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Giovanni XXIII
Aeterna Dei sapientia


Nel XV centenario della morte di San Leone I Magno.

L'eterna Sapienza di Dio che "si estende, con potenza, da un capo all'altro del mondo, e con bontà governa l'universo intero" (Sap. VIII, 1), sembra avere impresso con singolare splendore la sua immagine nello spirito di S. Leone 1, Sommo Pontefice. Questi, infatti, "grandissimo tra i grandi" (Cfr. Discorsi e radiomessaggi, XIV, pag. 358), come giustamente lo chiamò il Nostro Predecessore Pio XII, di v. m., apparve dotato in misura straordinaria di intrepida fortezza e di paterna bontà. Per questo motivo Noi, chiamati dalla Divina Provvidenza a sedere sulla Cattedra di Pietro, che S. Leone Magno tanto illustrò con la saggezza di governo, con la ricchezza di dottrina, con la sua magnanimità e con la sua inesauribile carità, sentiamo il dovere, Venerabili Fratelli, nella circostanza del quindicesimo centenario del suo beato transito, di rievocarne le virtù e i meriti immortali, certi, come siamo, che ciò contribuirà notevolmente al comune vantaggio delle anime e all'esaltazione della religione cattolica. La grandezza, infatti, di questo Pontefice non va legata principalmente al gesto di intrepido coraggio, con il quale egli, inerme, rivestito solo della maestà di Sommo Sacerdote, affrontò nel 452 il feroce Attila, re degli Unni, sulle sponde del Mincio, e lo persuase a ritirarsi oltre il Danubio. Questo fu indubbiamente un gesto nobilissimo, quanto mai degno della missione pacificatrice del Pontificato Romano; ma in realtà non rappresenta che un episodio e un indizio di una vita spesa tutta in terra per il bene religioso e sociale non soltanto di Roma e dell'Italia, ma della Chiesa universale.

Alla vita e all'operosità di S. Leone ben si possono applicare lo parole della Sacra Scrittura: "La via dei giusti è corse la luce del l'alba, che va crescendo fino a giorno perfetto" (Prov. IV, 18), so che si considerino i tre aspetti distintivi e caratteristici della sua personalità: il fedele servitore della Sede Apostolica, il Vicario d Cristo in terra, il dottore della Chiesa universale.

"Leone, toscano di nascita, figlio di Quinziano", come ci informa il Liber Pontificalis, nacque verso la fine del secolo IV. Ma essendo egli vissuto a Roma fin dalla prima giovinezza, giustamente poté chiamare Roma sua patria (Ep. 31, 4; Migne, PL, LIV, 794), dove ancor giovane fu ascritto al clero romano, giungendo fino al grado di diacono. Nel periodo che va dal 430 al 439 esercitò un influsso considerevole negli affari ecclesiastici, prestando i suoi servigi al Pontefice Sisto 111. Ebbe rapporti di amicizia con San Prospero di Aquitania e con Cassiano, fondatore della celebre Abbazia di Sar Vittore in Marsiglia; da questi, che aveva esortato a scrivere l'opera De incarnatione Domini (Migne, PL, LIX, 9-272) contro i Nestoriani, Leone ricevette l'elogio veramente singolare per un semplice diacono: "Onore della Chiesa e del sacro ministero" (De Incarn. Domini, contra Nestorium libr. VII, prol. PL, L, 9). Mentre egli si trovava in Gallia, inviatovi dal Pontefice dietro suggerimento della corte di Ravenna, al fine di comporre il conflitto tra il patrizio Ezio e il prefetto Albino, venne a morte Sisto III. Fu allora che la Chiesa di Roma pensò non potersi affidare il potere di Vicario di Cristo ad uomo migliore che al diacono Leone, rivelatosi altrettanto sicuro teologo, che fine diplomatico. Ricevette pertanto la consacrazione episcopale il 29 settembre del 440, ed il suo Pontificato fu uno dei più lunghi della antichità cristiana, ed indubbiamente uno dei più gloriosi. Egli morì nel novembre del 461, e fu sepolto nel portico della Basilica di San Pietro. Il Papa San Sergio I fece trasferire nell'anno 688 le spoglie del santo Pontefice "nella rocca di Pietro"; dopo la costruzione della nuova basilica, esse furono collocate sotto l'altare che è a lui dedicato.

Ed ora, volendo semplicemente indicare il carattere saliente della sua vita, non possiamo fare a meno di proclamare che ben raramente il trionfo della Chiesa di Cristo sui suoi spirituali nemici è stato tanto glorioso come durante il pontificato di S. Leone Magno. Questi in verità, nel corso del secolo V, brilla nel cielo della cristianità come un astro splendente. Né tale affermazione può essere in alcun modo smentita, specialmente se si considera il campo dottrinale della fede cattolica; in esso, infatti, il suo nome va senz'altro congiunto con quello di Sant'Agostino di Ippona e di San Cirillo di Alessandria. Effettivamente, se Sant'Agostino, come tutti sanno, rivendicò, contro l'eresia pelagiana, l'assoluta necessità della grazia per vivere onestamente e conseguire la salvezza eterna, se San Cirillo Alessandrino, contro le errate affermazioni di Nestorio, difese la divinità di Gesù Cristo e la divina maternità di Maria Vergine, S. Leone da parte sua, erede della dottrina dei due insigni luminari della Chiesa di Occidente e di Oriente, domina su tutti i suoi contemporanei nella chiara affermazione di queste fondamentali verità della fede cattolica. E come Sant'Agostino è acclamato nella Chiesa quale dottore della grazia e S. Cirillo quale dottore dell'Incarnazione, cosi S. Leone è celebrato su tutti come il dottore dell'unità della Chiesa.

Basta, infatti, dare un rapido sguardo alla prodigiosa attività di pastore e di scrittore svolta da san Leone nel lungo periodo del suo Pontificato, per trarne la convinzione che egli fu l'assertore e il difensore dell'unità della Chiesa sia nel campo dottrinale come in quello disciplinare. Se poi si passa al campo liturgico, è facile avvertire che il piissimo Pontefice promosse l'unità del culto, componendo o almeno ispirando alcune delle più elevate preghiere, che sono contenute nel cosiddetto Sacramentario Leoniano (Migne, PL, LV, 21-156).

Egli ancora intervenne con prontezza ed autorità nella controversia sull'unità o duplicità di natura di Gesù Cristo, ottenendo il trionfo della vera dottrina relativa all'Incarnazione del Verbo di Dio: fatto, questo, che immortalò il suo nome nel ricordo dei posteri. Va ricordata a tal riguardo la famosa Lettera a Flaviano, vescovo di Costantinopoli, nella quale S. Leone, con mirabile chiarezza e proprietà, espone la dottrina sul mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio, in conformità con l'insegnamento dei profeti, del Vangelo, degli scritti apostolici e del Simbolo della fede (lbid. LIV, 757). Dalla quale lettera sembra opportuno rilevare le seguenti espressioni veramente scultoree: "Rimanendo dunque integre le proprietà dell'una e dell'altra natura, confluenti nell'unica persona, fu assunta dalla maestà divina la pochezza umana, dalla potenza la debolezza, dall'eternità la mortalità; e allo scopo di soddisfare al debito della nostra condizione, la natura inviolabile si unì ad una natura passibile, in maniera tale che, come appunto conveniva alla nostra salvezza, l'unico e insostituibile mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo, potesse, si, morire secondo una natura, ma non secondo l'altra. Pertanto, il Verbo, pur assumendo la natura integra e perfetta di vero uomo, nacque vero Dio, completo nelle sue divine proprietà, completo altresì nelle nostre" (lbid. col. 759).

Né si limitò a questo. Alla lettera a Flaviano, infatti, nella quale aveva più diffusamente esposto "quanto la Chiesa cattolica universalmente credeva e insegnava intorno al mistero dell'incarnazione del Signore" (Ep. 29, ad Theodosium august.; PL, LIV, 783), S. Leone fece seguire la condanna del Concilio di Efeso del 449. In esso, ricorrendo alla illegalità e alla violenza, si era cercato di far trionfare la errata dottrina di Eutiche, il quale "molto sconsiderato e troppo ignorante" (Ep. 28; PL, LIV, 756), si ostinava a non voler riconoscere che una sola natura, cioè la divina, in Gesù Cristo. A buon diritto il Papa denominò tale concilio "latrocinio" (Ep. 95, 2, ad Pulcheriam august.; PL, LIV, 9-43), poiché, contravvenendo alle chiare disposizioni della Sede Apostolica, si era osato con ogni mezzo di "intaccare la fede cattolica" (Ibid.) e di rafforzare "l'eresia del tutto opposta alla religione cristiana" (lbid.).

Il nome di S. Leone è legato soprattutto al celebre Concilio di Calcedonia del 451, la cui convocazione, per quanto sollecitata dall'imperatore Marciano, fu accettata dal Pontefice soltanto alla condizione che esso fosse presieduto dai suoi inviati (Ep. 89, 2, ad Marcianum imper.; PL, LIF, 931. Ep. 103, ad Episcopos Galliarum; PL, LIV, 988-991). Questo Concilio, venerabili Fratelli, costituisce una delle pagine più gloriose nella storia della Chiesa Cattolica. Ma Noi non riteniamo necessario di farne qui rievocazione particolareggiata; giacché a questa grandiosa assise, nel corso della quale trionfarono con uguale splendore la vera fede nelle due nature del Verbo Incarnato e il Primato di magistero del Romano Pontefice, il nostro Predecessore Pio XII ha dedicato una delle sue più celebri Encicliche, nel quindicesimo centenario del memorabile avvenimento (Enc. "Sempiternus Rex").

Non meno evidente apparve la sollecitudine di S. Leone per l'unità e la pace della Chiesa, allorché egli indugiò a dare la sua approvazione agli atti del Concilio. Questo indugio in realtà non va ascritto né a negligenza né ad una qualche ragione di carattere dottrinale, ma - come poi dichiarò egli stesso - con ciò egli intese opporsi al canone 28, nel quale i Padri conciliari, nonostante la protesta dei Legati pontifici e nell'evidente desiderio di procurarsi la benevolenza di Bisanzio, avevano riconosciuto alla Sede di Costantinopoli il primato su tutte le Chiese d'Oriente. Questa disposizione appariva a S. Leone un aperto affronto ai privilegi di altre Chiese più antiche e più illustri, riconosciuti anche dai Padri del Concilio di Nicea; ed inoltre costituiva un pregiudizio per il prestigio della stessa Sede Apostolica. Questo pericolo, più che nelle parole del canone 28, era stato acutamente intravisto da S. Leone nello spirito che lo aveva dettato, come risulta chiaramente da due lettere, una delle quali fu a lui diretta dai Vescovi del Concilio (Cfr. C. Kirch, Enchir. fontium hist. ecel. antiquae, Freiburg in Bz., IV ed. 1923, n. 943), e l'altra da lui diretta all'imperatore. In quest'ultima, respingendo le argomentazioni dei Padri conciliari, così ammonisce: "Altro è l'ordinamento delle cose del mondo, altro quello delle cose di Dio; non si avrà alcuna stabile struttura, al di fuori di quella pietra che il Signore ha collocato come fondamento (Matth. XVI, 18). Pregiudica i propri diritti, chi brama quanto non gli spetta" (Ep. 114, 3, ad Marcianum imper.; PL, LIV, 995. Ep. 106, ad Anatolium episc. Constant.; PL, LIV, 995). La dolorosa storia dello scisma, che separò in seguito dalla Sede Apostolica tante illustri Chiese dell'Oriente cristiano, sta a dimostrare chiaramente - come si desume dal passo citato - la fondatezza dei timori di S. Leone a riguardo di future divisioni in seno alla cristianità.

Sarebbe incompleta la nostra esposizione circa lo zelo pastorale di S. Leone per l'unità della Chiesa Cattolica, se non ricordassimo anche, sia pure rapidamente, il suo intervento nella questione relativa alla data della festa di Pasqua, come pure la sua vigilante sollecitudine, affinché le relazioni tra la Sede Apostolica ed i Principi cristiani fossero improntate a reciproca stima, fiducia e cordialità. Sempre mirando alla pace della Chiesa, egli esortò frequentemente gli stessi Principi a cooperare con l'Episcopato "per la unità cattolica" (Ep. 114, 3, ad Marcianum imper.; PL, LIV, 1022), così da meritare da Dio "oltre la corona regale, anche la palma del sacerdozio" (Ibid.).

Oltre che pastore vigilantissimo del gregge di Cristo e coraggioso difensore della fede ortodossa, S. Leone è celebrato nei secoli quale Dottore della Chiesa, cioè come espositore e campione eccellentissimo di quelle verità divine, di cui ogni Romano Pontefice è custode ed interprete. Questo è confermato dalle parole del Nostro immortale predecessore Benedetto XIV che, nella bolla "Militantis Ecclesiae", con cui proclama S. Leone Dottore della Chiesa, ne tesse questo splendido elogio: "Per la sua eminente virtù, per la sua sapienza, per il suo instancabile zelo, egli meritò dagli antichi l'appellativo di Leone Magno. La superiorità della sua dottrina, sia nell'illustrare i più alti misteri della nostra fede e nel difenderli contro l'insorgere degli errori, sia nel formulare norme disciplinari e morali, unicamente ad una singolare maestà e ricchezza di eloquio sacerdotale, spicca a tal punto e si distingue, grazie alle lodi di tanti uomini ed all'esaltazione entusiastica dei Concili, dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, che un pontefice tanto sapiente non va assolutamente posposto per fama o per stima a nessuno dei santi dottori, che fiorirono nella Chiesa" (Migne, PL, LV, 337- 440).

La sua fama di dottore è affidata alle Omelie e alle Lettere, che la posterità ci ha conservate in numero piuttosto rilevante. La raccolta delle Omelie abbraccia vari argomenti, quasi tutti connessi col cielo della Sacra Liturgia. In questi scritti egli si rivela non tanto esegeta, applicato all'esposizione di un determinato libro ispirato, né un teologo, amante di profonde speculazioni intorno alle verità divine, quanto piuttosto un espositore fedele, perspicuo e copioso dei misteri cristiani, aderente all'interpretazione trasmessa dai Concili, dai Padri, e soprattutto dai Pontefici suoi antecessori. Il suo stile è semplice e grave, elevato e persuasivo, degno senz'altro di essere giudicato un modello perfetto di classica eloquenza. Tuttavia egli non sacrifica mai alla eleganza del dire l'esattezza della verità da esprimere; non parla o scrive per farsi ammirare, ma per illuminare le menti e infiammare i cuori alla perfetta conformità della vita pratica con le verità professate.

Nelle Lettere, che in base al suo ufficio di Supremo Pastore egli indirizzò a vescovi, principi, sacerdoti, diaconi, monaci della Chiesa universale, S. Leone manifesta doti eccezionali di uomo di governo, cioè uno spirito perspicace e sommamente pratico, una volontà pronta all'azione, ferma nelle ben maturate decisioni, un cuore aperto alla comprensione paterna, ricolmo di quella carità che S. Paolo addita a tutti i cristiani come "la strada migliore" (1 Cor. XII, 31). Come non riconoscere che tali sentimenti di giustizia e di misericordia, di fortezza congiunta a clemenza, nascevano nel suo cuore appunto da quella medesima carità, che il Signore richiese a Pietro prima di affidargli la custodia dei suoi agnelli, e delle sue pecore? (loan. XXI, 15-17). Egli infatti si studiò sempre di fare di se stesso una copia fedele del Buon Pastore, Cristo Gesù, come si deduce dal passo seguente: "Abbiamo da un lato mansuetudine e clemenza, dall'altro rigore e giustizia. E poiché tutte le vie del Signore risultano di misericordia e verità (Psal. XXIV, 10), dalla bontà che è propria della Sede Apostolica siamo costretti a regolare in tal modo le nostre decisioni, che, ponderata bene la natura dei delitti, la misura dei quali è varia, riteniamo che alcuni siano da assolvere ed altri siano da estirpare" (Ep. 12, 5, ad Episcopos africanos; PL, LIV, 652). Tanto le Omelie, dunque, quanto le Lettere costituiscono un documento eloquentissimo del pensiero e dei sentimenti, delle parole e dell'azione di S. Leone, sempre preoccupato di assicurare il bene della Chiesa nella verità, nella concordia e nella pace.

II

Venerabili Fratelli, nell'imminenza del Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale i Vescovi, stretti intorno al Romano Pontefice e con lui in intima comunione, daranno al mondo intero un più splendido spettacolo dell'unità cattolica, è quanto mai istruttivo e confortante il richiamare allo spirito, anche se rapidamente, l'alta idea che S. Leone ha avuto dell'unità della Chiesa. Questo richiamo sarà ad un tempo un atto di omaggio alla memoria del sapientissimo Pontefice e, nell'imminenza del grande avvenimento, un pascolo spirituale per le anime dei fedeli.

Anzitutto S. Leone ci insegna che la Chiesa è una perché uno è il suo Sposo, Gesù Cristo: "Tale è infatti la Chiesa vergine, unita ad un solo sposo, Cristo, da non ammettere nessun errore; sicché in tutto il mondo noi godiamo di una sola casta, integra unione" (Ep. 80, 1, ad Anatolium episc. Constant.; PL, LIV, 913). Il Santo ritiene altresì che questa mirabile unità della Chiesa abbia avuto inizio con la nascita del Verbo incarnato, come risulta da queste espressioni: "E’ infatti la nascita di Cristo che determina l'origine del popolo cristiano: il natale del Capo è anche il natale del corpo. Anche se ciascuno dei chiamati (alla fede) ha il suo turno, se tutti i figli della Chiesa sono distribuiti nella successione dei tempi, tuttavia il complesso dei fedeli, nati dal fonte battesimale, come con Cristo sono crocifissi nella sua passione, sono risorti nella sua risurrezione, sono posti alla destra del Padre nella sua ascensione, così con lui sono congenerati in questa nascita" (Serm. 26, 2, in Nativ. Domini; PL, LIV, 213). A questa misteriosa nascita del "corpo della Chiesa" (Col. 1, 118), ha partecipato intimamente Maria, grazie alla sua verginità, resa feconda per opera dello Spirito Santo. S. Leone, infatti, esalta Maria come: "Vergine, ancella e madre del Signore" (Ep. 165, 2, ad Leonem imper.; PL, LIV, 1157); "Genitrice di Dio" (lbid.) e Vergine perpetua (Serm. 22, 2, in Nativ. Domini; PL, LIV, 195).

Inoltre, il sacramento del Battesimo, osserva ancora S. Leone, non solo rende ogni cristiano membro di Cristo, ma lo rende altresì partecipe della sua regalità e del suo spirituale sacerdozio: "Tutti coloro, infatti, che sono stati rigenerati in Cristo, sono anche fatti re col segno della croce, e consacrati sacerdoti con l'unzione dello Spirito Santo" (Serm. 4, 1, in Nativ. Domini; PL, LIV, 149. Serm. 64, 6, de Passione Domini; PL, LIV, 357. Ep. 69, 4; PL, LIV, 870).

Il sacramento della Confermazione, chiamato "santificazione dei crismi" (Serm. 66, 2, de Passione Domini, PL, LIV, 365-366), corrobora tale assimilazione a Cristo Capo, mentre nell'Eucaristia trova il suo compimento. "Infatti la partecipazione del Corpo e del Sangue di Cristo non fa altro che trasformarci in ciò che assumiamo; e portiamo in tutto, nella carne come nello spirito, quello stesso, nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati" (Serm. 64, 7, de Passione Domini; PL, LIV, 357).

Ma, si noti bene, per S. Leone non vi può essere perfetta unione dei fedeli con Cristo Capo e tra loro, quali membra di un medesimo organismo vivo e visibile, se ai vincoli spirituali della virtù, del culto e dei Sacramenti non si aggiunge la professione esterna della medesima fede: "Grande sostegno è la fede integra, la fede vera, nella quale nulla può essere aggiunto o tolto da chicchessia; poiché la fede se non è unica, non esiste affatto" (Serm. 24, 6, in Nativ. Domini, PL, LIV, 207). Alla unità, però, della fede è indispensabile l'unione tra i maestri delle verità divine, cioè la concordia dei Vescovi tra loro in comunione e sottomissione al Romano Pontefice: "La compattezza di tutto il corpo è ciò che dà origine alla sua santità e alla sua bellezza; e questa stessa compattezza, se richiede l'unanimità, esige però soprattutto la concordia dei sacerdoti. Questi hanno in comune la dignità sacerdotale, ma non lo stesso grado di potere; giacché anche fra gli apostoli vi fu eguaglianza di onore, ma differenza di potere, in quanto che a tutti fu comune la grazia della elezione, ma ad uno solo è stato concesso il diritto di preminenza sugli altri" (Ep. 14, 11, ad Anastasium epise. Thessal.; PL, LIV, 676).

Centro, dunque, e fulcro di tutta l'unità visibile della Chiesa Cattolica è il Vescovo di Roma, quale successore di S. Pietro e Vicario di Gesù Cristo. Le affermazioni di S. Leone non sono altro che l'eco fedelissima dei testi evangelici e della perenne tradizione cattolica, come si rileva dal passo seguente: "In tutto il mondo il solo Pietro viene eletto per essere preposto all'evangelizzazione di tutte le genti, a tutti gli apostoli e a tutti i Padri della Chiesa; di modo che, quantunque in mezzo al popolo di Dio vi siano molti pastori e molti sacerdoti, tutti però sono governata propriamente da Pietro, come principalmente sono governati da Cristo. In maniera grande e ammirabile, o dilettissimi, Iddio si è degnato di far partecipe questo uomo del suo potere; e se volle che anche gli altri capi avessero qualche cosa di comune con lui, tutto ciò che concesse agli altri, sempre lo concesse per mezzo suo" (Serm. 4, 2, de natali ipsius; PL, LIV, 149-150). Su questa verità, che è fondamentale per l'unità cattolica, cioè del vincolo divino, indissolubile fra il potere di Pietro e quello degli altri Apostoli, S. Leone crede opportuno insistere: "Si estese certamente anche agli altri. apostoli quel potere (cioè di sciogliere e di legare: Matth. XIV, 19), e fu trasmesso a tutti i capi della Chiesa; ma non invano si raccomanda ad una sola persona, ciò che deve essere comunicato a tutti gli altri. Infatti, questo potere viene affidato a Pietro singolarmente, appunto perché la figura di Pietro sta al di sopra di tutti coloro che governano la Chiesa (lbid. col. 151-, cfr. Serm. 83, 2, in natali S. Petri Apost.; PL, LIV, 430)."

Ma il Santo Pontefice non dimentica l'altro essenziale vincolo dell'unità visibile della Chiesa, cioè il supremo ed infallibile Magistero, dal Signore riservato personalmente a Pietro e ai suoi successori: "Il Signore si prende cura in modo speciale di Pietro, e prega in particolare per la fede di Pietro, quasi che la perseveranza degli altri sarebbe stata maggiormente garantita, se l'animo del capo non fosse stato vinto. In Pietro perciò la fortezza di tutti viene protetta, e l'aiuto della grazia divina segue questo ordine: la fermezza che per mezzo di Cristo viene data a Pietro, viene conferita agli apostoli attraverso Pietro" (Serm. 4, 3; PL, LIV, 151-152; cfr. Serm. 83, 2; PL, LIV, 451).

Quanto S. Leone afferma con tanta chiarezza ed insistenza di S. Pietro, lo asserisce anche di se stesso, non per stimolo di umana ambizione, ma per l'intima persuasione che ha di essere, non meno del Principe degli Apostoli, il Vicario di. Gesù Cristo stesso, come si ricava da questo brano dei suoi sermoni: "Non è per noi motivo di orgoglio la solennità con cui, pieni di riconoscenza a Dio per il suo dono, festeggiamo l'anniversario del nostro sacerdozio; poiché con tutta sincerità confessiamo, che tutto il bene da noi compiuto nello svolgimento del nostro ministero è opera di Cristo; e non di noi, che non possiamo nulla senza di lui, ma di lui ci gloriamo, da cui deriva tutta l'efficacia del nostro operare" (Serm. 5, 4, de natali ipsius; PL, LIV, 154). Con ciò S. Leone, lungi dal pensare che S. Pietro sia ormai estraneo al governo della Chiesa, ama invece associare alla fiducia nella perenne assistenza del suo divino Fondatore, la fiducia nella protezione di S. Pietro, di cui si professa erede e successore, e "ne fa tutte le veci" (Serm. 3, 4, de nat. ipsius; PL, LIV, 147). Perciò ai meriti dell'Apostolo, più che ai propri, egli attribuisce i frutti del suo universale ministero. Il che, fra l'altro, è chiaramente provato dalla seguente espressione: "Se pertanto qualcosa di buono operiamo o vediamo, se qualcosa otteniamo dalla misericordia di Dio con le quotidiane preghiere, ciò si deve alle opere e ai meriti di lui; nella sua sede perdura ancora il suo potere, domina la sua autorità" (Serm. 3,4, de nat. ipsius; PL, LIV, 146; cfr. Serm. 83, 3, in nat. S. Petri Apost.; PL, LIV, 432).

In realtà S. Leone non insegna nulla di nuovo. Al pari dei suoi predecessori S. Innocenzo I (Ep. 30, ad Concil. Milev.; PL, XX, 5.90) e S. Bonifacio I (Ep. 13, ad Rufum episc. Thessaliae, Il mart. 422, in C. Silva-Tarouca S. I. Epistolarum Romanorum Pontilicum collect. Thessal.; PL, LIV, 668), e in perfetta armonia coi ben noti testi evangelici, da lui stesso commentati (Matth. XVI, 17; Lue. XXII, 31-32; loan. XXI, 15-17), egli è persuaso di aver ricevuto da Cristo stesso il mandato del supremo ministero pastorale. Afferma infatti: "La sollecitudine che dobbiamo avere verso tutte le Chiese ha origine principalmente da un divino mandato" (Ep. 14, 1, ad Anastasium episc. Thessal.; PL, LIV, 668).

Non vi è pertanto da meravigliarsi se S. Leone all'esaltazione del Principe degli Apostoli ama associare quella della città di Roma. Ecco come si esprime nei suoi riguardi nel sermone in onore dei Santi Pietro e Paolo: "Sono questi, invero, gli eroi per opera dei quali a te rifulse, o Roma, l'Evangelo di Cristo ... ; sono essi che ti innalzarono a questa gloria di città santa, di popolo eletto, di città sacerdotale e regale; per modo che, divenuta, in virtù della sacra sede del Beato Pietro, veramente capo del mondo, estendi il tuo impero con la Religione divina più che non l'estendevi con la dominazione umana. Sebbene infatti, resa potente dalle molte vittorie, affermassi per terra e per mare il diritto dell'impero; quello, tuttavia, che ti assoggettarono le fatiche guerresche è meno di quello che ti sottomise la pace cristiana" (Serm. 82, 1, in nat. Apost. Petri et Pauli; PL, LIV, 422-423). Ricordando poi ai suoi uditori la splendida testimonianza resa da San Paolo alla fede dei primi cristiani di Roma, il grande Pontefice con questa esortazione li stimola a conservare immacolata da ogni macchia di errore la loro fede cattolica. "Voi, dunque, cari a Dio e fatti degni dell'approvazione apostolica, ai quali il beato apostolo Paolo, dottore delle genti, dice: "La vostra fede è celebrata in tutto il mondo" (Rom. 1, 8), custodite in voi ciò che sapete essere stato da lui pensato nei vostri riguardi, da lui che vi ha così autorevolmente esaltati. Nessuno di voi si renda immeritevole di questa lode; di modo che neppure dal contagio dell'empietà di Eutiche possano venire contaminati coloro che, sotto la guida dello Spirito Santo, in tanti secoli non hanno conosciuto alcuna eresia" (Serm. 86, 3, tract. contra haer. Eutychis; PL, LIV, 467).

L'opera veramente insigne svolta da S. Leone a salvaguardia dell'autorità della Chiesa di Roma non fu vana. Grazie, infatti, al prestigio della sua persona, la "cittadella dell'Apostolo Pietro" venne lodata e venerata non soltanto dai Vescovi dell'Occidente, presenti nei Concili riuniti a Roma, ma da più di cinquecento membri dell'Episcopato Orientale congregato a Calcedonia (Mansi, Concil. ampliss. collect., VI, pag. 913), e dagli Imperatori di Costantinopoli (Ep. 100, 3, Marciani irnper. ad Leonem, episc. Romae; PL, LIV, 972. Ep. 77, 1, Pulcheriac ang. ad Leonem, epise. Romae; PL, LIV, 907). Anzi, prima ancora del celebre Concilio, Teodoreto, Vescovo di Ciro, aveva tributato nel 449 al Vescovo di Roma e al suo privilegiato gregge questi alti elogi: "A voi tocca il primo posto in tutto, a motivo delle prerogative che onorano la vostra sede. Le altre città, infatti, si gloriano o per la loro grandezza o per il numero degli abitanti... Il Donatore di ogni bene alla vostra città ne ha elargito in sovrabbondanza. Giacché essa è la più grande e la più illustre di tutte le città, governa il mondo, è ricca di popolazione... Possiede inoltre i sepolcri di Pietro e Paolo, comuni padri e maestri della verità, che illuminano le anime dei fedeli. Questi due santissimi luminari ebbero bensì origine in Oriente e diffusero i loro raggi dovunque; ma per loro spontanea volontà subirono il tramonto della loro vita nell'Occidente, e di là ora illuminano il mondo. Costoro resero nobilissima la vostra sede; qui è il culmine dei vostri beni. Ma il loro Dio anche ora rende illustre la loro sede, mentre in essa fa scaturire dalla vostra santità i raggi della vera fede" (Ep. 52, 1, Theodoreti episc. ad Leonem, epise. Romae; PL, LIV, 847).

Le esimie lodi che i rappresentanti delle Chiese di Oriente tributarono a Leone, non vennero meno con la di lui morte. Infatti la Liturgia Bizantina, nella festa del 18 febbraio a lui dedicata, lo esalta quale "duce dell'ortodossia, dottore ornato di pietà e di maestà, astro dell'universo, ornamento degli ortodossi, lira dello Spirito Santo". Altrettanto significativi sono gli elogi che al grande Pontefice tributa il Menologio Gelasiano: "Questo nostro padre Leone, ammirevole per le sue molte virtù, la continenza e la purità, consacrato Vescovo della grande Roma, fece molte altre cose degne delle sue virtù; ma rifulse la sua opera soprattutto in ciò che riguarda la retta fede" (Migne, PG, CXVII, 319).

Amiamo ripetere, venerabili Fratelli, che il coro di lodi inneggiante alla santità del Sommo Pontefice S. Leone Magno, nell'antichità fu concorde sia in Oriente che in Occidente. Oh! torni egli a riscuotere il plauso di tutti i rappresentanti della scienza ecclesiastica delle Chiese che non sono in comunione con Roma.

Superato così il doloroso contrasto di opinioni circa la dottrina e l'azione pastorale dell'immortale Pontefice, risplenderà in amplissima luce la dottrina che essi pure professano di credere: "Non vi è che un solo Dio, e un solo mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" (I Tim. 11, 5).

Ebbene Noi, succeduti a S. Leone nella sede episcopale di S. Pietro, come professiamo con lui la fede nell'origine divina del mandato di universale evangelizzazione e di salvezza affidato da Gesù Cristo agli Apostoli e ai loro successori, cosi al pari di lui nutriamo il vivo desiderio di vedere tutte le genti entrare nella via della verità, della carità e della pace. Ed è appunto allo scopo di rendere la Chiesa più idonea ad assolvere ai tempi nostri tale eccelsa missione, che Ci siamo proposti di convocare il secondo Concilio Ecumenico Vaticano, nella fiducia che l'imponente adunanza della Gerarchia cattolica, non solo rafforzerà i vincoli di unità nella sede, nel culto e nel regime, che sono prerogativa della vera Chiesa (Cfr. Conc. Vat. I, Sess. III, cap. 3 de fide), ma attirerà altresì lo sguardo di innumerevoli credenti in Cristo e li inviterà a raccogliersi intorno al "gran Pastore del gregge" (I-lebr. XIII, 20), che ne ha affidato a Pietro e ai suoi successori la perenne custodia (loan. XXI,. 15-17). Il Nostro caldo appello all'unità vuol essere quindi l'eco di quello più volte lanciato da S. Leone nel V secolo, richiamante quello già rivolto ai fedeli di tutte le Chiese da S. Ireneo, che la Provvidenza divina aveva chiamato dall'Asia a reggere la sede di Lione e ad illustrarla col suo martirio. Infatti, dopo aver egli riconosciuto la ininterrotta successione dei Vescovi di Roma, eredi del potere stesso dei due Principi degli Apostoli (Cfr. Advers. haeres. I. III, e. 2, n. 2; PG, VII, 848), concludeva esortando: "E’ con questa Chiesa, a causa della sua preminente superiorità, che deve essere d'accordo ogni Chiesa, cioè tutti i fedeli che sono nell'universo; ed è per la comunione con essa che tutti questi fedeli (oppure: tutti i capi delle Chiese) hanno conservata la tradizione apostolica" (lbid.).

Ma il Nostro appello all'unità vuol essere soprattutto l'eco della preghiera rivolta dal nostro Salvatore al suo Divino Padre nell'ultima cena: "Affinché tutti siano una sola cosa, come tu, o Padre, sei in me ed io in te, anch'essi siano una sola cosa" (loan. XVII, 21). Nessun dubbio circa l'esaudimento di questa preghiera, così come fu esaudito il Sacrificio cruento del Golgota. Non ha forse il Signore affermato che il Padre suo sempre lo ascolta? (loan. XI, 42). Noi quindi crediamo che la Chiesa, per la quale egli ha pregato e si è immolato sulla Croce, ed alla quale ha promesso la sua perenne presenza, è sempre stata e resta una, santa, cattolica ed apostolica, così come fu istituita.

Purtroppo, come per il passato, così dobbiamo con dolore constatare che anche al presente la unità della Chiesa non corrisponde di fatto alla comunione di tutti i credenti in una sola professione di fede e in una medesima pratica di culto e di ubbidienza. Tuttavia è per Noi motivo di conforto e di dolce speranza lo spettacolo dei generosi e crescenti sforzi che da varie parti si fanno, allo scopo di ricostituire quell'unità anche visibile di tutti i cristiani, che degnamente risponda alle intenzioni, ai comandi e ai voti del Salvatore divino. Consapevoli che l'unità, che è anelito di Spirito Santo in tante anime di buona volontà, non potrà pienamente e solidamente attuarsi se non quando, conforme alla profezia stessa di Gesù Cristo, "si farà un solo ovile e un solo pastore" (lbid. X, 16), Noi supplichiamo il nostro mediatore e avvocato presso il Padre (I Tim. Il, 5; 1 loan. 11, 1), affinché impetri a tutti i cristiani la grazia di riconoscere le note della sua vera Chiesa, per divenirne figli devoti. Oh! si degni il Signore di far sorgere presto l'aurora di quel giorno benedetto di universale riconciliazione, quando un immenso coro di amore giubilante si leverà dall'unica famiglia dei redenti ed essi, inneggiando alla misericordia divina, canteranno col Salmista l'"Ecce quam bonum et quam iucundum, habitare fratres in unum!" (Psal. CXXXII, 1).

L'amplesso di pace fra i figli del medesimo Padre celeste, egualmente coeredi dello stesso regno di gloria, segnerà la celebrazione del trionfo del Corpo mistico di Cristo.

III

Venerabili Fratelli, il quindicesimo centenario della morte di S. Leone Magno trova la Chiesa Cattolica in dolorose condizioni, simili in parte a quelle che essa conobbe nel secolo V. Quanti travagli, infatti, in questi tempi affliggono la Chiesa, e si ripercuotono nel Nostro animo paterno, come chiaramente aveva predetto il divin Redentore! Vediamo che in molte contrade la "fede dell'Evangelo" (Phil. 1, 27) è in pericolo, e non mancano tentativi per lo più destinati, grazie a Dio, a fallire, di staccare dal centro dell'unità cattolica, cioè della Sede Romana, vescovi, sacerdoti e fedeli. Ebbene, allo scopo di scongiurare così gravi pericoli, Noi invochiamo fiduciosi sulla Chiesa militante il patrocinio del Santo Pontefice, che tanto operò, scrisse e soffrì per la causa dell'unità cattolica. E a quanti gemono pazientemente per la verità e per la giustizia rivolgiamo le confortatrici parole che S. Leone indirizzò al clero, alle autorità e al popolo di Costantinopoli: "Perseverate adunque nello spirito della verità cattolica, e per mezzo Nostro ricevete l'esortazione apostolica: "Poiché a voi per Cristo fu fatta la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui" (Phil. 1, 29)" (Ep. 50, 2, ad Costantinopolitanos; PL, LIV, 843).

Per tutti coloro, infine, che vivono nella unità cattolica, Noi che, sebbene indegnamente, sosteniamo in terra le veci del Salvatore divino, facciamo nostra la sua preghiera per i suoi diletti discepoli e per quanti avrebbero creduto in lui: "Padre Santo… ti prego affinché giungano a perfetta unità" (loan. XVII, 11-20-23). Noi cioè domandiamo per tutti i figli della Chiesa la perfezione dell’unità, quella perfezione che soltanto la carità, "che è vincolo di Perfezione" (Col. III, 14), può dare. E’ infatti dall'accesa carità verso Dio e dall'esercizio sempre più pronto, ilare e generoso di tutte le opere di misericordia verso il prossimo, che la Chiesa, "tempio di Dio vivo" (Il Cor. VI, 16), si ammanta in tutti e ciascuno dei suoi figli di soprannaturale bellezza. Pertanto con S. Leone vi esortiamo: "Giacché, dunque, tutti i fedeli insieme e ciascuno in particolare costituiscono un solo e medesimo tempio di Dio, bisogna che questo sia perfetto in ciascuno come deve essere perfetto nell'insieme; poiché, anche se la bellezza non è uguale in tutti membri, né i meriti pari in una così grande varietà di parti, il vincolo della carità tuttavia produce la comunione nella bellezza. Coloro che un santo amore unisce, anche se non partecipano degli tessi doni della grazia, gioiscono tuttavia vicendevolmente dei loro beni, e ciò che essi amano non può essere loro estraneo, poiché è un accrescere le proprie ricchezze, il trovare la gioia nel progresso degli altri" (Serm. 48, 1, de Quadrag.; PL, LIV, 298-299).

Al termine di questa Nostra Lettera Enciclica, Ci sia consentito di rinnovare l'ardentissimo voto, che erompeva dall'animo di S. Leone, cioè, di vedere tutti i redenti dal Sangue preziosissimo di Gesù Cristo, riuniti nella medesima Chiesa militante, resistere compatti e intrepidi alle potenze del male, che da tante parti continuano a minacciare la fede cristiana. Poiché "allora diventa potentissimo il popolo di Dio, quando nell'unione della santa ubbidienza i cuori di tutti i fedeli si trovano d'accordo, e negli accampamenti delle schiere cristiane la preparazione è simile in tutte le parti e le fortificazioni dovunque sono le stesse" (Ep. 22, 2; PL, IV, 441-442). Il principe delle tenebre non prevarrà, quando nella chiesa di Cristo regnerà l'amore: "Poiché le opere del demonio vengono distrutte con maggior potenza, quando i cuori degli uomini sono accesi di carità verso Dio e verso il prossimo" (Ep- 95, 2, 1 Pulcheriam august.; PL, LIV, 943).

Confortatrice delle Nostre speranze ed auspicio delle divine grazie, sia l'Apostolica Benedizione, che a voi tutti, venerabili Fratelli, e al gregge affidato allo zelo ardentissimo di ciascuno, di gran cuore impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, l'11 novembre 1961, anno IV del Nostro Pontificato.


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