l’autore esprime la verità sulla Chiesa come sposa di Cristo, indicando altresì come questa verità si radica nella realtà biblica della creazione dell’uomo maschio e femmina. Creati a immagine e somiglianza di Dio come "unità dei due", entrambi sono stati chiamati ad un amore di carattere sponsale. Si può anche dire che, seguendo la descrizione della creazione nel libro della Genesi (Gen 2,18-24), questa chiamata fondamentale si manifesta insieme con la creazione della donna e viene iscritta dal Creatore nell’istituzione del matrimonio, che, secondo Genesi (Gen 2,24), sin dall’inizio possiede il carattere di unione delle persone ("communio personarum"). Anche se non direttamente la stessa descrizione del "principio" (cf. Gen 1,27 e Gen 2,24) indica che tutto l’"ethos" dei reciproci rapporti tra l’uomo e la donna deve corrispondere alla verità personale del loro essere.

Tutto questo è già stato considerato precedentemente. Il testo della lettera agli Efesini conferma ancora una volta la suddetta verità, e nello stesso tempo paragona il carattere sponsale dell’amore tra l’uomo e la donna al mistero di Cristo e della Chiesa. Cristo è lo sposo della Chiesa, la Chiesa è la sposa di Cristo. Questa analogia non è senza precedenti: essa trasferisce nel nuovo testamento ciò che già era contenuto nell’antico testamento, in particolare, presso i profeti Osea, Geremia, Ezechiele, Isaia (cf. ex.gr, "Os 1,2; 2,16-18; Ger 2,2; Ez 16,8; Is 50,1;54,5-8"). I rispettivi passi meritano una analisi a parte. Riportiamo almeno un testo. Ecco come Dio parla al suo popolo eletto per mezzo del profeta: "Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. Poiché tuo sposo è il tuo Creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra ... Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore... Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace" (Is 54,4-8.10).

Se l’essere umano - uomo o donna - è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, Dio può parlare di sé per bocca del profeta servendosi del linguaggio che è per essenza umano: nel citato testo di Isaia, "umana" è l’espressione dell’amore di Dio, ma l’amore stesso è divino. Essendo amore di Dio, esso ha un carattere sponsale propriamente divino, anche se espresso con l’analogia dell’amore dell’uomo verso la donna. Questa donna-sposa è Israele, in quanto popolo eletto da Dio, e questa elezione ha la sua fonte esclusivamente nell’amore gratuito di Dio. Proprio con questo amore si spiega l’alleanza, presentata spesso come l’alleanza matrimoniale, che Dio sempre nuovamente stringe col suo popolo eletto. Essa è da parte di Dio "un impegno" duraturo: egli rimane fedele al suo amore sponsale, anche se la sposa più volte si è dimostrata infedele.

Questa immagine dell’amore sponsale insieme alla figura dello sposo divino - un’immagine molto chiara nei testi profetici - trova conferma e coronamento nella lettera agli Efesini (Ef 5,23-32). Cristo è salutato come sposo da Giovanni Battista (cf. Gv 3,27-29): anzi, Cristo stesso applica a sé questo paragone attinto dai profeti (cf. Mc 2,19-20). L’apostolo Paolo, che porta in sé tutto il patrimonio dell’antico testamento, scrive ai Corinzi: "Io, provo, infatti, per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Cor 11,2). L’espressione più piena, però, della verità sull’amore di Cristo redentore, secondo l’analogia dell’amore sponsale del matrimonio, si trova nella lettera agli Efesini: "Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25), ed in ciò riceve piena conferma il fatto che la Chiesa è la sposa di Cristo: "Tuo redentore è il Santo d’Israele" (Is 54,5). Nel testo paolino l’analogia della relazione sponsale va contemporaneamente in due direzioni, che compongono l’insieme del "grande mistero" ("sacramentum magnum"). L’alleanza propria degli sposi "spiega" il carattere sponsale dell’unione di Cristo con la Chiesa; ed a sua volta questa unione, come "grande sacramento", decide della sacramentalità del matrimonio quale alleanza santa dei due sposi, uomo e donna. Leggendo questo passo, ricco e complesso, che è nell’insieme una grande analogia, dobbiamo distinguere ciò che in esso esprime la realtà umana dei rapporti interpersonali da ciò che esprime con linguaggio simbolico il "grande mistero" divino.

La "novità" evangelica

24. Il testo è rivolto agli sposi come a donne e uomini concreti e ricorda loro l’"ethos" dell’amore sponsale che risale all’istituzione divina del matrimonio sin dal "principio". Alla verità di questa istituzione risponde l’esortazione "Voi, mariti, amate le vostre mogli", amatele a motivo di quello speciale e unico legame mediante il quale l’uomo e la donna diventano nel matrimonio "una carne sola" (Gen 2,24; Ef 5,31). Si ha in questo amore una fondamentale affermazione della donna come persona, un’affermazione grazie alla quale la personalità femminile può pienamente svilupparsi ed arricchirsi. Proprio così agisce Cristo come sposo della Chiesa, desiderando che essa sia "gloriosa, senza macchia né ruga" (Ef 5,27). Si può dire che i qui sia pienamente assunto quanto costituisce lo "stile" di Cristo nel trattare la donna. Il marito dovrebbe far propri gli elementi di questo stile nei riguardi della moglie: e, analogamente, dovrebbe fare l’uomo nei riguardi della donna, in ogni situazione. Così tutt’e due, uomo e donna, attuano il "dono sincero di sé"!

L’autore della lettera agli Efesini non vede alcuna contraddizione tra un’esortazione così formulata e la costatazione che "le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; il marito, infatti, è capo della moglie" (Ef 5,22-23). L’autore sa che questa impostazione, tanto profondamente radicata nel costume e nella tradizione religiosa del tempo, deve essere intesa e attuata in un modo nuovo: come una "sottomissione reciproca nel timore di Cristo" (Ef 5,21); tanto più che il marito è detto "capo" della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare "se stesso per lei" (Ef 5,25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita. Ma, mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la "sottomissione" non è unilaterale, bensì reciproca!

In rapporto all’"antico" questo è evidentemente "nuovo": è la novità evangelica. Incontriamo diversi passi in cui gli scritti apostolici esprimono questa novità, sebbene in essi si faccia pure sentire ciò che è "antico", ciò che è radicato anche nella tradizione religiosa di Israele, nel suo modo di comprendere e di spiegare i sacri testi, come, ad esempio, quello di Genesi (Gen 2; cf. Col 3,18; 1Ts 3,1-6; Tt 2,4-5; Ef 5,22-24; 1Cor 11,3-16; 14,33-35; 1Tm 2,11-15).

Le lettere apostoliche sono indirizzate a persone che vivono in un ambiente che ha lo stesso modo di pensare e di agire. La "novità" di Cristo è un fatto: essa costituisce l’inequivocabile contenuto del messaggio evangelico ed è frutto della redenzione. Nello stesso tempo, però, la consapevolezza che nel matrimonio c’è la reciproca "sottomissione dei coniugi nel timore di Cristo", e non soltanto quella della moglie al marito, deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze, nel comportamento, nei costumi. È questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere sempre di nuovo. L’Apostolo scrisse non solo: "In Gesù Cristo... non c’è più uomo né donna", ma anche: "Non c’è più schiavo né libero". E tuttavia, quante generazioni ci sono volute perché un tale principio si realizzasse nella storia dell’umanità con l’abolizione dell’istituto della schiavitù! E che cosa dire delle tante forme di schiavitù, alle quali sono soggetti uomini e popoli, non ancora scomparse dalla scena della storia?

La sfida, però, dell’"ethos" della redenzione è chiara e definitiva. Tutte le ragioni in favore della "sottomissione" della donna all’uomo nel matrimonio debbono essere interpretate nel senso di una "reciproca sottomissione" di ambedue "nel timore di Cristo". La misura del vero amore sponsale trova la sua sorgente più profonda in Cristo, che è lo sposo della Chiesa, sua sposa.

La dimensione simbolica del "grande mistero"

25. Nel testo della lettera agli Efesini incontriamo una seconda dimensione dell’analogia che, nel suo insieme, deve servire alla rivelazione del "grande mistero". È questa una dimensione simbolica. Se l’amore di Dio verso l’uomo, verso il popolo eletto, Israele, viene presentato dai profeti come l’amore dello sposo per la sposa, una tale analogia esprime la qualità "sponsale" e il carattere divino e non umano dell’amore di Dio: "Tuo sposo è il tuo Creatore..., è chiamato Dio di tutta la terra" (Is 54,5). Lo stesso si dica anche dell’amore sponsale di Cristo redentore: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Si tratta, dunque, dell’amore di Dio espresso mediante la redenzione, operata da Cristo. Secondo la lettera paolina questo amore è "simile" all’amore sponsale dei coniugi umani, ma naturalmente non è "eguale". L’analogia, infatti, implica insieme una somiglianza, lasciando un margine adeguato di non-somiglianza.

È facile rilevarlo, se consideriamo la figura della "sposa". Secondo la lettera agli Efesini la sposa è la Chiesa, così come per i profeti la sposa era Israele: dunque, è un soggetto collettivo, e non una persona singola. Questo soggetto collettivo è il Popolo di Dio, ossia una comunità composta da molte persone, sia donne che uomini. "Cristo ha amato la Chiesa" proprio come comunità, come Popolo di Dio e, nello stesso tempo, in questa Chiesa, che nel medesimo passo è chiamata anche suo "corpo" (cf. Ef 5,23), egli ha amato ogni singola persona. Infatti, Cristo ha redento tutti senza eccezione, ogni uomo e ogni donna. Nella redenzione si esprime proprio questo amore di Dio e giunge a compimento nella storia dell’uomo e del mondo il carattere sponsale di tale amore.

Cristo è entrato in questa storia e vi rimane come lo sposo che "ha dato se stesso". "Dare" vuol dire "diventare un dono sincero" nel modo più completo e radicale: "Nessuno ha un amore più grande di questo" (Gv 15,13). In tale concezione, per mezzo della Chiesa, tutti gli esseri umani - sia donne che uomini - sono chiamati ad essere la "sposa" di Cristo, redentore del mondo. In questo modo "essere sposa", e dunque il "femminile", diventa simbolo di tutto l’"umano", secondo le parole di Paolo: "Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).

Dal punto di vista linguistico si può dire che l’analogia dell’amore sponsale secondo la lettera agli Efesini riporta ciò che è "maschile" a ciò che è "femminile", dato che, come membri della Chiesa, anche gli uomini sono compresi nel concetto di "sposa". E ciò non può meravigliare, poiché l’Apostolo, per esprimere la sua missione in Cristo e nella Chiesa, parla dei "figlioli che partorisce nel dolore" (cf. Gal 4,19). Nell’ambito di ciò che è "umano", di ciò che è umanamente personale, la "mascolinità" e la "femminilità" si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda. Ciò è presente anche nella grande analogia della "sposa" nella lettera agli Efesini. Nella Chiesa ogni essere umano - maschio e femmina - è la "sposa", in quanto accoglie in dono l’amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondere col dono della propria persona.

Cristo è lo sposo. Si esprime in questo la verità sull’amore di Dio che "ha amato per primo" (cf. 1Gv 4,19) e che col dono generato da questo amore sponsale per l’uomo ha superato tutte le attese umane: "Amò sino alla fine" (Gv 13,1). Lo sposo - il Figlio consostanziale al Padre in quanto Dio - è divenuto Figlio di Maria, "Figlio dell’uomo", vero uomo, maschio. Il simbolo dello sposo è di genere maschile. In questo simbolo maschile è raffigurato il carattere umano dell’amore in cui Dio ha espresso il suo amore divino per Israele, per la Chiesa, per tutti gli uomini. Meditando quanto i Vangeli dicono circa l’atteggiamento di Cristo verso le donne, possiamo concludere che come uomo, figlio di Israele, rivelò la dignità delle "figlie di Abramo" (cf. Lc 13,16), la dignità posseduta dalla donna sin dal "principio" al pari dell’uomo. E nello stesso tempo Cristo mise in rilievo tutta l’originalità che distingue la donna dall’uomo, tutta la ricchezza ad essa elargita nel mistero della creazione. Nell’atteggiamento di Cristo verso la donna si trova realizzato in modo esemplare ciò che il testo della lettera agli Efesini esprime col concetto di "sposo". Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di sposo, esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi.

L’Eucaristia

26. Sull’ampio sfondo del "grande mistero", che si esprime nel rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, è possibile anche comprendere in modo adeguato il fatto della chiamata dei "dodici". Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo. Pertanto, l’ipotesi che egli abbia chiamato come apostoli degli uomini, seguendo la mentalità diffusa ai suoi tempi, non corrisponde affatto al modo di agire di Cristo. "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità..., perché non guardi in faccia ad alcuno" (Mt 22,16). Queste parole caratterizzano pienamente il comportamento di Gesù di Nazaret. In questo si trova anche una spiegazione per la chiamata dei "dodici". Essi sono con Cristo durante l’ultima cena; essi soli ricevono il mandato sacramentale: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19; 1Cor 11,24), collegato all’istituzione dell’Eucaristia. Essi, la sera del giorno della risurrezione, ricevono lo Spirito Santo per perdonare i peccati: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20,23).

Ci troviamo al centro stesso del mistero pasquale, che rivela fino in fondo l’amore sponsale di Dio. Cristo è lo sposo perché "ha dato se stesso": il suo corpo è stato "dato", il suo sangue è stato "versato" (cf. Lc 22,19-20). In questo modo "amò sino alla fine" (Gv 13,1). Il "dono sincero", contenuto nel sacrificio della croce, fa risaltare in modo definitivo il senso sponsale dell’amore di Dio. Cristo è lo sposo della Chiesa, come Rl

edentore del mondo. L’Eucaristia è il sacramento della nostra redenzione. È il sacramento dello sposo, della sposa. L’Eucaristia rende presente e in modo sacramentale realizza di nuovo l’atto redentore di Cristo, che "crea" la Chiesa suo corpo. Con questo "corpo" Cristo è unito come lo sposo con la sposa. Tutto questo è contenuto nella lettera agli Efesini. Nel "grande mistero" di Cristo e della Chiesa viene introdotta la perenne "unità dei due", costituita sin dal "principio" tra uomo e donna.

Se Cristo, istituendo l’Eucaristia, l’ha collegata in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli apostoli, è lecito pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna, tra ciò che è "femminile" e ciò che è "maschile", voluta da Dio, sia nel mistero della creazione che in quello della redenzione. Prima di tutto nell’Eucaristia si esprime in modo sacramentale l’atto redentore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. Ciò diventa trasparente ed univoco, quando il servizio sacramentale dell’Eucaristia, in cui il sacerdote agisce "in persona Christi", viene compiuto dall’uomo. È una spiegazione che conferma l’insegnamento della dichiarazione "Inter Insigniores", pubblicata per incarico di Paolo VI per rispondere all’interrogativo circa la questione dell’ammissione delle donne al servizio ministeriale (cf. S. Congr. pro Doctrina Fidei "Declaratio Inter Insigniores" circa quaestionem admissionis mulierum ad sacerdotium ministeriale, die 15 oct. 1976: AAS 69 [1977] 98-116).

Il dono della sposa

27. Il Concilio Vaticano II ha rinnovato nella Chiesa la coscienza dell’universalità del sacerdozio. Nella nuova alleanza c’è un solo sacrificio e un solo sacerdote: Cristo. Di questo unico sacerdozio partecipano tutti i battezzati, sia uomini che donne, in quanto devono "offrire se stessi come vittima viva, santa, a Dio gradita" (cf. Rm 12,1), dare in ogni luogo testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendere ragione della loro speranza della vita eterna (cf. 1Pt 3,15. cf. "Lumen Gentium", 10). La partecipazione universale al sacrificio di Cristo, in cui il Redentore ha offerto al Padre il mondo intero, e, in particolare, l’umanità, fa sì che tutti nella Chiesa siano "un regno di sacerdoti" (Ap 5,10; cf. 1Pt 2,9), partecipino cioè non solo alla missione sacerdotale, ma anche a quella profetica e regale di Cristo Messia. Questa partecipazione determina, inoltre, l’unione organica della Chiesa, come Popolo di Dio, con Cristo. In essa si esprime nel contempo il "grande mistero" della lettera agli Efesini: la sposa unita al suo sposo; unita, perché vive la sua vita; unita, perché partecipa della sua triplice missione ("tria munera Christi"); unita in una maniera tale da rispondere con un "dono sincero" di sé all’ineffabile dono dell’amore dello sposo, redentore del mondo. Ciò riguarda tutti nella Chiesa, le donne come gli uomini, e riguarda ovviamente anche coloro che sono partecipi del "sacerdozio ministeriale" (cf. 1Pt 2,10), che possiede il carattere di servizio. Nell’ambito del "grande mistero" di Cristo e della Chiesa tutti sono chiamati a rispondere - come una sposa - col dono della loro vita all’ineffabile dono dell’amore di Cristo, che solo, come redentore del mondo, è lo sposo della Chiesa. Nel "sacerdozio regale", che è universale, si esprime contemporaneamente il dono della sposa.

Ciò è di fondamentale importanza per comprendere la Chiesa nella sua propria essenza, evitando di trasferire alla Chiesa - anche nel suo essere un’"istituzione" composta di essen umani ed inserita nella storia - criteri di comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura. Anche se la Chiesa possiede una struttura "gerarchica" (cf. 1Pt 2,18-19), tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo. La santità poi si misura secondo il "grande mistero", in cui la sposa risponde col dono dell’amore al dono dello sposo, e questo fa "nello Spirito Santo", poiché "l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,5). Il Concilio Vaticano II, confermando l’insegnamento di tutta la Tradizione, ha ricordato che nella gerarchia della santità proprio la "donna", Maria di Nazaret, è "figura" della Chiesa. Ella "precede" tutti sulla via verso la santità; nella sua persona "la Chiesa ha già raggiunto la perfezione, con la quale esiste immacolata e senza macchia (cf. Ef 5,27. cf. "Lumen Gentium", 65; cf. quoque "Lumen Gentium", 63; cf. "Redemptoris Mater", 2-6). In questo senso si può dire che la Chiesa è insieme "mariana" ed "apostolico-petrina" ("Questo profilo mariano è altrettanto - se non lo è di più - fondamentale e caratterizzante per la Chiesa quanto il profilo apostolico e petrino, al quale è profondamente unito... La dimensione mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare. Maria, l’Immacolata, precede ogni altro, e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli: non solo perché Pietro e gli apostoli, provenendo dalla massa del genere umano che nasce sotto il peccato, fanno parte della Chiesa "sancta ex peccatoribus", ma anche perché il loro triplice "munus" non mira ad altro che a formare la Chiesa in quell’ideale di santità, che già è preformato e prefigurato in Maria. Come bene ha detto un teologo contemporaneo, "Maria è Regina degli apostoli, senza pretendere per sé i poteri apostolici. Essa ha altro e di più" ". "Allocutio ad Patres Cardinales Romanaeque Curiae Praelatos", 3, die 22 dec. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 3 [1987] 1484).

Nella storia della Chiesa sin dai primi tempi c’erano - accanto agli uomini - numerose donne, per le quali la risposta della sposa all’amore redentore dello sposo assumeva piena forza espressiva. Come prime vediamo quelle donne, che personalmente avevano incontrato Cristo, l’avevano seguito e, dopo la sua dipartita, insieme con gli apostoli "erano assidue nella preghiera" nel cenacolo di Gerusalemme sino al giorno di Pentecoste. In quel giorno lo Spirito Santo parlò per mezzo di "figli e figlie" del Popolo di Dio, compiendo l’annuncio del profeta Gioele (cf. At 2,17). Quelle donne, ed in seguito altre ancora, ebbero parte attiva ed importante nella vita della Chiesa primitiva, nell’edificare sin dalle fondamenta la prima comunità cristiana - e le comunità successive - mediante i propri carismi e il loro multiforme servizio. Gli scritti apostolici annotano i loro nomi, come Febe, "diaconessa di Cencre" (Rm 16,1), Prisca col marito Aquila (cf. 2Tm 4,19), Evodia e Sintiche (cf. Fil 4,2), Maria, Trifena, Perside, Trifosa (cf. Rm 16,6.12). L’Apostolo parla delle loro "fatiche" per Cristo, e queste indicano i vari campi del servizio apostolico della Chiesa, iniziando dalla "Chiesa domestica". In essa, infatti, la "fede schietta" passa dalla madre nei figli e nei nipoti, come appunto si verificò nella casa di Timoteo (cf. 2Tm 1,5).

Lo stesso si ripete nel corso dei secoli, di generazione in generazione, come dimostra la storia della Chiesa. La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per coloro che - fedeli al Vangelo - in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto il Popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno trasmesso la fede e la Tradizione della Chiesa.

In ogni epoca e in ogni paese troviamo numerose donne "perfette" (Pr 31,10), che - nonostante persecuzioni, difficoltà e discriminazioni - hanno partecipato alla missione della Chiesa. Basta menzionare qui Monica, la madre di Agostino, Macrina, Olga di Kiev, Matilde di Toscana, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di Svezia, Giovanna d’Arco, Rosa di Lima, Elisabeth Seton e Mary Ward.

La testimonianza e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le donne sante hanno agito in "modo libero", fortificate dalla loro unione con Cristo. Una simile unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio, la grande opera di santa Caterina da Siena nella vita della Chiesa e di santa Teresa di Gesù in quella monastica.

Anche ai nostri giorni la Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne che realizzano la loro vocazione alla santità. Le donne sante sono una incarnazione dell’ideale femminile, ma sono anche un modello per tutti i cristiani, un modello di "sequela Christi", un esempio di come la sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello sposo.

 

VIII. Più grande è la carità

Di fronte ai mutamenti

28. "La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché possa rispondere alla suprema sua vocazione" ("Gaudium et Spes", 10). Possiamo riferire queste parole della costituzione "Gaudium et Spes" al tema delle presenti riflessioni. Il particolare richiamo alla dignità della donna ed alla sua vocazione, proprio dei tempi in cui viviamo, può e deve essere accolto nella "luce e forza" che lo Spirito elargisce all’uomo: anche all’uomo della nostra epoca ricca di molteplici trasformazioni. La Chiesa "crede... di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine" dell’uomo, nonché "di tutta la storia umana" e "afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" ("Gaudium et Spes", 10).

Con queste parole la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ci indica la strada da seguire nell’assumere i compiti relativi alla dignità della donna e alla sua vocazione, sullo sfondo dei mutamenti significativi per i nostri tempi. Possiamo affrontare tali mutamenti in modo corretto e adeguato solo se riandiamo ai fondamenti che si trovano in Cristo, a quelle verità e a quei valori "immutabili", di cui egli stesso rimane "testimone fedele" (cf. Ap 1,5) e maestro. Un diverso modo di agire condurrebbe a risultati dubbi, se non addirittura erronei e ingannevoli.

La dignità della donna e l’ordine dell’amore

29. Il passo già riportato dalla lettera agli Efesini (Ef 5,21-33), in cui il rapporto tra Cristo e la Chiesa viene presentato come legame tra lo sposo e la sposa, fa riferimento anche alla istituzione del matrimonio secondo le parole del libro della Genesi (cf. Gen 2,24). Esso unisce la verità sul matrimonio come primordiale sacramento con la creazione dell’uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,27;5,1). Grazie al significativo confronto contenuto nella lettera agli Efesini acquista piena chiarezza ciò che decide della dignità della donna sia agli occhi di Dio, creatore e redentore, sia agli occhi dell’uomo: dell’uomo e della donna. Sul fondamento del disegno eterno di Dio, la donna è colei in cui l’ordine dell’amore nel mondo creato delle persone trova un terreno per la sua prima radice. L’ordine dell’amore appartiene alla vita intima di Dio stesso, alla vita trinitaria. Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale ipostasi dell’amore. Mediante lo Spirito, dono increato, l’amore diventa un dono per le persone create. L’amore, che è da Dio, si comunica alle creature: "L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci viene dato" (Rm 5,5).

La chiamata all’esistenza della donna accanto all’uomo ("un aiuto che gli sia simile") (Gen 2,18): nell’"unità dei due" offre nel mondo visibile delle creature condizioni particolari affinché "l’amore di Dio venga riversato nei cuori" degli esseri creati a sua immagine. Se l’autore della lettera gli Efesini chiama Cristo sposo e la Chiesa sposa, egli conferma indirettamente, con tale analogia, la verità sulla donna come sposa. Lo sposo è colui che ama. La sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta.

Il passo della Genesi - riletto alla luce del simbolo sponsale della lettera agli Efesini - ci permette di intuire una verità che sembra decidere in modo essenziale la questione della dignità della donna e, in seguito, anche quella della sua vocazione: la dignità della donna viene misurata dall’ordine dell’amore, che è essenzialmente ordine di giustizia e di carità (cf. S. Augustini "De Trinitate", L. VIII, VII, 10 - X, 14: CCL 50, 284-291).

Solo la persona può amare e solo la persona può essere amata. Questa è un’affermazione, anzitutto, di natura ontologica, dalla quale emerge poi un’affermazione di natura etica. L’amore è un’esigenza ontologica ed etica della persona. La persona deve essere amata, poiché solo l’amore corrisponde a quello che è la persona. Così si spiega il comandamento dell’amore conosciuto già nell’antico testamento (cf. Dt 6,5; Lv 19,18) e posto da Cristo al centro stesso dell’"ethos" evangelico (cf. Mt 22,36-40; Mc 12,28-34). Così si spiega anche quel primato dell’ amore espresso dalle parole di Paolo nella lettera ai Corinzi: "più grande è la carità" (cf. 1Cor 13,13).

Se non si ricorre a quest’ordine e a questo primato, non si può dare una risposta completa e adeguata all’interrogativo sulla dignità della donna e sulla sua vocazione. Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile.

Il passo della lettera agli Efesini che consideriamo ci permette di pensare ad una specie di "profetismo" particolare della donna nella sua femminilità. L’analogia dello sposo e della sposa parla dell’amore con cui ogni uomo è amato da Dio in Cristo, ogni uomo e ogni donna. Tuttavia, nel contesto dell’analogia biblica e in base alla logica interiore del testo, è proprio la donna colei che manifesta a tutti questa verità: la sposa. Questa caratteristica "profetica" della donna nella sua femminilità trova la più alta espressione nella Vergine Madre di Dio. Nei suoi riguardi viene messo in rilievo, nel modo più pieno e diretto, l’intimo congiungersi dell’ordine dell’amore - che entra nell’ambito del mondo delle persone umane attraverso una donna - con lo Spirito Santo. Maria ode all’annunciazione: "Lo Spirito Santo scenderà su di te" (Lc 1,35).

Consapevolezza di una missione

30. La dignità della donna si collega intimamente con l’amore che ella riceve a motivo stesso della sua femminilità ed altresì con l’amore che a sua volta dona. Viene così confermata la verità sulla persona e sull’amore. Circa la verità della persona, si deve ancora una volta ricorrere al Concilio Vaticano II: "L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes", 24). Questo riguarda ogni uomo, come persona creata ad immagine di Dio, sia uomo che donna. L’affermazione di natura ontologica qui contenuta indica anche la dimensione etica della vocazione della persona. La donna non può ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri.

Sin dal "principio" la donna - come l’uomo - è stata creata e "posta" da Dio proprio in questo ordine dell’amore. Il peccato delle origini non ha annullato questo ordine, non lo ha cancellato in modo irreversibile. Lo provano le parole bibliche del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Nelle presenti riflessioni abbiamo osservato il posto singolare della "donna" in questo testo chiave della rivelazione. Occorre, inoltre, rilevare come la stessa donna, che giunge ad essere "paradigma" biblico, si trovi anche nella prospettiva escatologica del mondo e dell’uomo espressa dall’Apocalisse (cf. Ad opera Sancti Ambrosii appendix "In Apoc.", IV, 3-4: PL 17, 876; Ps. Augustini "De symb. ad catech.", "sermo IV": PL 40, 661.). È "una donna vestita di sole", con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sopra il capo (cf. Ap 12,1). Si può dire: una "donna" a misura del cosmo, a misura di tutta l’opera della creazione. Nello stesso tempo essa soffre "le doglie e il travaglio del parto" (Ap 12,2), come Eva "madre di tutti i viventi" (Gen 3,20). Soffre anche perché "davanti alla donna che sta per partorire" (cf. Ap 12,4), si pone "il grande drago, il serpente antico" (Ap 12,9), conosciuto già dal Protoevangelo: il Maligno, "padre della menzogna" e del peccato (cf. Gv 8,44). Ecco: il "serpente antico" vuole divorare "il bambino". Se vediamo in questo testo il riflesso del Vangelo dell’infanzia (cf. Lc 2,13.16), possiamo pensare che, nel paradigma biblico della "donna", viene inscritta, dall’inizio sino al termine della storia, la lotta contro il male e il Maligno. Questa è anche la lotta per l’uomo, per il suo vero bene, per la sua salvezza. La Bibbia non vuole dirci che proprio nella "donna", Eva-Maria, la storia registra una drammatica lotta per ogni uomo, la lotta per il suo fondamentale "sì_ o "no" a Dio e al suo eterno disegno sull’uomo?

Se la dignità della donna testimonia l’amore, che essa riceve per amare a sua volta, il paradigma biblico della "donna" sembra anche svelare quale sia il vero ordine dell’amore che costituisce la vocazione della donna stessa. Si tratta qui della vocazione nel suo significato fondamentale, si può dire universale, che poi si concretizza e si esprime nelle molteplici "vocazioni" della donna nella Chiesa e nel mondo.

La forza morale della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano. Naturalmente, Dio affida ogni uomo a tutti e a ciascuno. Tuttavia, questo affidamento riguarda in modo speciale la donna - proprio a motivo della sua femminilità - ed esso decide in particolare della sua vocazione.

Attingendo a questa consapevolezza e a questo affidamento, la forza morale della donna si esprime in numerosissime figure femminili dell’antico testamento, dei tempi di Cristo, delle epoche successive fino ai nostri giorni.

La donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio "le affida l’uomo", sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende "forte" e consolida la sua vocazione. In questo modo, la "donna perfetta" (cf. Pr 31,10) diventa un insostituibile sostegno e una fonte di forza spirituale per gli altri, che percepiscono le grandi energie del suo spirito. A queste "donne perfette" devono molto le loro famiglie e talvolta intere nazioni.

Nella nostra epoca i successi della scienza e della tecnica permettono di raggiungere in grado finora sconosciuto un benessere materiale che, mentre favorisce alcuni, conduce altri all’emarginazione. In tal modo, questo progresso unilaterale può comportare anche una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo senso, soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel "genio" della donna che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché "più grande è la carità" (1Cor 13,13).

Pertanto, un’attenta lettura del paradigma biblico della "donna" - dal libro della Genesi sino all’Apocalisse - conferma in che consistono la dignità e la vocazione della donna e ciò che in esse è immutabile e non perde attualità, avendo il suo "ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" ("Gaudium et Spes", 10). Se l’uomo è affidato in modo speciale da Dio alla donna, questo non significa forse che da lei Cristo si attende il compiersi di quel "sacerdozio regale" (1Pt 2,9), che è la ricchezza da lui data agli uomini? Questa stessa eredità Cristo, sommo ed unico sacerdote della nuova ed eterna alleanza e sposo della Chiesa, non cessa di sottomettere al Padre mediante lo Spirito Santo, affinché Dio sia "tutto in tutti" (1Cor 15,28; cf. "Lumen Gentium", 36).

Allora avrà compimento definitivo la verità che "più grande è la carità" (1Cor 13,13).

 

IX. Conclusione

"Se tu conoscessi il dono di Dio"

31. "Se tu conoscessi il dono di Dio" (Gv 4,10), dice Gesù alla Samaritana durante uno di quei mirabili colloqui che mostrano quanta stima egli abbia per la dignità di ogni donna e per la vocazione che le consente di partecipare alla sua missione di Messia.

Le presenti riflessioni, ormai concluse, sono orientate a riconoscere all’interno del "dono di Dio" ciò che egli, creatore e redentore, affida alla donna, ad ogni donna. Nello spirito di Cristo, infatti, essa può scoprire l’intero significato della sua femminilità e disporsi in tal modo al "dono sincero di sé" agli altri, e così "ritrovare" se stessa.

Nell’anno mariano la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il "mistero della donna", e per ogni donna; per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femminile, per le "grandi opere di Dio" che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per mezzo di lei. In definitiva, non si è operato in lei e per mezzo di lei ciò che c’è di più grande nella storia dell’uomo sulla terra: l’evento che Dio stesso si è fatto uomo?

La Chiesa, dunque, rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti essere umani, che attendono l’amore gratuito di un’altra persona; per le donne che vegliano sull’essere umano nella famiglia, che è il fondamentale segno della comunità umana; per le donne che lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le donne "perfette" e per le donne "deboli", per tutte: così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono pellegrine su questa terra, che è, nel tempo, la "patria" degli uomini e si trasforma talvolta in una "valle di pianto"; così come assumono, insieme con l’uomo, una comune responsabilità per le sorti dell’umanità, secondo le quotidiane necessità e secondo quei destini definitivi che l’umana famiglia ha in Dio stesso, nel seno dell’ineffabile Trinità.

La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del "genio" femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità femminile.

La Chiesa chiede, nello stesso tempo, che queste inestimabili "manifestazioni dello Spirito" (cf. 1Cor 12,4s) che con grande generosità sono elargite alle "figlie" della Gerusalemme eterna, siano attentamente riconosciute, valorizzate, perché tornino a comune vantaggio della Chiesa e dell’umanità, specialmente ai nostri tempi. Meditando il mistero biblico della "donna", la Chiesa prega affinché tutte le donne ritrovino in questo mistero se stesse e la loro "suprema vocazione".

Maria, che "precede tutta la Chiesa sulla via della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo" (cf. "Lumen Gentium", 63), ottenga a tutti noi anche questo "frutto", nell’anno che abbiamo dedicato a lei, alle soglie del terzo millennio della venuta di Cristo.

Con questi voti imparto a tutti i fedeli e in special modo alle donne, sorelle in Cristo, la benedizione apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 del mese di agosto - solennità dell’Assunzione di Maria santissima - dell’anno 1988, decimo di Pontificato.


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