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SWIF RASSEGNA STAMPA |
il manifesto 30 LUGLIO 2002 |
Io
penso, dunque sono connesso La
tentazione omologante della globalizzazione e le chance di libertà
nella comunicazione in rete. Parla Derrick de Kerckhove, direttore del
McLuhan Program/"Nel web il singolo ha la duplice possibilità di
fare parte di un gruppo senza perdere la sua identità e di avere
un'identità senza perdere il senso del gruppo" Personaggio
poliedrico e saggista prolifico, Derrick de Kerckhove
si occupa prevalentemente di comunicazione, del suo significato sociale,
e dei condizionamenti della tecnologia nel linguaggio. Allievo di
Marshall McLuhan, è docente nell'università di Toronto, anche se il
suo nome è legato al McLuhan Program, progetto che dirige da quasi un
ventennio. In Italia è conosciuto per i suoi libri su Internet, da
"Brainframes" (Baskerville) a "La civilizzazione
video-cristiana" (Feltrinelli). Tuttavia, negli ultimi dieci anni i
suoi studi hanno cercato di indagare come i "nuovi media"
hanno influito nei processi di apprendimento, nella produzione culturale
- a questo proposito, rimane una lettura propedeutica il volume "La
pelle della cultura" (Costa&Nolan) - e su quella che lui stesso
definisce "intelligenza connettiva", a cui ha dedicato anche
il suo ultimi due libri, "Connected Intelligence" (Sommerville).
In Italia per partecipare all'incontro "Mondo cablato, mercato
globalizzato ma giustizia sociale in aspettativa: una sfida
asimmetrica?", che si è tenuto lo scorso fine settimana a Gemona
in Friuli, non si sottrae alle domande, anche se hanno l'andamento
"discreto" di una serie di zero e uno di un messaggio lanciato
nel cyberspazio. Per De Kerckhove, infatti, Internet consente sempre una
"negoziazione" tra i naviganti del world wide web e
rappresenta una straordinaria chance di libertà di espressione, anche
se la realtà con cui fare i conti è quella della globalizzazione
economica e delle diseguaglianze che si porta dietro. La
globalizzazione sembra una tendenza inarrestabile, ma niente affatto
lineare. Ad esempio, nonostante tutta la retorica che ha accompagnato
questo inizio millennio su un mondo finalmente pacificato dopo le grandi
contrapposizioni ideologiche, la guerra è tornata sulla scena come
strumento di regolazione delle controversie internazionali. Tuttavia,
penso ai Balcani o all'Afghanistan, sembra più una "operazione di
polizia" che rimette in riga i riottosi dell'ordine mondiale che
non una guerra tradizionale, intesa come conflitto tra stati sovrani.
Lei che ne pensa? E'
vero. Ricordo una volta di aver sentito dire al politologo e sociologo
francese Alain Touraine
che, dal momento in cui il voto in Florida ha deciso l'elezione di Bush,
siamo entrati in un mondo governato dalla violenza e dall'opzione
militare. Concordo con lui. Va detto però che in passato le operazioni
di polizia internazionale della Cia erano molto più "forti".
La res publica era un'invenzione romana presa dai greci per indicare uno
spazio comune dove genti e popoli diversi governati tuttavia da un unico
paese discutevano della "cosa pubblica", cioè del loro
destino. Ecco, penso che avremmo bisogno non tanto di una polizia
internazionale quanto di un uno spazio pubblico comune. Inoltre,
globalizzazione vuol dire anche superamento dell'idea di confine
naturale (geografico) tra gli stati. Questa assenza del limite
geografico fa sì che la discussione pubblica passi dal nazionalismo al
continentalismo senza soluzione di continuità. Il nazionalismo
rimpiange quel confine, mentre il "continentalismo" - basti
pensare all'Europa o anche agli Stati uniti - consente di cogliere una
vera novità rispetto al passato, indica cioè il passaggio ad un'altra
dimensione in cui politiche e economie nazionali diverse si mescolano
tra loro. Globalizzazzione
ha significato l'aumento delle diseguaglianze sociali. Tra chi la
contesta c'è chi non chiede un ritorno al passato, ma una
globalizzazione dei diritti. Come valuta il movimento
antiglobalizzazione? Non
sono d'accordo con tutte le sue posizioni, ma sono d'accordo con l'idea
stessa della sua necessità dal momento che mi sembra indispensabile
l'esistenza di un punto di vista altro sull'ordine economico mondiale.
Spero che questo punto di vista contribuirà alla formazione di un senso
etico più forte, di una responsabilità maggiore e spingerà verso una
maggiore trasparenza all'interno delle grandi multinazionali. Oggi
questo è quanto mai indispensabile. Del resto, il concetto stesso di
sovranità nazionale non può più essere inteso nel senso tradizionale
del termine, dal momento che ben 52 grandi imprese mondiali hanno un
fatturato che è superiore al prodotto interno lordo di alcuni stati
nazionali. Molti
studiosi spiegano la globalizzazione come un salto di qualità
nell'interconnessione tra paesi, culture e economie. Mi sembra che sia
una concezione che ha molte affinità con ciò che lei definisce
"intelligenza connettiva". Può spiegare cosa intende lei per
intelligenza connettiva? L'intelligenza
connettiva è un termine che uso per indicare l'impatto odierno di
Internet sul pensiero umano. Allo stesso tempo, è un concetto che ha
radici antiche, pre-verbali, addirittura applicabile al regno animale,
solo che non era riconoscibile come tale. Questo per dire che le nuove
tecnologie, tutte le nuove tecnologie ci danno semplicemente gli
strumenti per analizzare questa condizione dell'essere umano. Siamo
abituati a ritenere che il pensiero appartenga a una dimensione privata,
e questo è il frutto di quel tipo di comunicazione specifico che è la
lettura. Inoltre, il pensiero è considerato come il risultato di un
qualcosa di "interiore", mentre il prendere la parola è
immaginato come un atto individuale. Ma anche il dialogo fa parte del
pensiero. Per questo ritengo che il pensiero sia un "linguaggio
silenzioso", ma che la parola sia una forma di pensiero connettivo.
L'intelligenza connettiva trova un suo naturale ambito nella connessione
web, nella quale però il singolo ha la duplice possibilità di far
parte di un gruppo senza perdere la sua identità e di avere un'identità
senza perdere il senso del gruppo. Vorrei
però precisare che l'intelligenza connettiva è differente
dall'intelligenza collettiva di cui si scrive quando si affronta la
comunicazione elettronica. In questo caso, l'intelligenza collettiva è
legata a universi a senso unico in cui l'individuo si perde. L'individuo
si perde, infatti, nel discorso televisivo, nel discorso radiofonico,
esattamente come si perdeva nel discorso orale comunitario.
L'intelligenza connettiva riguarda invece la possibilità di condividere
il pensiero, l'intenzione e i progetti espressi da altri. Il
caleidoscopio delle identità, dei modi di essere, degli stili di vita
trova in Internet il suo luogo privilegiato. Senza il web sarebbe
difficile parlare di globalizzazione, perché verrebbe meno una potente,
cioè convincente esemplificazione. Ma proprio la rete sembra smentire
gli studiosi che affermano che globalizzazione è sinonimo di omogeneità.
Lei che ne pensa? Non
sono d'accordo con questa interpretazione perché da Internet non emerge
una identità collettiva. Ogni persona che naviga su Internet ha un
indirizzo specifico e trova un suo modo di negoziare il senso di propri
e altrui comportamenti con altre persone. E' vero invece che senza il
web sarebbe difficile parlare di globalizzazione, perché la
globalizzazione non dipende solo dal fatto che il discorso sia globale
ma anche dalla possibilità di rispondere e di comunicare con il resto
del mondo. Uno degli aspetti della globalizzazione è che non si fonda
su un discorso a senso unico, ma sull'interattività. E' vero quindi che
proprio la rete smentisce gli studiosi che sostengono che il world wide
web è sinonimo di omogeneità. Un pericolo vero di globalizzazione
omologatrice derivava dalla televisione o dai prodotti commerciali
sostenuti dal mercato televisivo, come quelli prodotti da Ford, Ibm,
McDonald's. Tutto il mondo del "logo" è infatti un mondo
omologato. Non che questo sia un male in sé: è infatti una cosa
importantissima avere dei riferimenti comuni, persino dei marchi che
diano alla realtà mondiale gli stessi punti di riferimento al di là
delle lingue, culture e condizioni geografiche diverse. Io penso che la
grandezza della cultura americana, guardata con sospetto in Europa, sia
stata l'aver dato la possibilità di creare un gruppo di riferimenti
comuni. Però è anche vero che se fosse l'unico sistema esistente
sarebbe un sistema molto negativo. Il
medium è il messaggio, affermava McLuhan. E Internet che messaggio
lancia? Internet
è il medium di convergenza, vuol dire che è il medium per eccellenza
fra tutti i media supportati dall'elettricità. Ho sempre sostenuto che
la storia del linguaggio umano possa essere divisa in tre grandi epoche.
L'epoca dell'oralità, che potremmo definire "primitiva". C'è
stata poi la scrittura, che ha consentito un controllo individuale sul
linguaggio. Ora siamo nell'epoca dell'elettricità, che permette un
doppio controllo: individuale e, attraverso l'accesso al linguaggio di
gruppo consentito dai media, anche collettivo. E' importantissimo capire
che questi tre periodi hanno ciascuno un loro tipo di organizzazione
mentale, di organizzazione sociale. Ciò vuol dire che oggi, grazie ad
Internet, c'è una forma di libertà nuova. Il messaggio specifico di
Internet è la connettività, come anche l'interattività, come anche l'ipertestualità,
che dà la possibilità di andare da un punto ad un altro o di scegliere
diverse cose. La
caratteristica più rilevante dei nuovi media è però la priorità
dell'immagine rispetto alla parola. Un elemento che lei ha messo spesso
in rilievo nei suoi studi. Accanto a questo lei sostiene che la
preminenza dell'immagine sulla parola ha un qualche cosa di religioso.
Anche la tecnologia e la retorica dello sviluppo economico ad ogni costo
ha un qualche cosa di religioso. Non è d'accordo? A
proposito di questo io parlo di ritorno del logos in forma elettronica.
Il logos è associato al concetto di creazione: tutti i miti cosmogonici
si basano sul potere creatore della parola: la divinità crea attraverso
il logos. Il dio africano Faro, per esempio, crea attraverso la sua
bocca: la sua parola è una forma di tessitura della realtà. Molti
studiosi, fra cui Jacques Derrida,
hanno messo in rilievo come nella classicità greca il logos svolgesse
un ruolo fondamentale nell'organizzazione della realtà: il logos era
magico. Con l'avvento della scrittura alfabetica però - come ha
spiegato molto bene Marshall McLuhan
- si determina una frammentazione del linguaggio. Le nove muse
ispiratrici delle diverse arti incarnano proprio questa frammentazione
del logos. Infatti, c'è la danza, la poesia, la musica: tutte forme
artistiche che, partendo da un processo di astrazione, cercano, ognuna a
loro modo, di fare i conti con questa frammentazione del logos. Con
l'interattività, la virtualità e la connettività della rete avviene
una ricostruzione elettronica del logos, perché l'elettricità ha
provocato una inversione di marcia rispetto agli effetti prodotti
dall'invenzione dell'alfabeto. E' stato come riavvolgere un nastro. In
questo senso io parlo di "ologeneità" e non omogeneità.
Ologeneità nel senso dell'unità del tutto, dell'insieme, invece della
frammentarietà del passato. Non
ricordo di aver parlato di una connotazione religiosa a proposito della
preminenza dell'immagine sulla parola. Certamente il logos classico era
"religioso", ma nel senso di "creativo",
"magico", "mistico", "gnostico". Non
sono d'accordo sul dare una connotazione religiosa alla tecnologia e
alla retorica dello sviluppo: la tecnologia non è più o meno religiosa
di altre componenti, non è una qualifica che le si addice
specificamente. Anzi, l'invenzione della stampa, per esempio, ha
provocato la rovina dell'unità dei cristiani. Ha creato, con la lettura
"individuale" della Bibbia, il protestantesimo e tutte le sue
ulteriori derivazioni. Possiamo
ipotizzare per il futuro che le nuove tecnologia elettroniche possano
portare a una illusione di "de-secolarizzazione" e quindi a
nuove forme di religiosità come ad esempio il fenomeno new-age. L'uomo
possiede una dimensione spirituale che storicamente è stata più o meno
offuscata dalla scrittura e ora che la scrittura non è più la forma di
organizzazione primaria del nostro pensiero la spiritualità torna a
galla. Che forma poi prenda questa spiritualità, dipende dal contesto
sociale, storico, politico, e dalle caratteristiche individuali e
collettive. Quando
si parla dei kamikaze come forme di estremismo religioso, io penso che
sia semplicistico. Non è detto che tutti i kamikaze siano
necessariamente ispirati da un sentimento religioso: per esempio ho
studiato due o tre casi di donne kamikaze che non erano affatto ispirate
da alcun sentimento religioso, bensì da altre motivazioni molto più
complesse. Internet
come regno della libertà di espressione. E' questa la retorica che ha
accompagnato lo sviluppo del Web. Ciò è vero. Eppure sono anni che,
periodicamente, questo o quel governo tenta di limitare quella libertà,
in nome della lotta alla pedofilia, alla pornografia o per sconfiggere
il terrorismo. Ma Internet è riottosamente resistente a qualsiasi
restrizione. Lei che ne pensa? Ogni
burocrazia è ossessionata dall'idea di controllo e utilizza argomenti
quali la pedofilia e la pornografia per esercitare forme di censura
sulla rete, come nel caso del governo cinese, del governo statunitense o
del primo governo Berlusconi (1994). Si tratta di errori enormi e
controproducenti. Per esempio, durante la repressione della rivolta di
piazza Tien An Men è stato impossibile per il governo cinese bloccare
la ricezione dell'incredibile numero di fax di protesta. Per farlo
sarebbe stato necessario fermare l'intero sistema telefonico cinese il
che sarebbe equivalso a un suicidio. Con Internet è lo stesso:
censurare significherebbe instaurare un regime di controllo ossessivo e
assoluto, ma questa sarebbe una degenerazione atroce. Che nemmeno il
governo cinese desidera intraprendere, anzi in Cina il "desiderio
di interconnessione" appare molto forte. Per quanto riguarda
l'assurda scusa della pornografia, io dico che non c'è una percentuale
maggiore di pornografia su internet che nella testa di una qualunque
persona. Il
copyright è l'altro fattore che in rete non gode di molti consensi.
Open source, Linux o metodologia "peer to peer" sono comunque
uniti da un rifiuto del copyright. Lei come giudica il diritto d'autore? L'invenzione
del copyright è di Michelangelo, che dopo aver scolpito il suo Mosè,
vi impresse hoc fecit Michelangelo. È stata la prima testimonianza di
un artista che abbia firmato la propria opera per affermare il proprio
"diritto" d'autore. Il copyright arriva quindi molto tardi
nella storia occidentale: non era presente per esempio nella cultura
latina (quando Virgilio diceva Exegi monumentum aere perennius non si
trattava di una firma ma solo di una forma di orgoglio per aver creato
con la parola una testimonianza più duratura del bronzo). Oggi le cose secondo me funzionano perché convivono entrambe le possibilità: il copyleft (lasciare il libero accesso a tutti) e il copyright (per difendere la proprietà intellettuale). Il problema nasce quando il copyright, così come tutte le forme di controllo statale e imprenditoriale, è troppo rigido. Io sono d'accordo con coloro che non condannano né il copyright, né il copyleft e lascia convivere entrambi. |