MEMORIE Lo storico di sinistra Vivarelli confessa in un saggio: fui repubblichino, non me ne pento. E Paolo Mieli sottolinea la caduta di un tabù

SALO’ Così finisce la stagione della reticenza

 

 
Quanti ragazzi del Quarantaquattro, quanti fascisti in calzoni corti corsero ad arruolarsi nell’esercito di Salò! Come mai lo fecero, dal momento che la guerra era perduta? Andarono «a cercar la bella morte», come ricorda il romanzo autobiografico di uno di loro, Carlo Mazzantini. Tentarono di lavare l’onta del tradimento consumato l’8 settembre. Seguirono l’esempio di amici d’infanzia, o compagni di studi. Restarono fedeli all’esempio di un padre, uno zio, un fratello maggiore. Seguirono, semplicemente, l’impulso della giovinezza, che di solito considera la prudenza una vigliaccheria, e il coraggio un obbligo. Sorge qui un interrogativo. Perché i «repubblichini», come spregiativamente vennero battezzati i fascisti di Salò dagli storici ufficiali, scomparvero di colpo dopo la disfatta? Come mai un velo di pudore ha avvolto i giovani, a volte imberbi mussoliniani di allora, scrittori come Giuseppe Berto, future celebrità come Giorgio Albertazzi o Dario Fo, registi come Marco Ferreri, attori come Tognazzi e Mastroianni? E ancora: perché chi scelse Salò in seguito ha quasi sempre taciuto: per pudore, per convenienza, per rifarsi una verginità...
Ma ecco che, più di mezzo secolo dopo, qualcosa finalmente cambia. Per la prima volta un intellettuale, uno storico maturato da decenni nel liberalismo, Roberto Vivarelli, rompe il muro di silenzio e confessa: «Sono stato un fascista repubblicano a 13 anni e non me ne pento». Un ampio articolo di Paolo Mieli su La Stampa di ieri, basandosi sulla lettura in anteprima di un libro dello stesso Vivarelli ( La fine di una stagione , edito dal Mulino) segna un punto di svolta nel dibattito e apre nuove prospettive su Salò. Mieli mette in rilievo la novità di una posizione che rompe la consuetudine delle autocensure e delle riserve, presentando la scelta fascista a fianco dei nazisti come moralmente coerente; che esclude qualsiasi forma di pentimento; che riconosce agli Alleati una funzione ben più importante di quella delle forze partigiane nella liberazione d’Italia; che rende omaggio allo storico Claudio Pavone per avere riconosciuto che nel nostro Paese si è combattuta anche una «guerra civile».
Altri interrogativi, tuttavia, sono impliciti nel libro di Vivarelli e nell’analisi di Mieli. E’ giusto, ad esempio, vantarsi di aver scelto politicamente e militarmente la dittatura nazifascista? Ha ragione Vivarelli quando mette i combattenti delle due parti, saloini e partigiani, su un piano moralmente più elevato degli attendisti e degli agnostici? I vincitori hanno davvero costruito la mitologia della Resistenza a loro vantaggio, sfruttandola per imporsi come classe dirigente? E soprattutto: i veri, riprovevoli voltagabbana non sono stati proprio i fascisti che hanno cambiato bandiera nel ’43, facendo ricadere in una sorta di lavacro tutte le colpe sui giovani che a Salò scelsero in buona fede la parte soccombente, e sbagliata?
Lo storico Arrigo Petacco, che da ragazzo del ’44 scelse l’altra parte, e si ritrovò partigiano in Lunigiana a ridosso della linea gotica, apprezza la testimonianza di Vivarelli. «Quelli come lui certo sbagliarono, ma non sapevano niente dei campi di sterminio, e si comportarono dignitosamente. Ci furono anche episodi di eroismo fra loro, basti pensare ai ragazzi delle Fiamme Bianche: continuarono a battersi fino all’ultimo. Sono d’accordo con Vivarelli anche quando dice che allora era meglio impegnarsi, piuttosto che restare alla finestra e comportarsi da opportunisti. Il guaio è che, a guerra conclusa, i vincitori perseguitarono i vinti, salvo quelli che scelsero la tessera del Pci. I voltagabbana avevano abbandonato Mussolini già prima, nel ’43».
Benché su posizioni assai diverse da Petacco, lo storico Nicola Tranfaglia è pronto a riconoscere la buona fede di tanti combattenti a Salò. Quel che non lo convince, nelle tesi di Vivarelli, è però la mancanza di pentimento: «Altri repubblichini hanno rivisto le loro posizioni, come quel Piero Sebastiani che ha riconosciuto di essere stato ingannato fino a quando non vide i filmati sui campi di concentramento». Dove concorda in pieno con Vivarelli è nel giudizio sugli attendisti della «zona grigia», quelli che non si schierarono né pro né contro Mussolini: «Possono essere capiti, non certo santificati. Perché i migliori cittadini sono sempre quelli attivi, che si mettono in gioco».
Quanto ai voltagabbana, Tranfaglia ammette che molti di loro hanno fatto carriera: «Ma la classe politica del dopoguerra non può essere considerata tutta opportunista, ci furono anche i sinceri e coerenti antifascisti. Piuttosto, durante gli anni dell’appoggio di massa al regime, è giusto distinguere tra i fascisti per convinzione e quelli per convenienza. Io, francamente, do un giudizio maggiormente positivo sui primi». Tesi non condivise da Giovanni Sabbatucci, storico della scuola di De Felice: «Una cosa è la giusta e salutare esigenza di sincerità manifestata da Vivarelli; un’altra, l’idea di ridurre la storia a una contrapposizione fra chi si dimostrò moralmente coerente e chi invece non lo fu: esiste un’etica della convinzione, ma anche una della responsabilità, ed è giusto chiedersi che cosa sarebbe successo se avessero vinto i nazisti. Non basta dichiararsi coerenti con i propri ideali, perché viene pure il momento dei giudizi storici e politici».
E la «zona grigia» degli attendisti? Condannarla non significa, in fondo, riproporre i meriti dell’attivismo e dell’ideologia contro i borghesi «pantofolai»? Sabbatucci è pronto e riconoscere che anche nel campo degli attendisti c’erano dei valori, mentre lo storico Aurelio Lepre esclude che «il coraggio debba essere considerato un obbligo». E poi «chi era contro la guerra finiva per essere già contro il fascismo e il nazismo». Un altro ragazzo del Quarantaquattro, Carlo Mazzantini, apprezza la confessione di Vivarelli ma si rammarica che non sia avvenuta prima, quando «certi giudizi storici potevano essere ancora modificati». Aggiunge: «Se oggi mi venisse riproposta la scelta, alla luce di tutto ciò che ho imparato, sceglierei quello che scelse la maggioranza degli italiani, e fu sintetizzata da una scritta apparsa a Roma, sui muri di Trastevere: Non volemo né tedeschi né americani, fatece piagne da soli ».
Fuori tempo massimo, allora, questa confessione? «Non l’ho fatta prima un po’ per mancanza di tempo, un po’ per discrezione», confessa Vivarelli. Aggiunge: «L’unica volta che ne ho scritto su una rivista, mi ferì una definizione : "anime morte". Non, non lo erano affatto tanti miei compagni. E se oggi condanno storicamente il fascismo, sul piano morale il mio giudizio è diverso».



Lunedì 6 Novembre 2000