LETTERATURA ITALIANA :     ANALISI DEL NOVECENTO

CAMILLO SBARBARO

Camillo Sbarbaro nacque a Santa Margherita Ligure nel 1888 e trascorse sempre la propria vita in Liguria. Dopo aver lavorato qualche tempo nell'industria, si dedicò all'insegnamento, ma - per aver rifiutato l'iscrizione al partito fascista - fu presto costretto ad abbandonare la scuola e visse dando ripetizioni private di latino e greco e dedicandosi soprattutto all'erboristeria (divenne studioso di licheni di fama mondiale). Le sue opere principali sono le raccolte di versi: Pianissimo (1914), Rimanenze (1955) e Versi a Dina (editi nel 1961); e varie raccolte di prose poetiche fra cui spiccano i Trucioli (1910-1940, ed. 1948). Intensa e significativa la sua attività di traduttore. Morì a Spotorno nel 1967.

«La parola ha nello Sbarbaro le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria. E dacché i poeti si riconoscono da quest'ultimo comune carattere, che manca alla quasi universalità degli scrittori, è lo Sbarbaro non pure artista, ma poeta». Così nel 1920 scriveva Montale, che pure in Pianissimo poteva lamentare la presenza talora di «un verso malfermo, approssimativo». Tuttavia, proprio una certa trasandatezza nella formulazione dei ritmi dell'endecasillabo, il verso di gran lunga prevalente in Pianissimo, in un poeta che non accoglie decisamente il verso libero, è sintomatico di quella volontà di discorso assolutamente antieloquente, tendenzialmente prosastico che fa di Sbarbaro un momento fondamentale del processo di sliricizzazione della poesia novecentesca post-dannunziana. Si noti, rispetto a Rebora, l'assenza di un lessico espressionisticamente ricercato (arcaico, dialettale o personalmente ricreato per violenza perpetrata ai normali istituti linguistici) e, rispetto a Campana, l'assenza di significativi fenomeni di innaturale dislocazione delle componenti sintattiche (che in quel poeta conducevano ad un'intricata polisemia). La lingua di Sbarbaro è assai vicina a quella del parlato quotidiano (con una patina di desuetudine percepibile forse più da noi che dai suoi contemporanei), non presenta fenomeni di polisemia, fa un uso molto parco di metafore (poche e ricorrenti), ricerca cadenze prosastiche seguendo per lo più la normale successione soggetto-predicato-complementi e quando presenta fenomeni di inversione sintattica lo fa non per ricercare particolari modulazioni melodiche (movenze di canto) ma spesso per porre in rilievo termini-chiave della condizione interiore, o per rallentare ulteriormente la scansione delle parole e, forse, per introdurre un elemento di straniamento nel fluire del discorso, quasi un'innaturale torsione rivelatrice dell'aridità della propria anima. Queste scelte stilistiche (proprie di un pacato, rassegnato colloquio con se stesso) rappresentano un adeguato equivalente formale delle tematiche dell'atonia vitale, della pietrificazione e dell'inaridimento interiore, della «rassegnazione disperata», che fanno di Sbarbaro un poeta esemplare della crisi della coscienza moderna.

  (C) 2000 Luigi De Bellis 900: ALTRO ARGOMENTO