da "L'Espresso"

DILEMMI SCOLASTICI / È DAVVERO UTILE IL RITORNO AL SETTE IN CONDOTTA?
Guerra di classe
Da una parte chi invoca maggiore severità. Dall’altra ragazzi sempre meno attratti dagli studi. Risultato: un’istruzione che non soddisfa professori e alunni. Tantomeno le famiglie. Ecco perché
di Enrico Arosio

Mario Pirani non è famoso come i Lunapop, al liceo scientifico Guglielmo Marconi di via dei Giacinti, al Lorenteggio, periferia ovest di Milano. Della terza E, un gruppazzo di adolescenti tra i 16 e i 17 anni (piercing: zero; capelli colorati: pochi; kefiah: un paio), non ce n’è uno che abbia letto il suo articolo in prima pagina su “la Repubblica” del 21 gennaio, “Professori, tornate al sette in condotta”. Eppure l’intervento ha fatto rumore, rilanciando (da sinistra) il principio d’autorità in una scuola descritta come una deriva di anarchia, disinteresse, maleducazione e violenza. Il Marconi è un buon termometro: ambiente misto, piccola e media borghesia, pochi figli di professionisti. «Anche a noi», premette la preside Loredana Cerutti, «capita di confrontarci con atteggiamenti oltraggiosi e provocatori. Di dover ritirare i cellulari e avvertire i genitori. Di affrontare il fenomeno dei ritardi studiati per evitare le interrogazioni. Abbiamo proposto dei “contratti pedagogici”, accordandoci su obiettivi di comportamento condivisi. E i ragazzi li hanno sottoscritti».
E dunque: è colpa loro, se la scuola italiana è ridotta a un accampamento della Beozia? O lo è degli insegnanti, privi di autorevolezza e di passione? La risposta più secca la dà Sara, 17 anni: «Noi reagiamo all’atteggiamento dei professori. Sono loro, i prof, a venire a scuola senza averne voglia. Non fanno volentieri il loro lavoro, e si sente». Micaela: «Oltre a spiegare la loro materia, a volte neppure quella, ti danno solo pagine da studiare. Non cercano di creare nessun rapporto personale». Selena: «C’è una vera e propria ostilità nei nostri confronti». Roberto: «È questo stress pazzesco che ti porta ad avere un atteggiamento di rifiuto». Ancora Micaela: «Sacrificarsi non porta risultati sicuri. Dipende tutto dalla luna dei prof». Ma è Federica, 16 anni, a rilanciare il tema: «L’autorità? Beh, l’autorità ci vuole. Qualcuno che ti controlla e che tu rispetti. Ma secondo me bisogna controllare anche i professori. Come si controllano i dipendenti delle aziende».
Lo si osserva da tempo: i ragazzini a scuola fanno cose nuove e strane. Portano il cellulare in classe, non leggono più romanzi, hanno noia della storia e ribrezzo della politica. Danno del tu all’insegnante di 60 anni, parlano volgare, si stravaccano tra i banchi con l’anello al naso, si spinellano in bagno nell’indifferenza generale. Ed è la stessa generazione che, nella fascia tra i 15 e i 17 anni (Quinto Rapporto Iard, 2000) «utilizza con regolarità i new media» in percentuali stupefacenti: il 65,5 per cento il cellulare, il 56,7 i messaggi Sms, il 38 i cd-rom, il 17,5 Internet. Non è facile leggere, dalla prospettiva adulta, questa compresenza di regressione ed esplorazione, di tribalismo e tecnologia. Forse ci si può avvicinare solo per metafore, come fa lo scrittore-insegnante Marco Lodoli quando risponde a Pirani. I ragazzi, scrive, «non vogliono restare buoni e fermi come otri da riempire, hanno bisogno di accendere nella loro coscienza uno scontro tra le forze in campo: da un lato i messaggi violenti di una società improntata ai miti della facilità e del successo, della fretta e del cinismo; dall’altro il senso innato della giustizia, della bellezza, della ricerca». Davanti a ciò, dice Lodoli, il sette in condotta non ha più alcun senso.
Un momento, obietta il lingui-sta Raffaele Simone, autore di taglienti pamphlet sul sistema educativo: «I ragazzi delle nostre scuole sono spesso “cattivi e volgari”, come indica con formula brusca l’ultima indagine Eurispes. Volgari perché mancano di rispetto agli anziani, alle istituzioni, alle regole di comportamento, dal telefonino in classe allo zaino strafottente che contiene più gadget che libri. Cattivi perché dilaniati dal desiderio di consumare più che di imparare, di farsi vedere più che di crescere». Simone si schiera con Pirani: «Credo che abbia ragione nel segnalare che qualcosa si è rotto, nel “pactum” che legava le generazioni giovani a quelle adulte. Una frattura favorita dal consumismo, dalla globalizzazione. La scuola appare ai ragazzi come un castello polveroso dove si officiano rituali incomprensibili. Non basterà il ritorno al voto in condotta. Ma la gravità dello strappo non può neanche essere ridotta a problema tecnico, come mi pare tendano a fare i ministri della Pubblica istruzione. Ormai è l’emergenza».
Proviamo a invertire il punto di vista. Esaminiamo l’insegnante medio. La sua percezione di sé, la disponibilità all’ascolto, la competenza iniziale, la voglia di aggiornarsi. Sulla sociologia dell’insegnante in crisi sono stati prodotti libri (“Di scuola si muore” di Giovanni Pacchiano) e film significativi (“La scuola” di Daniele Luchetti). Il mestiere dell’insegnante, dagli anni Settanta, ha perso ruolo sociale, prestigio culturale e appetibilità economica, malgrado cinque anni di centro-sinistra, una riforma non priva di ambizioni, l’apporto politico e culturale di Romano Prodi e Luigi Berlinguer. Come dice la Sara del Lorenteggio: «Non fanno volentieri il loro lavoro, e si sente».
Quando in un film l’insegnante è ridotto a macchietta, vuol dire che il declassamento è ufficiale: ce lo ricorda la vergogna di Carlo Verdone in “Compagni di scuola”, rivisto l’altra sera su Italia 1, nel rivelarsi prof di latino in un liceo privato sulla Cassia tra gli ululati sarcastici degli amici arricchiti. Qualcosa davvero si è rotto, e i ragazzi lo sanno. Riassume con durezza Giovanni Pacchiano, che prima di farsi critico e scrittore ha lavorato 16 anni da insegnante e 12 da preside a Milano: «Nella scuola sono rimaste signore volonterose che integrano lo stipendio del marito, una compagnia variopinta e di-sgregata con qualche punta di qualità. Tra i docenti maschi, invece, solo i mediocri e i rassegnati. Quelli che non hanno trovato altro, magari per mancanza di occasioni, perché l’università e l’editoria sono ambienti chiusi e corporativi».
Comunque sia, è l’identikit del frustrato, come direbbe Claire Brétecher, la perfida disegnatrice francese. Travolti da doveri burocratici, ansiosi di arrotondare con attività extra, gli insegnanti si aggiornano poco, e gli aggiornatori sono quel che sono («A Madrid ho visitato il Museo del Prago», si compiacque con Pacchiano un preside, formatore di formatori). Scompaiono, inoltre, le rare figure carismatiche: «Il mio insegnante al liceo Manzoni Attilio Polvara, oggi novantaduenne», riprende Pacchiano, «era un uomo di fascino, uno studioso di Dante e del Poliziano che a tempo perso giocava in Borsa. Questa sua passione extrascolastica arricchiva il rapporto con noi allievi. Ci dava un doppio imprinting, ci ricordava che c’era una vita, fuori. Al confronto, i professori di oggi sono dei travet, dei passacarte privi di appeal. Gli studenti colgono tutto, sono implacabili. E fanno sbarramento».
Che sia lui Oblomov, l’insegnante italiano medio? (La metafora del grande apatico è stata riproposta da Gian Maria Fara nel presentare l’ultimo rapporto Eurispes). Ma non è solo l’apatia, l’inadeguatezza. Ciò che manca è la fiducia. Lo sottolineano i più vari indicatori di ricerca sociale. Tra le diverse istituzioni, la fiducia negli insegnanti (“molta o abbastanza”) sfiorava il 70 per cento nel 1983, si era ridotta al 63,1 nel 1992, ed è scesa ancora al 58,1 nel 2000 (Rapporto Iard, fascia 15-24 anni).
«È la prima domanda che l’insegnante oggi deve porsi: Io sono degno di fiducia?», interviene il filosofo Salvatore Veca: «Il professore è vissuto come autorevole quando è riconosciuto come un attrattore di fiducia. I giovani sono persone in fioritura, in divenire. Disponibili ma fragili. Si fidano, e si affidano, se possono in parte identificarsi. Io li misuro tutti gli anni, i ragazzi appena usciti dalla scuola. Sono più disorientati di una volta, più vulnerabili, e desiderosi di essere guidati». Il sette in condotta? «Inutile. Una volta per un sette provavi vergogna. Funzionava. Ma oggi non c’è più una cultura della sanzione condivisa».
Dalla parte degli studenti si schiera anche la psicologa Silvia Vegetti Finzi, autrice con Anna Maria Battistin di “L’età incerta. I nuovi adolescenti” (Mondadori): «I ragazzini soffrono perché hanno modelli deboli. Non solo a scuola, ma in famiglia. È una generazione di navigatori a vista. A casa hanno padri vacanti o dimissionari. Il tutto si riflette sulla scuola, perché se anche nell’insegnante sostituisci il padre con l’amico non vai da nessuna parte. I ragazzi, in ogni caso, non li catturi con la paura. Devi farteli alleati, partecipare alla loro ricerca, sforzarti di cogliere i loro elementi di creatività».
Gli ultimi eroi, gli insegnanti che ancora ci credono, procedono ognun per sé e Dio per tutti. Cosa non si fa per riconquistare la voglia e l’attenzione? Ci si avvicina ai codici dell’entertainment, o dell’economia. Ecco alcune strategie di riconquista andate a buon fine, raccolte in giro per l’Italia.
Umberto Sessa insegna matematica all’istituto tecnico Ceccherelli di Roma: «Faccio capire ai ragazzi che il mio è un corso d’attualità, indispensabile per risolvere problemi quotidiani. Parlo di prestiti, investimenti, quotazioni. Loro si sentono degli esperti finanziari, capiscono che è qualcosa che prepara al lavoro». Maria Pia De Bellis è docente di latino e greco al liceo Margherita di Bari: «Il latino si può insegnare anche prendendo spunto da Forattini. Partendo dalle vignette satiriche dei quotidiani ho trovato una chiave per affrontare il rapporto tra l’individuo e il potere nel mondo antico». Marina Sambiagio è docente di storia e filosofia al liceo Giulio Cesare di Roma: «Da anni utilizzo i film come strumento didattico. Non solo per memorizzare i fatti storici, ma come arte in sé, come lettura dell’esistenza, per aprire una discussione filosofica. Al cinema sto ora affiancando un vero e proprio laboratorio di filosofia». Licia Olini insegna italiano allo scientifico Messedaglia di Verona: «Cerco di praticare il metodo socratico della maieutica. Più che riversare il sapere frontalmente, interrogo sollevando dubbi, domande, problemi. Spesso inizio una lezione facendola completare ai ragazzi, e così scopro le loro inclinazioni, quello che amano davvero». Stefania Bussolari, prof di storia al Pestalozzi di Torvaianica, sulla costa laziale, ci prova così: «Lavoro in una sede disagiata. Per sedare l’aggressività latente, due volte la settimana faccio un laboratorio di respirazione yoga. Dopo essersi rilassati, i ragazzi urlano a volontà, e rientrano in classe calmi. Nell’era del “Grande Fratello”, poi, ho imparato a insegnare guardando la storia dal buco della serratura. Spiego l’Egitto partendo dalle tecniche di imbalsamazione, parlando del cervello che si asporta dal naso. Oppure introduco Carlo V raccontando Giovanna la Pazza che vagava col cadavere del marito...».
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hanno collaborato Antonella Fiori
e Chiara Longo Bifano

(08.02.2001)