Tra le righe della pioggia...
~ 3° parte ~
 
16 settembre 1789
Non è vero che mia figlia mi ha dato solo dispiaceri. Sarei ingiusto se affermassi ciò. Sono stato orgoglioso, molto orgoglioso di lei. O di lui, come mi ostinavo a definirla.
Ricordo ancora il giorno in cui Maria Antonietta salì al trono e la gioia che provai nel darle la notizia: “Il primo desiderio di Sua Maestà è stato quello di nominarti colonnello delle Guardie Reali. Sei il comandante adesso.” E mentre lo dicevo provavo una gioia immensa, mentre i suoi occhi mi guardavano increduli.
Eri poco più che ventenne e a capo di un reparto prestigioso e ammirato come quello delle Guardie di Palazzo. Come al solito assolvesti al tuo compito in maniera ineccepibile. Eri stata addestrata per anni al rigore della mia disciplina e adesso si vedevano i risultati. A Palazzo tutti ti ammiravano e ti amavano. Poche persone sono state rispettate e considerate come lo sei stata tu in quegli anni. Era il tuo momento. Ora eri il Comandante delle Guardie Reali, colonnello Oscar Francois De Jarjayes. Ero fiero di te, lo sono sempre stato. A tal punto che ancora soffro al ricordo dell’incidente accaduto qualche tempo prima. Vederti pallida e ferita, mentre lottavi tra la vita e la morte mi ha fatto capire quanto ti amassi, quanto ti volessi bene. Il pensiero di perderti era insostenibile.
So cosa vorresti dirmi Oscar: era il pensiero di perderti ad essere insopportabile o l’idea che con la tua morte tutti i miei sogni sarebbero andati in frantumi? Era amore paterno, o egoismo? Scruto dentro di me la risposta e la vedo. Io ti ho amato Oscar. Ho amato mia figlia come un padre sa e deve fare. Altrimenti, la tua morte, qualche mese fa, mi avrebbe lasciato del tutto indifferente. Dopo il tuo tradimento non avrei più dovuto considerarti se non come un nemico. E non si piange sulla tomba di un nemico. Ma io sono qui, tormentato dai rimorsi e dai rimpianti perché ti ho voluto bene e ti ho perduta. Per sempre.
Quello che voglio ricordare di te è ben altro. Vorrei che la memoria delle nostre serate passate a discorrere davanti al camino, non venisse mai cancellata. Quando mi parlavi dei problemi nella Guardia Reale e mi chiedevi consigli. Era bello conversare con te, confrontarsi. Avevi la stoffa per comandare e si vedeva nelle tue osservazioni, nei tuoi commenti. Queste serate con un buon bicchiere di vino in mano, erano il nostro unico momento di intimità. Mi illudevo di esserti vicina, ma non era così. Di te continuavo a non sapere nulla.
Infatti il tuo comportamento, dopo il duello con il Duca di Germain, cadde su di me come un fulmine a ciel sereno. Che diavolo ti era saltato in testa di abbandonare così la Corte? Possibile che tu non avessi pensato che ci sarebbe potuto essere bisogno di te? Un comandante deve essere sempre a disposizione anche quando viene punito. E quei discorsi poi, sui contadini e i loro diritti, sulla situazione nelle campagne e le ripercussioni sullo Stato e sulla Monarchia…
Fui molto duro con te, forse ti schiaffeggiai anche, non ricordo. Non era ammissibile un tale comportamento da parte di un nobile. Un nobile vive una spanna più in alto della plebe e non si sporca le mani con la marmaglia. Un nobile è un eletto da Dio chiamato a risolvere ben altre questioni che non la povertà e la miseria altrui. La cultura di un popolo, la sua civiltà, come si costruirebbero senza la nobiltà? Le arti, la filosofia, le scienze sono un patrimonio che noi nobili siamo chiamati a proteggere e arricchire. Il pensiero morirebbe se non ci fossimo noi, perché la gente comune, il popolo, quel popolo che ora sta mettendo a ferro e fuoco la Francia è capace solo di questo: distruggere. Il pensiero non nasce dal basso Oscar. Da lì nascono solo ignoranza e meschinità. Eppure tu non la pensavi come me. Certo, l’ho visto solo quando hai impedito alle Guardie Reali di Girodelle di entrare nella sala dell’Assemblea, quando mi hanno detto che sei caduta davanti alle mura della Bastiglia. In quelle tue parole, al ritorno da Arras, c’era già in te il germe di quello che qualcuno chiamerebbe Illuminismo, ma che io continuo a definire ribellione. La tua fu duplice. Rinnegando l’idea di privilegio di classe, rinnegavi la tua appartenenza alla nobiltà…e a me. Ti stavi ribellando a tuo padre e, indirettamente, a tutto ciò che mi rappresentava: l’uniforme, il nome di famiglia, la monarchia. Proprio come quando eri piccola. Accettavi la punizione, e non replicavi. Ma mi guardavi con occhi lontani e facevi sempre quello che volevi alla fine. In silenzio, veniva sempre fatta la tua volontà. E come sarebbe potuto essere altrimenti? Come avresti fatto, sennò, a farti rispettare da quella gentaglia dei Soldati della Guardia?
Alla fine di tutto, credo che abbia vinto tu, figlia mia.

Io e Luc eravamo di nuovo seduti al nostro tavolo, nella stanza al primo piano. Ogni volta che andavamo lì, pulivamo un pezzettino ed era, in breve diventata vivibile. I mobili non c’erano più: restava il pianoforte roso dai tarli, le sedie e il tavolo. Era una camera immensa, divisa in due parti. Nella “zona notte” c’erano ancora i resti di un baldacchino con le sue tende sfilacciate. Uno specchio appannato e corroso dai secoli lo rifletteva tristemente. Nella “zona giorno”, quella più illuminata, c’eravamo noi che guardavamo pensierosi ed emozionati le pagine. Una vita intera si stava svelando ai nostri occhi ed eravamo testimoni dei dolori di un ormai non più giovane Werther:
“Che idea ti sei fatta di tutto questo?” mi chiese Luc. Io presi tempo sorseggiando la bottiglietta d’acqua che avevo portato da casa:
“Non so. Tutto questo mi affascina…una donna che comanda le Guardie Reali nel ‘700…la sua vita così…lacerata, divisa tra due identità…certo, il padre sembra molto dispiaciuto per quello che ha fatto ma…
“Ma?”
“Ma non riesco a perdonarlo. Cioè, la mia parte razionale lo comprende perfettamente, ma nonostante tutte le attenuanti del caso non posso giustificarlo. Che diritto aveva di rovinare la vita a sua figlia, solo per i suoi interessi? E’…disumano…”
“Beh, non esagerare”
“Non esagero! Ma ti rendi conto di quello che deve aver passato quella ragazza?”
“Beh, anche tu ti vesti da uomo ogni carnevale e fai finta di essere un maschio.”
“Sì, ma io lo faccio per lo spazio di una sera…e per gioco. So che sono una ragazza e vengo anche considerata come tale. Ma vivere in un mondo di uomini e comportarsi, agire come un uomo ventiquattrore su ventiquattro, 365 giorni all’anno è quanto meno…stancante. Si finisce per perdersi, per dare sempre meno spazio alla propria femminilità e cosa si diventa? Niente. Un ibrido perfetto, senza definizione.”
“Ok ok. E’ meglio se continuiamo il nostro lavoro” Capisco ora che Luc deve avere interrotto bruscamente la cosa per evitarsi una tirata femminista da parte mia. A volte lo tiranneggiavo un po’ e lui mi lasciava fare: salvo poi tornare alla carica quando mi ero calmata e diventavo più ragionevole. Un po’ come l’Andrè del nostro diario, insomma. Ancora adesso sono convinta che non conosca bene sua moglie, quanto conosce me. Il legame che si è creato tra di noi durante quei giorni di settembre è indissolubile e profondo. La complicità che abbiamo acquisito insieme, ci legherà per sempre.

29 settembre 1789

Ed eccomi qui, di nuovo alle prese con me stesso, pronto per affrontare un nuovo capitolo dei miei errori. Sono un soldato che davanti a queste pagine combatte la sua battaglia. Un soldato che non sa se la guerra sarà vinta o persa, se porterà a qualcosa o no. Sa solo che deve combattere e lo farà. La battaglia che mi sto accingendo a raccontare è una delle più dolorose, ma inevitabile.
Come sono passati in fretta questi anni! Stento a rendermene conto. E’ come se la vita mi fosse scivolata di mano e io ne avessi sentito il fruscio sul palmo. La routine, i doveri di tutti i giorni scandiscono il tempo e se lo portano via senza che noi ce ne accorgiamo.
I giorni, i mesi, gli anni passarono alla Corte di Versailles tra balli, feste e concerti. La regina Maria Antonietta si fece vecchi e nuovi nemici e qualche amante di troppo. Anche quello svedese, Fersen, che avevo intravisto qualche volta a Palazzo Jarjayes, era tra le persone più intime. Era anche amico di mia figlia lo ricordo. Ho scambiato qualche parola con lui nei saloni di Palazzo e mi era sembrato un vero gentiluomo, non privo di classe e buongusto.
Tutto procedeva come al solito. Parigi era lontana, i suoi rumori non arrivavano fino alla Reggia. Ero sicuro che la nomina a Generale per mia figlia fosse vicina. Era solo una questione di tempo. Probabilmente se lei l’avesse chiesta, Sua Maestà non l’avrebbe rifiutata. Infatti, un giorno  seppi che Oscar aveva chiesto udienza a Maria Antonietta, cosa strana perché di solito avveniva il contrario. Pensai subito che Oscar volesse avanzare quella richiesta che finora non aveva fatto e non ci vedevo nulla di sbagliato. In fondo, sarebbe stato un premio meritato per la sua fedeltà e gli anni trascorsi al servizio dei sovrani. Considerando poi, la stima e l’affetto che la nostra Regina aveva sempre accordato a Oscar, credevo fosse cosa fatta.
Il mio stupore quando appresi la notizia, invece, fu indicibile. Non ci potevo credere. Oscar non aveva chiesto una promozione, bensì di lasciare il comando della Guardie Reali. Inammissibile! Quale fu la causa di tale comportamento non l’ho mai capito. Quelle che posso fare sono solo congetture. La cosa mi preoccupò non poco. Ormai non era più in mio potere fermarti. Ti conoscevo bene Oscar, e quando mi dicesti: “Padre non insistete vi prego. La decisione è presa” capii che nulla ti avrebbe riportato indietro. Mi preoccupò perché il comando delle Guardie di Palazzo era un posto “sicuro”. I membri del reggimento appartenevano alla nobiltà e accettavano molto più facilmente di altri di essere comandati da una donna. Erano di estrazione elevata e non ti avrebbero fatto impensierire più di tanto. Qualsiasi altro corpo armato sarebbe stato peggiore. Quando poi seppi che ti era stato affidato il comando dei Soldati della Guardia non dormii la notte. Adesso posso dirlo. Posso dire quella frase che mi sono negato per tanti anni. La mia bambina in mezzo a quel branco di rozzi e maleducati non ci doveva andare. Ecco, l’ho detto. Per anni mi sono trovato delle scuse e ho soffocato il pensiero di questa frase. Ma alla fine l’ho fatta uscire e ora sono sollevato.
 Sapevo cosa ti attendeva. Avrebbero infangato il tuo nome, fatto pesanti allusioni e forse anche di peggio. Il rispetto non era affatto assicurato perché eri nobile ed eri donna.
Credevo che tu non sapessi a cosa stessi andando incontro. Pensavo che non avessi preso in considerazione questi fatti. Che dessi per certo che la vita militare fosse tutta lì: comandare e vedere eseguiti i propri comandi. Non ebbi tempo di parlare con te di queste cose. Mi sfuggisti. Partisti per la Normandia per una settimana, in attesa dell’incarico e io fui impegnato con le mie truppe fuori Parigi. Forse se avessimo potuto confrontarci avrei capito la lampante verità: tu eri adulta ormai e non avevi bisogno di guide e padri dispotici. Eri molto matura, sei sempre stata molto più matura della tua età e non ti facevi illusioni. Eri perfettamente conscia di ciò che avresti dovuto affrontare, ma lo hai fatto lo stesso. Nemmeno io ho mai avuto tanto coraggio.
I se e i ma si sprecano. La realtà è che, nella mia ignoranza, nella mia cecità commisi uno degli errori più grandi della mia vita. Pensai al tuo matrimonio. Sarebbe stata la via di fuga perfetta.
Ti vedevo tornare a Palazzo Jarjayes, la mattina presto, dopo un massacrante turno di notte. Il viso era sempre più pallido e tirato. Rughe di preoccupazione alteravano la tua bellezza innata. Sapevo cosa non andava. Il Generale Bouillè mi aveva informato. I Soldati della Guardia non ti volevano come comandante, Erano arrivati ad esprimere apertamente il loro dissenso, scrivendo una lettera  a Sua Maestà nella quale chiedevano di destituirti dal tuo incarico. Fu allora che il tarlo del dubbio si insinuò nella mia mente.
Si dice che la saggezza sia un frutto maturo. Io ero ormai vecchio abbastanza per capire la grossolanità del mio errore. Nonostante tutti i miei sforzi non ero riuscito a fare di te un uomo e, contemporaneamente, a preservarti dai dolori e dalla durezza della vita militare.
Ho ancora viva in me l’immagine di quel nostro colloquio nel mio studio. L’ultimo mio tentativo di stabilire un contatto con te. Tu esordisti sulla difensiva:
“Anch’io devo parlarvi padre. Vi invito fermamente a non concedere la mia mano al giovane conte di Girodelle perché io, padre, non intendo sposare nessuno!” Quando usavi quel tono non c’era niente che poteva farti cambiare idea, testarda com’eri. Se fossi stato più giovane anch’io mi sarei alterato, ma qualcosa avevo imparato. Con calma ti chiesi di sederti. Non volevo uno scontro, ma un incontro. Vidi allora, forse per la prima volta, cos’eri diventa realmente. Una donna: una donna bellissima che vestiva un uniforme. Gli anni di fatiche, di sofferenze, di dura vita militare non avevano alterato del tutto  la grazia e la delicatezza del tuo viso. C’era eleganza, raffinatezza, nobiltà nei tuoi gesti, nel tuo portamento. Niente di tutto questo era stato cancellato. Anche nella tua voce che ora mi parlava vi erano delle note dolci e morbide, che mai, nessun soldato avrebbe avuto.
Mi dicevi che non era raro che un comandante incontrasse degli ostacoli i primi giorni, che questi ostacoli erano uno stimolo per te e che, in fondo, tutto ciò era più divertente che comandare la Guardia Reale. Non ce la feci più. Dio cosa avevo creato! Avevo fallito perché tutto di te diceva che eri una donna, ma stavi parlando come il migliore dei figli. L’erede che avevo sempre desiderato stava pronunciando le parole che volevo sentire e qualcosa si ruppe dentro. Non mi vergognai di quelle lacrime davanti a te Oscar, perché so che tu le capisti. Ti chiesi perdono, ancora convinto che si potesse rimediare. Tu mi confortasti dicendomi di non disperarmi, che ti avevo permesso di fare cose che non erano alla portata di altre donne e che avresti dovuto ringraziarmi per questo. E poi aggiungesti che l’uniforme che portavi non ti aveva impedito di innamorarti di un uomo. Fui sinceramente stupito. Dunque, amavi. O quanto meno avevi amato: ma sempre in silenzio, perché né io né tua madre ci accorgemmo di nulla. Ti avevo insegnato a reprimere i tuoi sentimenti, le tue emozioni, la tua stessa natura. Come potevo pensare che saresti corsa da me un giorno dicendomi: padre mi sono innamorata! Le tue sorelle lo avevano fatto prima di te, ma tu non eri destinata a questo. Hai amato Oscar, non so chi, ma intuii che fu questo amore infelice ad averti fatto cambiare vita così repentinamente. Era per dimenticare qualcuno, per fuggire da qualcuno che hai deciso di lasciare il servizio di Sua Maestà?
Ma io non ti ascoltavo già più! Replicai che ti avevo impedito di assaporare le gioie che le altre donne provavano, ed era vero. Tutte le parole che dissi allora erano vere. Ormai avevo capito il mio errore: non potevo farti diventare quello che non eri ed era inutile che tu continuassi a farti del male, cercando di dimostrare a te stessa e a me che potevi essere un vero uomo.
Dunque, se non potevi essere uomo (al diavolo la discendenza!) però potevi essere donna. Semplice no? In quel momento volevo solo la tua felicità. Riparare il mio torto e risarcirti con una vita “normale”.
Tu non rispondesti, giocherellando con una rosa bianca. Chi tace acconsente, con te, non ha mai funzionato. Tu tacevi per esprimere il tuo dissenso. Tacevi, ma agivi. Non hai aperto bocca quella sera in camera tua quando ti dissi del ballo in tuo onore. Continuasti a suonare Bach senza proferire verbo. E quando dal mio letto di ferito, ti chiesi di andare al ballo un’ultima volta (te lo chiesi come un ordine, lo so), tu mi degnasti di un “certo”. Ma senza guardarmi negli occhi.
Dio Oscar! Di te non ho mai imparato niente. Il servitore mi riferì che, sì eri andata al ballo, ma in uniforme e per la seconda volta mi crollò il mondo addosso. Perché se prima mi illudevo che ci fosse ancora tempo per riparare, con quel tuo rifiuto, mi dimostravi che ormai era troppo tardi.
Anche l’ultimo mio tentativo di riavvicinarmi a te era fallito.

Ci guardammo per un attimo, senza parlare. Guardammo fuori un tramonto delicato scendere sulla campagna. Tutto si era ammantato di una luce calda e morbida, che smorzava gli spigoli e i contrasti. Una luce radente che indorava il paesaggio. Una leggera brezza scuoteva le chiome degli alberi. Diressi il mio sguardo verso l’interno. Vidi ancora una volta il pianoforte, ma ora con occhi diversi. Mi alzai e mi diressi verso quel povero strumento: il tempo non aveva avuto pietà di lui. Alzai il coperchio e comparve una tastiera ingiallita e polverosa. Alcuni tasti pestavano a vuoto, perché all’interno, parecchie corde e martelletti dovevano essere rotti. Sentii Luc avvicinarsi:
“Questa…doveva essere la sua stanza allora” gli dissi. Lui appoggiò una mano sul pianoforte:
“Questo il suo pianoforte, quelle le sue sedie, il suo tavolo…”
“Beh, magari è stato abitato da altri dopo Oscar no?” Luc non era convinto:
“Altri che comunque, non hanno cambiato l’arredamento. E’ tutto in stile Luigi XVI credimi, me ne intendo.” La madre di Luc era arredatrice ed era una di quelle persone che hanno la fortuna di fare della propria passione un lavoro. Luc, anche se indirettamente, aveva imparato qualcosa da lei e sapeva riconoscere i mobili d’epoca:
“E’ una strana sensazione” dissi:
“Cosa?”
“L’essere qui, nella sua stanza. E’ come se…se qualcosa di lei aleggiasse ancora nell’aria.”
“Già. Non è difficile immaginarsela intenta a suonare o davanti allo specchio a sistemarsi la giubba dell’uniforme.” Restammo a lungo in silenzio. Fuori una cornacchia lanciò il suo urlo. Andai alla finestra per ammirare la tranquillità della campagna al tramonto. Avrei voluto portare un po’ di quella tranquillità via con me, metterla nel mio animo e lasciarla lì. La serenità non è un luogo, ma il meno che si potesse dire di Villa Jarjayes in un tramonto di settembre era questo: sereno.
Una cornacchia, la stessa che prima aveva gracchiato, volò vicino alla finestra e quasi si avventò su di me con le sue ali. Mi scostai appena in tempo per evitarla portandomi di riflesso, una mano davanti al viso. L’uccello volò via e Luc si avvicinò a me:
“Tutto bene?”
“Sì” risposi tenendomi la mano sanguinante: “Ma ho la sensazione che qualcosa di brutto stia per accadere.” Luc mi prese in giro:
“Ma va! Da quando in qua sei superstiziosa!!” Anch’io mi sforzai di scherzare e di riderci su, ma quel presentimento non voleva andarsene.
Ora so, che avevo ragione.
 
 

Fine 3° parte
 

                                                                                                                            Trinity
 

 

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