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Battere Bin Laden. L'Islam può farlo

di Franco Cardini

«La redimibilità dei siciliani dalla mafia, diceva Indro Montanelli, non è cosa nostra, ma cosa loro. Così la vera vittoria dell'Islam sul più pericoloso dei suoi nemici, il terrorismo in nome di Allah, non è cosa nostra ma è cosa loro: è cosa dell'Islam»: questo il parere di Francesco Merlo su «Il Corriere della sera» del 17 scorso, dove si proseguiva argomentando che spetta ai musulmani e solo a loro smascherare i fiancheggiatori e i simpatizzanti del terrorismo che nelle loro file insinuano gli ipocriti sofismi sulla presunta innocenza di Bin Laden, sulle non meno presunte colpe di Bush e degli americani e così via. Ho meditato a lungo su queste ormai vecchie righe (gli articoli di quotidiano invecchiano presto). Credo però che, in questo specifico caso, sia giusto il tornarvi oggi, a qualche giorno di distanza: perché a mio avviso l'argomentare di Merlo va esattamente rovesciato.

Il contagio

Confronti con la mafia a parte, la vittoria dei musulmani contro la minaccia nata nel seno della loro fede, ma che rischia di minarla dall'interno distorcendone il senso religioso in un messaggio ideologico-politico, è anche cosa nostra. Per due ragioni: primo, perché se il contagio terroristico si espande — attraverso i suoi vettori privilegiati, i gruppi e gli ambienti fondamentalisti — saremo noi, e non solo il mondo islamico, a esserne travolti; secondo, perché i musulmani non potranno mai liberarsene se noi non ci decidiamo ad aiutarli. O, per esser più chiari: se noi non ci decidiamo a prestar loro una buona volta seriamente attenzione, ad accordar loro credito, a discutere con loro, ad accordare rilievo alle loro argomentazioni. Se non smettiamo di dire che, mentre l'Islam fondamentalista ed estremista parla anzi grida di continuo, quello ragionevole e disposto al confronto tace o sussurra.

Chi fa notizia

Il punto non è affatto che l'Islam che siamo abituati — con inadeguata espressione — a definir «moderato» non ha voce: il punto è che manca di altoparlanti che ci consentano di udirla. Noialtri — qualcuno per partito preso, qualcun altro per disinformazione e ingenuità — siamo sempre pronti a dare il massimo rilievo alle dichiarazioni di personaggi come l'imam di Torino Bouriki Bouchta, che solo benevolmente ed eufemisticamente potremmo definire massimaliste: ma distogliamo subito l'attenzione da quei rappresentanti dell'Islam che parlano un linguaggio accettabile e che della loro fede ci forniscono un'immagine meno allarmante. E' sottinteso che non prestiamo loro fede: li crediamo insinceri, li riteniamo affetti da una forma cronica di nicodemismo tattico. O, più semplicemente, pensiamo che il musulmano accomodante «non fa notizia», mentre quello che minaccia di convertirci o di sgozzarci tutti è uno scoop e fa audience. Che, poi, sarebbe come intervistare qualche rappresentante di un gruppo di sedevacantisti per farci spiegare che cosa sia la Chiesa cattolica; o come farci dottamente illuminare da alcuni leoncavallini sulle prospettive della sinistra europea.

Muro di silenzio

Esistono in Italia centinaia di centri e di sodalizi islamici. Chi si è mai preso la briga di avvicinarli sistematicamente, a parte forse — manon è detto... — i nostri servizi speciali? Sul piccolo schermo del quale quasi tutte le case sono dotate, si è avvicendato in queste settimane un mirabolante campionario di veri o presunti esperti, compresi alcuni nani e parecchie ballerine. Come mai non abbiamo mai avuto il sollievo di poterci confrontare con un islamista autentico? Eppure ce ne sono, nelle nostre università, e di validissimi. Abbiamo fra noi uomini di cultura convertiti all'Islam e attivi nelle varie comunità; ma qualche volta abbiamo chiesto qualcosa di più di un parere fugace a un Mario Scialoja o a un Giulio Soravia.

Da anni la più prestigiosa università coranica del mondo, quella di al-Azhar al Cairo, sta lavorando con tutte le sue forze attorno a un progetto che si propone di approfondire e divulgare la conoscenza del fatto che qualunque tipo di terrorismo è incompatibile con la morale coranica. Non mi risulta che qualcosa di questo benemerito lavoro sia stato mai accolto e divulgato dai solerti osservatori occidentali. Possediamo sul mondo musulmano attuale libri autorevoli importanti, scritti da studiosi seri come Biancamaria Scarcia Amoretti, Sergio Noja, Paolo Branca, Giorgio Vercellin, Gilles Kepel e tanti altri: com'è che quasi nessuno li cita o mostra comunque di conoscerne il contenuto? Da quali fonti che non siano il chiacchiericcio, il sentito dire, l'imparaticcio-riciclato nasce la valanga di chiacchiere giornalistiche televisive che ci sta inondando?

Le frustrazioni

Questa triste verità produce tristissimi effetti. A metà ottobre si è tenuto a Roma, organizzato dalla comunità di Sant'Egidio, un incontro cristiano-musulmano ricco di autorevoli teologi provenienti dai Paesi dell'Islam e animati da una seria volontà di dialogo. Ebbene: a parte le ovvie difficoltà linguistiche era lampante, in tutti loro, il disagio e la mancanza di esperienza di come comunicare a studiosi e a giornalisti occidentali il loro pensiero. E' vero che l'Islam per lungo tempo ha creduto di poter fare a meno di dialogare con i non-musulmani: anche se ciò accadeva per lo schizofrenico risultato della compresenza, al suo interno, di un complesso di superiorità e di una frustrazione profonda. Ma è anche vero che questo dialogo fino ad oggi solo molto di rado è stato seriamente ricercato e sollecitato da parte nostra. I musulmani disposti al dialogo sono, a nostro sistematico avviso, sempre e soltanto dei furbastri, degli ipocriti; nel migliore dei casi degli isolati. Eppure, anche se così davvero fosse — e non mi risulta affatto — basterebbe valorizzare i pareri di alcuni di loro per farne degli opinion makers e modificare un equilibrio che dipende largamente dai mass media.

Tutti cattivi?

Immediatamente dopo la tragedia dell'11 settembre, alcuni commentatori hanno tentato di farci credere che quello fosse il vero volto dell'Islam. Che cioè, in altri termini, tutti i musulmani sono in quanto tali almeno potenzialmente dei fondamentalisti; e che tutti i fondamentalisti sono almeno potenzialmente dei simpatizzanti, o seguaci, o fiancheggiatori dei erroristi; e che tutti i simpatizzanti, seguaci e fiancheggiatori sono almeno potenzialmente dei terroristi essi stessi. Che, poi, era la traduzione letterale, anzi pedissequa, della famosa equazione del presidente Bush: il sinistro «non faremo differenza» tra terroristi e supposti tali (perché è ormai chiaro, a quasi un mese dall'inizio delle operazioni militari, che chi siano, quanti siano e dove stiano i terroristi non lo sanno neanche loro), e loro complici o fiancheggiatori. E che poi è esattamente quel che vuole Bin Laden, sia o no lui (le definitive prove al riguardo, che pur dicono di avere, non ce le hanno mai esibite) il mandante dell'attentato dell'11 settembre: lo sceicco vuole che la reazione statunitense e occidentale sia il più possibile indiscriminata, che provochi il numero più alto possibile di vittime innocenti: in modo da determinare nel mondo islamico un corale movimento d'indignazione che procuri al terrorismo e alla sua ideologia quel che egli vuole, una base di massa.
E' invece giusto sotto il profilo morale, opportuno sotto quello strategico, muoversi nella direzione esattamente opposta: mettere in campo tutti i distinguo possibili, attivare tutte le distinzioni necessarie.

Tante anime

Dimostrare a tutti, a cominciare dai musulmani stessi, la sacrosanta verità: che cioè l'Islam è pluralistico e straordinariamente articolato al suo interno; che non esiste in esso nulla di unitario e condiviso che non sia (e, intendiamoci, è l'essenziale) il sentimento della comune appartenenza all'umma, alla comunità dei fedeli, che impropriamente qualcuno — memore forse del nome del movimento americano della Nation of Islam — traduce come «Nazione islamica»; che quanto in questi giorni sta accadendo nei Paesi musulmani non è un tumultuoso teatrino propagandistico, bensì la prova evidente che il terrorismo e il fondamentalismo, i quali non sono per niente la stessa cosa, possono essere isolati e se ne può impedire la crescita.
Ma troppi sono invece quelli che hanno sfoderato il «chi non è con noi è contro di noi» di evangelica (ma anche di mussoliniana) memoria; essi sostengono che le distinzioni sono ipocrite, disfattiste, in ultima analisi filoterroristiche.

Caccia alle streghe

Una vecchia storia. Anche fra Cinque e Seicento i fautori della realtà dei poteri sovrannaturali delle streghe sostenevano che i loro antagonisti, che saggiamente la negavano, agivano così in quanto a loro volta seguaci del demonio. Mi preoccupa, e un po' anche — lo confesso — mi nausea constatare come all'alba del XXI secolo il mondo della politica e dell'informazione sia tanto pieno di nipotini del reverendo pastore Cotton Mather (quello dei processi di Salem) e del senatore Mac Carthy.

La Nazione, 29 ottobre 2001