LETTERATURA ITALIANA :     ANALISI DEL NOVECENTO

ELIO VITTORINI

Anomala rispetto a quella tradizionale del letterato italiano è la formazione di Elio Vittorini. Nato a Siracusa nel 1908, intraprende studi tecnici ma non li completa: a diciassette anni lascia la Sicilia, desideroso di esperienze e di maturazione. Dopo alcuni soggiorni a Firenze e a Roma, si trasferisce con la moglie - Rosa Maria Quasimodo, figlia del poeta, sposata nel 1927- a Gorizia, dove lavora per qualche tempo presso un'impresa edile. Agli inizi degli anni Trenta si sposta a Firenze, frequenta l'ambiente di «Solaria», impara l'inglese, fa il correttore di bozze, collabora al «Bargello», settimanale della Federazione fascista di Firenze, pubblica una raccolta di racconti, Piccola borghesia (1931), cui fa seguito, a puntate su «Solarìa» (febbraio 1933-dicembre 1934), il romanzo Il garofano rosso. All'inizio della guerra di Spagna per un suo articolo antifranchista sul «Bargello» viene espulso dal partito fascista. Insieme all'attività di traduttore (aveva iniziato nei 1934 con II purosangue di Lawrence) continua quella di scrittore e nel 1941 pubblica Conversazione in Sicilia (che era uscita prima a puntate su «Letteratura» nel 1938-39). Si è intanto trasferito a Milano con un incarico editoriale presso Bompiani, e lavora all'antologia Americana che, pubblicata nel 1941, viene immediatamente sequestrata. Si accosta al Partito comunista clandestino, col quale collabora dal 1942, e partecipa attivamente alla Resistenza. Nel settembre 1945 esce il primo numero de «II Politecnico», un settimanale da lui ideato e diretto come strumento di dibattito per la creazione di «una nuova cultura»; ma sul tema dei rapporti fra politica e cultura lo scontro col PCI, che ha una concezione strumentale e non autonoma della cultura, è durissimo: «II Politecnico» è costretto a chiudere nel 1947. Vittorini abbandona il PCI nel 1951. E Roderigo di Castiglia (Togliatti) commenta il fatto su «Rinascita» (VIII, 8-9, agosto-sett. 1951) con un articolo- «Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato!...» - memorabile (per la grevità del tono).

Operatore culturale aperto ai più vari interessi, Vittorini negli anni Cinquanta e Sessanta imposta e dirige collane editoriali (I gettoni di Einaudi dal 1951 al 1958; la Medusa di Mondadori dal 1962 al 1964, il Nuovo Politecnico di Einaudi) e fonda nel 1959 con Calvino la rivista «II menabò». Continua poi la sua attività di narratore con La Garibaldina (1956) e una nuova stesura, nel 1964, de Le donne di Messina (già edito nel 1949) e raccoglie i suoi interventi critici nel Diario in pubblico (1957). Muore a Milano nel 1966. Postumo (1969) è stato pubblicato il romanzo Le città del mondo, cui aveva lavorato negli anni '50 e che, insoddisfatto, non aveva mai voluto pubblicare: un esempio di comportamento che, di fronte alle annuali novità di tanti narratori d'oggi, sembra appartenere a un mondo remoto.

Ci limitiamo a due indicazioni:

1) dalla r. 39 si parla di «nuovi doveri»; quali? È fuori luogo chiedere all'artista una precisazione normativa di questi doveri. Certo, considerando in quale situazione storica fu scritta Conversazione in Sicilia, i nuovi doveri alludono a un nuovo rapporto fra gli uomini basato sulla libertà, sulla solidarietà e non sul sospetto fra un uomo e l'altro che la dittatura alimenta (e nel cap. VI dell'opera questo tema è allusivamente esemplificato a proposito dei due poliziotti Coi Baffi e Senza Baffi). Ma appunto perché in quest'opera la componente realistica non è che uno spunto, il fascino del brano consiste nella sua possibilità di ammettere le interpretazioni più diverse che sul piano storico ed esistenziale si possono dare a questi nuovi doveri, la cui esigenza si avverte man mano che i vecchi doveri scadono a routine, involucro formale privo di senso.

2) Su questa prosa di Vittorini si può applicare il metodo di analisi proposto da Beccaria (cfr. T 118) per meglio coglierne la varietà di soluzioni, che mirano tutte comunque ad elevarla a un livello poetico. I primi due enunciati sono due strutture melodiche progressive, che realizzano una "gittata melodica" ascendente, una tensione (« lo ero / quell'inverno / in preda ad astratti furori»: 2 + 4 + 9; «Non dirò quali / non di questo mi son messo a raccontare»: 5 + 12). II terzo è costituito da una struttura melodica simmetrica: una unità lunga (« Ma bisogna dica ch'erano astratti») cui ne seguono due brevi («non eroici», «non vivi») e poi ancora due brevi («furori», «in qualche modo») concluse da una lunga («per il genere umano perduto»). Si mira forse - alternando alla tensione dei primi due enunciati una statica simmetria - a creare un'opposizione (concettuale e ritmica): questo terzo enunciato infatti si apre con un avversativo Ma, e in seguito agli iniziali furori è contrapposta la quiete, la non speranza.


CONVERSAZIONE IN SICILIA

Silvestro è il narratore-protagonista di questo che esiteremmo a definire un romanzo e che si configura piuttosto come il lungo racconto, diviso in cinque "parti" e un Epilogo, di un viaggio reale e simbolico insieme: dal Nord, dove egli vive, nel cuore della Sicilia, dove è nato; da un presente di «astratti furori», «... astratti, non eroici, non vivi», di mortifera apatia («Questo era il terribile: la quiete nella non speranza», cap. I), a ritroso nel passato, alla riscoperta delle proprie origini, e da qui ancora, in un percorso circolare, a una più chiara coscienza del presente, e per essa finalmente alla «parola» sia pure «suggellata» di un'intima cocente ribellione. Un viaggio intrapreso in un inverno non meglio precisato, a seguito di una lettera del padre che gli comunica di aver abbandonato la madre, laggiù nella casa avita; e la cui durata, di «tre giorni e le notti relative», coincide esattamente con quella della «conversazione» che si svolge, ininterrotta, fra il narratore e coloro che incontra. In un approccio graduale, nella Parte Prima, al «mondo offeso» di una Sicilia rimasta com'era, e tuttavia toccata, a sua volta, dai mali nuovi della Storia: per una serie di dialoghi brevi, serrati, con i «piccoli siciliani da terza classe, affamati e soavi», con gli arroganti questurini Coi Baffi e Senza Baffi, con il Gran Lombardo di Nicosia, soprattutto, ansioso di «nuovi doveri», di «cose da fare» per «sentirsi più in pace con gli uomini» e con se stesso (cap. I-VIII). E in un affondo invece repentino, nella Parte Seconda, nella memoria dolceamara dell'infanzia: quando il colloquio con la madre Concezione, scandito a ritmi lenti e come casuali, riporta Silvestro a sensazioni lontane, all'immagine di sé e del fratello bambini, del padre sognatore e donnaiolo, del nonno Gran Socialista, Gran Cacciatore, Gran Cavaliere (cap. IX-XX). Ma è solo nella Parte Terza che egli viene a conoscere davvero, da vicino, la miseria, la malattia, gli infiniti patimenti fisici e morali di quel «genere umano perduto» su cui si era, fino allora, «astrattamente» interrogato: in un desolato itinerario nel «buio e odor di buio» per le case del paese, in compagnia di Concezione che nemmeno comprende le «strane domande» che il figlio le pone (cap. XXI-XXII). Se non che all'imbarazzo, alla confusione di lei, fanno riscontro, nella Parte Quarta, le voci ferme, sicure, dell'arrotino Calogero e dei suoi amici Ezechiele e Porfirio: tra i pochi che sanno di essere «offesi» e non intendono arrendersi, affidando al sogno di temperini affilati come spade, di una scrittura che tutto spieghi, di un lavacro nell'«acqua viva», la speranza inerme di una futura salvezza (cap. XXXIII-XL). Fino al dialogo che il narratore ha, nella Parte Quinta, con l'ombra notturna di un soldato caduto sul campo, che gli si disvela in rapide e convulse battute per quella del fratello Liborio, memore e testimone di un proprio e altrui indicibile «soffrire». L'annuncio ufficiale della sua morte arriva infatti, puntuale, la mattina successiva, inducendo Silvestro e Concezione a mentirsi a vicenda per reggere allo strazio, per fingere un senso alla tragedia, ma legandoli nella comune e tacita consapevolezza delle responsabilità storiche cui essa rimanda, del fatto che nessuna retorica, o promessa di gloria, può valere una vita. Uscendo di casa, scortato da una folla di sconosciuti e da quanti gli sono stati compagni, in qualche modo, di viaggio, il narratore piange, di un pianto irrefrenabile e liberatorio: e davanti al monumento ai caduti capirà di essere pronto, ormai, per ripartire (cap. XLI-XLVIII). La «conversazione in Sicilia» è finita, è all'Epilogo: Silvestro si congeda dalla madre, in punta di piedi, lasciandola nell'atto di accudire un uomo in lacrime venuto da lontano.

Quando Vittorini, probabilmente nel settembre del '37, inizia la stesura del libro è appena riemerso dagli «astratti furori» che attribuisce a Silvestro, e che erano stati suoi, come di tanti, in «quell'inverno» fra il '36 e il '37 seguito allo scoppio della guerra di Spagna. Gli stessi che lo avevano indotto ad abbandonare la scrittura di Erica e i suoi fratelli, e che lo avevano reso «d'un tratto indifferente agli sviluppi della storia», come impietrito nella constatazione della logica assurda che la governava, della necessità di riconoscere un senso al presente al di là e al di sopra di questo, in un'esperienza umana antica come il tempo, e segreta e universale. In una sorta di «realtà maggiore», sperimentata nel privato ma costituita da un complesso di «speranze e insofferenze degli uomini in genere», e legata alla «realtà minore» della storia da un rapporto di incessante reciproco scambio. Conversazione nasce così dall'esigenza dell'autore di addentrarsi più a fondo nelle cose, alla ricerca del loro vero significato e di una risposta possibile, in esso, alle «domande sull'avvenire del mondo»; e nasce anche, sul piano schiettamente letterario, dal suo tentativo di cimentarsi in un racconto che attingesse all'esempio del melodramma per travalicare i suoi stessi contenuti specifici, per «esprimere qualche grande sentimento generale, di natura imprecisabile e non proprio di pertinenza della vicenda, dei personaggi, degli affetti rilevati nei personaggi». Degli eventi di Spagna perciò, da cui pure l'opera muove, non si parla al suo interno se non come degli eventi, drammatici, luttuosi, intrinseci a ogni guerra; e il regime che dispiega le sue fanfare per piegare ai propri scopi, con fraudolenta propaganda, un popolo già oppresso e martoriato, è certamente quello fascista, ma potrebbe essere ogni altro che si ispiri a un'ideologia militaristica e antidemocratica; mentre la paralisi della volontà che colpisce Silvestro, che vanifica i suoi furori, è la stessa di molti che siano umiliati, nella coscienza e nei sentimenti, e sopraffatti dall'angoscia, privati di ogni arma per difendersi o aggredire. Come la Sicilia di cui si dice, povera, primitiva, condannata a vivere di sé e però chiamata a versare, «per la patria», il suo contributo di lacrime e sangue, è specchio ed emblema dei tanti paesi, nel mondo, emarginati e però asserviti, sfruttati, «isole» cui si guarda dall'alto e da lontano. Il processo tuttavia per il quale l'intera vicenda, e in essa per primo il viaggio del protagonista, acquista nel libro uno spessore «due volte reale», investe anche i singoli personaggi, caratterizzati sulla base di pochi tratti essenziali, partecipi in concreto della «conversazione» e figure al contempo eminentemente simboliche. Il Gran Lombardo, le cui parole suonano a Silvestro di monito e di rivelazione, rimanda infatti al mito robinsoniano, già caro a Vittorini, di una forza e una purezza originarie, incorrotte, primordiali; come Concezione è una donna offesa e tradita, una contadina con le «mani grandi, consumate, nodose», e nondimeno è l'archetipo di una femminilità indomita e piena, «costola d'uomo», e «odalisca», «madre-uccello dell'aria e... della luce», «ape regina», ricca ancora di un suo certo «vecchio miele» (cap. XIII, XVIII, XIX). E via via, in un sistema in cui tutti i personaggi, nessuno escluso, sono delegati a dar voce a un'ipotesi sulla natura e la condizione umane il cui respiro trascende, largamente, quello stesso della vicenda narrata.

RAGIONI E MODI DELLA CONVERSAZIONE

Nella Prefazione del '48 al Garofano rosso Vittorini parla della «condizione speciale» in cui si trovava all'epoca di Conversazione di «dover dire senza dichiarare», pena un drastico e sicuro intervento censorio, e accenna altresi alla propria ricerca in quegli anni di un linguaggio
narrativo nuovo, sottratto alle angustie di quello tradizionale e in grado di afferrare e trasmettere il senso, appunto, di una «realtà maggiore». Da tale duplice emergenza, storica e letteraria, si motiva il dettato allusivo, cifrato, liricamente atteggiato del libro: cui contribuisce tutta la formazione dell'autore, una sua chiara preesistente vocazione e la sua fede, in particolare, nella «magia» della parola, che può «trasformare la sostanza di una cosa», che può arrivare alla ragione, e da qui all'ideologia, per il tramite primo della poesia. E la struttura colloquiale, conversativa, diviene quella che meglio si presta, nella sua forma aperta, al contrappunto costante di toni e tensioni diverse, a un'alternanza ritmica di adagio, allegro, forte e fortissimo che richiama, per intenzione esplicita, quella stessa del melodramma. Al suo interno, poi, il procedimento trasfigurativo si realizza di fatto mediante il ricorso a una sintassi prevalentemente paratattica, frequentemente ellittica, alla ripetizione rituale di alcune formule espressive («gli astratti furori», «il dolore del mondo offeso», «il genere umano perduto»), alla definizione quasi sempre antonomastica dei singoli personaggi (Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo, la stessa Concezione, l'Uomo Ezechiele, il nano Colombo), al carico semantico attribuito alle semplici interiezioni (numerosi e sempre gravidi di significato gli «Ehm!», «Ih!», «Uh!», «0h!», «Mah!»), alla replica e all'enfatizzazione delle interrogative e delle esclamative («Sei una buffa donna!.. Sei una buffa donna!», «Qualche altra cosa?... Come qualche altra cosa?», cap. XIX). Ma non basta, perché gli espedienti grammaticali, stilistici e retorici di cui si vale l'autore contemplano anche l'uso transitivo di verbi normalmente intransitivi («Pensai mio padre e me», cap. XVIII), la prolessi del predicato e la posposizione del dimostrativo («Pioveva intanto e passavano i giorni», «Da molto tempo questo», cap. I), la sostantivazione dell'infinito («Troppo male offendere il mondo.», cap. XXXVI) ed altro ancora. Fino a un'accurata e vasta orchestrazione di analogie, sinestesie, traslati variamente metaforici: in un'operazione che Debenedetti chiama di «frenaggio» sui dati realistici del racconto, intesa ad elevarlo in una dimensione astratta e quasi atemporale, spazio unico possibile, adeguato, per l'integrazione tra i furori del presente e i miti del passato.

  (C) 2000 Luigi De Bellis 900: ALTRO ARGOMENTO