LETTERATURA ITALIANA: L'OTTOCENTO

 

Luigi De Bellis

 


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Il Neoclassicismo


Caratteri generali

Come abbiamo anticipato nell’Introduzione, durante l’età napoleonica si sviluppò in Europa, e particolarmente in Italia, un movimento artistico che vien detto “Neoclassicismo” perché si ispira all’arte antica dei Greci e dei Romani. L’affermazione di questo movimento deve molto al rinnovato interesse per gli studi archeologici e all’entusiasmo suscitato dal ritrovamento di preziose opere d’arte affiorate durante gli scavi di Ercolano, di Pompei, di Paestum e del Lazio. Ma anche al favore di Napoleone Bonaparte, fervido ammiratore della grandezza di Roma, fino a considerarsi l’erede naturale di quella grandezza e ad affermare: “Io sono un imperatore romano; sono della migliore stirpe dei Cesari, stirpe di creatori di opere, di plasmatori di uomini”. E proprio per devoto riguardo al sommo imperatore, il nuovo gusto sconfinò dal terreno propriamente dell’arte in quello della vita civile, riflettendosi nella foggia degli abiti, nelle acconciature dei capelli, nello stile dei mobili, ecc. La poetica del Neoclassicismo era stata delineata dall’archeologo tedesco Giovanni Gioacchino Winckelmann (1717-1768), autore di una “Storia dell’arte dell’antichità” e prefetto della Vaticana, ed era stata poi approfondita dal pittore boemo Raffaello Mengs (1728-1779), direttore dell’Accademia di Pittura di Roma. La loro teoria si estese ben presto dalle arti figurative alla letteratura. Secondo il Winckelmann gli artisti antichi, greci e latini, avevano realizzato il “bello ideale”, consistente in un’armonica fusione di linee e di volumi che, pur utilizzando gli elementi presenti nella Natura, non rappresentassero nessun aspetto particolare e definito della Natura stessa e si librassero invece, fuori del tempo e dello spazio reali, nella sfera platonica delle “pure idee”. Condizione essenziale per realizzare tale arte sarebbe stata la “calma interiore”, l’assoluta libertà dello spirito da ogni passione o interesse terreni: condizione, questa, che dogmaticamente si attribuiva come congenita soprattutto al mondo ellenico. Da questa teoria derivava la nozione che, per voler riproporre l’arte classica, fosse necessario liberarsi da tutti i problemi terreni e collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio. L’arte neoclassica fu dunque concepita come un momento di assoluto disimpegno dalla vita quotidiana, di liberazione da ogni passione, e come un’occasione di pura contemplazione della bellezza. Naturalmente riaffiorò l’altro dogma della superiorità degli antichi sui moderni, dell’impossibilità di questi ultimi di conseguire la perfezione di quelli, e, di conseguenza, si ribadì la necessità dell’imitazione dei classici. Fu perciò di obbligo l’uso della mitologia, considerata il linguaggio d’elezione della poesia antica, e assai spesso si sentì il bisogno di attingere dagli antichi un motivo di godimento senza scorciatoie e senza intermediari (quali la fantasia e la sensibilità dell’artista moderno), cioè operando delle fedeli traduzioni dei capolavori classici: famosissime le traduzioni dell’Iliade e della Odissea, rispettivamente ad opera del Monti e del Pindemonte, quella della “Chioma di Berenice” di Callimaco, offertaci dal Foscolo, sia pure attraverso il rifacimento che ne aveva fatto in lingua latina il poeta di Lesbia, il grande Catullo. Ma non meno importanti furono le traduzioni delle “Bucoliche” e delle “Georgiche” di Virgilio, delle opere poetiche di Catullo, Orazio, Tibullo, Ovidio, Properzio, Giovenale e di quelle in prosa di Sallustio, Cicerone, Cesare, Livio, Tacito, per quanto riguarda il mondo latino; della letteratura greca si tradusse molto da Esiodo, Anacreonte, Senofonte, Luciano, Plutarco. Ma al di là delle pregevoli traduzioni, il Neoclassicismo fornì alla letteratura italiana numerosissime opere moderne che si ispiravano allo spirito ed alle forme della poesia antica. Fra i poeti italiani che aderirono al movimento va però fatta una distinzione: ci furono quelli - e sono i più - che, come ad esempio il Monti, si illusero di far propria l’arte antica, sgombrando l’animo da ogni interesse presente e rifacendosi alla realtà del loro momento storico solo per trarre spunti ed occasioni di canto (e furono perciò freddi e privi di una vera carica comunicativa); e ci furono quelli che, come ad esempio il Foscolo, guardarono al mondo antico come ad un mondo di bellezza e di beatitudine perduto per sempre, da vagheggiare con animo nostalgico intriso delle lacrime del presente (e furono perciò generosi di affetti autentici e storicamente attuali e, di conseguenza, più accessibili alle coscienze dei moderni e, tutto sommato, da annoverare piuttosto nell’area romantica che non in quella neoclassica). Anche i poeti neoclassici, infine, come i classicisti del Rinascimento, intesero l’arte in chiave aristocratica, ma, a differenza dei loro illustri predecessori, che avevano voluto apprendere dai Maestri dell’antichità il “metodo” di fare arte, riservandosi però di esprimere con questo le loro idee e il loro mondo di affetti, essi pretesero di far propria la spiritualità dei classici, quasi che duemila anni di storia fossero passati senza lasciar traccia sulla coscienza dell’umanità..



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