Premessa

 

"Quelli della notte per quelli della notte"

Formula della stregoneria basca -

 

 

Qualcuno scrisse un libro per tutti, questo non è per nessuno.

Bambini, donne e uomini maturi, tutti voi che scorrete codeste righe con lo sguardo indagatore di chi cerca l'altrui sapere, rinunciate alla conoscenza, rinunciate a leggere.

Qui le parole non dicono niente e, anche se significassero qualcosa di sensato, non sono rivolte a voi, dal respiro calmo e il polso costante.

Si è parlato fin troppo per voi, che godete la vita e gioite del sole al mattino, voi che scorgete le stelle su appositi tomi. Desistete!

Ivi non troverete nulla che vi sia destinato: questo è il libro del fiato gelido come la notte, del cuore che non batte più, dei viventi che non sanno vivere, questo… è il libro dei morti.

 

Prologo

 

" … Fulmineo

precipita il frutto di giovinezza,

come la luce d'un giorno sulla terra.

E quando il suo tempo è dileguato

È meglio la morte che la vita."

Mimnermo -

 

 

Il mare riempiva l'anima col suo odore salmastro, che pizzicava, per l'intensità, piacevolmente le narici; e il rumore ritmico e costante delle onde, le quali si infrangevano contro la scogliera scoscesa, sembrava dover durare in eterno, infinito come il cielo nero più della pece, prole di un'interminabile distesa d'acqua capace di riflettere l'empireo, nell'inferno più profondo, nell'Ade senza ritorno.

Il Mediterraneo… ed io, piccola creatura, io ero l'Uomo; l'uomo sospeso a metà, al crocevia del cosmo.

Sarei precipitato. La mia terra , la mia terra brulla, la mia terra sempre assolata, colorata di sfumature gioiose, era oscura. No: non potevo tornare indietro, era tardi. Era volato via, scomparso per sempre, piccola stella eclissatasi in eterno.

Avevo perso tutto e lì, lì a mani vuote contro il niente, il Destino mi offrì la possibilità di una scelta: seguirlo o rimanere.

Cosa mi restava? Cos'altro avrebbe potuto riservarmi quest'esistenza grigia in attesa di una dea che non avrei mai vista?

Ero un pazzo, un folle e un fallito, la mia ragione di essere era sprofondata nelle tenebre sconfinate, lontano da ogni speranza; non era più il tempo di sperare: troppo tardi.

Troppo tardi…

Ed io, sciocco fra gli stolti, io…

Sono rimasto… solo col mare e con le mie lacrime senza sostanza.

 

Eros e Patos

 

"Ce soir, je m'étais penché sur ton sommeil"

Paul Verlaine -

 

 

Quando partirai?

Domattina.

Il vento muoveva dolcemente i capelli dei due ragazzini, accarezzandoli con dita gentili intrise di sale, che scorrevano impudenti sulle loro membra sottili, recanti ancora i segni dell'infanzia.

Guardavano il cielo.

Erano belli.

Tu pensi di rimanere ancora per molto?

Gli occhi chiari del bambino più giovane rilucevano dell'oscurità che avvolgeva il compagno, scuro di notti insonni e di sole. Era insolito, per un essere umano ancora fanciullo, condensare su di sé tanta tenebrosità, dandole quasi una consistenza fluida, liquida come le lacrime che Eros non gli aveva mai visto versare. Aveva pianto? Vedeva una ragione per lasciar scorrere la propria disperazione sul mondo? per essere disperato? Forse no, non ancora.

Zoroastro hai intenzione di riprendere il mare al tramonto del prossimo giorno, o magari dell'altro.

Sapevano entrambi che si sarebbero rivisti dopo non molto: un mese, probabilmente due; ma il distacco faceva male alla coppia di bimbi, che trascorreva quella mite serata primaverile a contemplare l'empireo, doleva anche a Ermete, apparentemente freddo e distaccato, diametralmente diverso dalla creaturina pulsante e sanguigna che gli stava accanto, condividendo lo stesso firmamento.

Liberi per qualche ora, pronti a ritornare in gabbia, in attesa della prossima estate… consapevoli.

La sai una cosa?

La vocina flebile del fanciulletto dallo sguardo cristallino aveva assunto un'intonazione ancor più esitante, ma terribilmente dolce, una carezza dell'innocenza.

Cosa?

Mi mancherai.

Anche tu… ma non lo disse, rimase muto e malinconico, rimirando il riflesso degli astri sull'increspata e tetra distesa d'acqua.

Zoroastro dice che lì la pietra parla e che qui non riesce a lavorare bene… mi domando se le sue maledette sculture siano più importanti di me, del mio futuro.

Piuttosto che chiederselo, lo temeva e l'idea che tale dubbio potesse non essere infondato lo terrorizzava, gettando la sua mente, maturata troppo in fretta, in uno stato di annebbiamento stordito, in cui tutto ciò che era e poteva essere si sintetizzava in una parola: paura.

Non ricordava il giorno del primo incontro col maestro: era troppo piccolo o troppo sconvolto - da cosa? dalla vita; ma da allora, ovvero dai tempi più remoti serbati nella sua memoria, quell'uomo, dalle spalle robuste e gli occhi colmi di nubi, era stato tutto, tutto.

Sapeva, il giovinetto, anche quello che avrebbe dovuto ignorare; ma non aveva importanza: il suo cuore non sarebbe mutato… l'avrebbe seguito in ogni pazzia, benché egli, per lui, non fosse altro che la degna prosecuzione del suo operato.

A lui aveva affidato tutta la sua fiducia, tutta l'anima, tutto sé stesso, ciascun singolo istante di un'esistenza che, altrimenti, sarebbe risultata misera e inutile… per ricevere in cambio cosa? un monumento più durevole del bronzo, oro inalienabile ma… morto.

L'amichetto non aveva avuto verbo con cui ribattere, solo il triste tacere d'uno sguardo forgiato nel ghiaccio per sentimenti ardenti e forti, per le emozioni che scalando l'anima, proprio come la manina bianca che stava infondendo un lieve ed evanescente tepore alla sua guancia rigida.

*

 

Ermete:

 

Andai. Che potevo fare? Che? Morto… stop!

La mia vita era finita con la sua, germe parassitario di un'esistenza superiore. Inutile subordinato: ecco cosa sono.

No, non ti erigerò il marmo che meriti: la tua tomba è d'acqua. Acqua … ci ha legati, stregati tutti, dal primo all'ultimo.

Oceano maledetto! Erro: era un lago chiuso!

E tu… vivo, bello come un dio. Saprai? Saprai accogliermi?!

Tace… solo il vento si strazia impazzito su questa remota terra bianca, dimenticata dagli astri. Giorno? Voli? Niente.

Non ci sei… dove trovarti? Ho freddo e male, sono senza vestigia; il padre, l'amico, l'amante è partito senza concedermi l'investitura.

Non sono uomo, non cavaliere: eterno apprendista.

Amore… affogato.

Perché? Perché? Perché? Perché….? Adieu.

Qui tutto così pallido… d'una luce che provoca male agli occhi, assieme alla neve che imprigiona il sole. Il Sole… il caldo sole di Sicilia… e Lui. Lui. Lui. Tanto alto e … forte, forte non abbastanza per il suo segreto. Quale?

Non so.

Lo confessò, nel talamo peut-être, ma non ascoltavo, dormivo sereno, con lui. Sempre con lui. Pazzo!

Amico mio… vieni! Vieni prima che muoia! Vieni, ché lo seguirò… presto, molto presto.

Diceva che avrei capito, compreso. Non riesco. No. No, solo no, un perpetuo no.

La forma. No.

Degne requie per la mia passione. No.

Distacco… era quello che volevi? No. Non l'hai mai chiesto, non a me…. Uniti, compagno, eravamo uniti… Uniti!!!!

Grido, ululo come la tormenta impietosa. Achille senza il suo Patroclo, tale e quale sono. Mi vendicherò, lo giuro su questo ghiaccio che mi lambisce le carni. Mesto assassino, mondo…. Noooo! Mi stringevi, dio come mi stringevi! Sentivo il sangue fluire in te, dare vigore al tuo corpo… giovinezza. Quanti? Ventitré? Ventiquattro? Ai miei occhi.

Pochi, pochi, cavaliere. Folle!!!

Mi aggiro sperso per lande straniere, ho smarrito il mio riferimento ed ogni raziocinio… sono precipitato con te.

Tu, però, anelavi al cielo! Sei giunto: empireo ti apre le braccia… al posto mio.

Io sono l'uomo, incatenato al crocicchio, tu sei andato oltre. L'allievo non supererà il maestro: l'alunno non coglie un senso.

Mi incitavi ad abbandonare la ragione ed imponevi d'usare l'intelletto. Voglio la tua armatura! Voglio la tua armatura… la tua armatura! La bramo col tuo corpo. Voglio te, matto!

Bambino… prendi il mio titolo d'innocenza e… e … e che sarà? ciò che può. Salvami.

Salva questo intruglio caotico, portami lontano dalla bufera: non ho più gli arti per muovermi, non ho arte.

A te, Magister, piacevano le mie gambe: avremmo girato l'universo a piedi. Parlo coi morti. Ricordi? Vagabondiamo fino all'orizzonte: possederò il tuo spettro nelle ombre della sera… ti rivedrò, sbarrandoti le porte dell'Ade.

Pagherà il grembo corrotto della Terra: t'ha rapito, ha firmato. L'esecuzione impelle.

Dover mi voca… nella neve?

Vaneggio, come chi è in preda a febbri convulse.

Sono altre le mani intente a curarmi, differente l'alito che mi rianima, il tuo fuoco s'è spento. Ancora una speranza: il rogo funebre… ed io brucerò, brucerò con te.

Riposo… come riverberi silenti, bagliori d'oscurità, tenebre.

Creaturina tiepida… sono al sicuro, grazie.

Grazie! Grazie! Grazie: la fine verrà per mia mano.

*

 

Il rumore delle onde, che battevano contro il fianco dell'imbarcazione, penetrava, vestito d'una luminosità azzurrognola ed evanescente, nella piccola cabina, avvolta in un'accogliente penombra.

Il letto era situato vicino al boccaporto, in modo tale che fosse possibile rubare all'esterno un brandello di cielo, per portarlo lì, in quel minuscolo paradiso privato di pochi metri quadri.

Siamo i custodi delle chiavi…

Mormorò Zoroastro in un orecchio del fanciullo che gli sonnecchiava accanto, la cui scultorea nudità era coperta da ghirigori solari, i quali conferivano a quel giovane corpo atletico un che di disumano, di quasi divino.

L'uomo prese ad accarezzargli i capelli, con delicatezza, prestando attenzione a non destarlo dal torpore che lo aveva colto. Quel ragazzino lo stremava; implume, passionale - troppo passionale! curioso ed intelligente, avido di forza e di sapere, si concedeva tutto, senza clausole o riserve, ma chiedeva di più: pretendeva l'Infinito, una promessa d'Eternità.

Voi che ti riveli il segreto?

Riprese il maestro, chinandosi su di lui, che adesso gli era pari e compagno, sfiorandogli una guancia, dal bel colorito tipico delle genti che vivono il mare, con le labbra e ricevendo, come risposta, un profondo sospiro, quasi un lamento.

No, non è che gli dei sono morti… mistero svelato da sempre!

Gli sorrideva con l'affetto d'un padre: quel bimbo, ormai alle soglie dell'adolescenza, era il suo orgoglio, il figlio che non aveva e non avrebbe mai avuto. Il sangue sarebbe stato frutto del tradimento: il Cavaliere di Cancer sarebbe rimasto fedele al suo cuore.

Il grande arcano è uno…

Non lo ascoltava e non avrebbe mai saputo; per il suo bene, era meglio così, probabilmente si trattava della soluzione migliore per tutti: una liberazione per il suo povero animo, teatro di tremende forze che si scontravano, e un atto completamente indifferente per il mondo. L'inutilità compensava il vantaggio; non faceva bene, non agiva male.

… io ti amo.

E avrebbe aggiunto, aggiunto tanto…. Gli avrebbe raccontato della profondità del proprio sentimento, di come gli batteva il cuore la prima volta in cui lo vide, lassù, sui monti, elfo libero e immortale, reso perpetuo da un dolore che non può estinguersi.

Lo aveva strappato alle terre brulle, ai boschi selvaggi, per egoismo o per desiderio di condividere con quel piccolo angelo l'unica grande gemma che, nei panni di uomo, fosse riuscito a scovare.

"Come ti chiami?"

Era stata la prima domanda, lì in riva al lago che li rispecchiava entrambi, uomini ciascuno a modo suo, ma uomini. E quello aveva riso, d'una risata profonda, con tutta la gioia che avrebbe saputo metterci un vecchio pronto alla fossa dopo una vita che, in positivo o negativo, avesse avuto un sapore.

"Ermete."

Ermete… da allora, Zoroastro non seppe mai chi insegnasse e chi apprendesse; quale dei due stesse conducendo l'altro alla rovina.

*

 

Eros:

Mancherà il silenzio, anche se non sai più parlarmi. Parla! Parla! No… guardi. Cosa? Il niente.

Vuoto.

Dove? Dove l'hai lasciato?

Perché sei qui? Bello! Oh Atena, bello! Stupendo, la mattina, rosa sul ghiaccio… un colore soffuso, immenso. Parla!

Guardami… perché sei qui? Perché? Lui dov'è? Freddo, mi hai cercato e non dici nulla. Abbi una parola, solo una e ti darò la vita, è la tua bellezza che bramo, un involucro colmo d'anima.

Sei vano, svuotato, morto.

Perché? Lui dov'è?

Médée è andata fuori, libera al vento.

Siamo soli: io e te, tu e basta.

Dove sei? Dove? Dove? Nel mio letto, oh ambizione! Restaci! Lei non tornerà non tornerà, piangeva, piegata su sé, abbandonata, acqua che scioglie acqua, congestionata e calda… mostruosa! Furia!

Tu che sei? Restaci in eterno, ti sarò bara e monumento, ma restaci in eterno.

Tu perfetto non piangi, no, non una lacrima, volto scolpito nel marmo. Perpetuo… sterile. Lasciati contemplare, qui in mezzo al niente, ti giuro due occhi pronti a guardarti - Dio! guardarti sempre .

Mi mancherai…. Ricordi?!

Mi sei mancato, santo cielo se mi sei mancato!

Cosa hai trovato? Ti amo. No: amo la tua perfezione. Uomo, imperfetto, sbagliato, uomo ma… divino, infernalmente divino. Gelido.

Questa terra sarà anche tua, neve dall'alto su tuo cuore - che ha di diverso? ben poco.

Médée è andata fuori, libera al vento.

Andremo fuori -resta!- liberi, il vento! Noi, stupendi e impossibili, noi! Resta!

Zoroastro… le tue catene, sciogliti e portalo con te, servi ad entrambi.

Ruberò la tua beltà. Parla. Non oso più rimanerti davanti, oscurarti la luce. Dammene un raggio, e saremo uniti, come il vostro sangue, sarà anche il nostro, in nome nostro. Nostro!

Médée è andata fuori, libera al vento.

Zoroastro…

Continua, finisci! Parla! Parla!

Zoroastro…

Cupo… male, giù su di te, troppo male, oscuro… i tuoi occhi hanno dimenticato il giorno. Il maestro quale lezione t'ha impartito? Esiste insegnamento sì tremendo?

…. è morto.

Vuoto, ancora vuoto. Che m'importa? m'importi tu, solo tu, sempre tu.

Cosa?

È morto, ritornato al mare.

Bellezza Bellezza Bellezza d'un corpo cadavere carogna? D'amido, steso rigido su pietra immortale. Spuma, il suo sapere è spuma, le vestigia abisso.

Bellezza, Bellezza ineccepibile. Uomo o cosa vivente, lontano conoscevi uno spirito: sei impuro e perfetto.

*

Zoroastro si muoveva lentamente, a grandi passi, avvicinandosi con circospezione alla sedia posta di fronte al letto, di fronte al fanciullo solare nella sua sfacciata nudità dalle forme snelle, a gambe incrociate fra le coperte, di fronte al bimbo che gli rivolgeva un gran sorriso colmo di speranza o, semplicemente, ammirazione.

Il fruscio della veste da camera, d'un viola pallido come le pagliuzze che spiccavano nei suoi occhi neri, ad ogni passo si confondeva quasi con l'incessante mormorare dei flutti.

Maestro…

Aveva tutta l'aria di essere profondamente concentrato su chissà quali concetti astratti ma, in realtà, tentava di non soffermarsi sul bel viso dell'allievo, altrimenti si sarebbe smarrito, rendendo vani quattro lunghi anni di insegnamenti, e prediche, e menzogne - quante menzogne!

… noi siamo amici?

Cosa poteva rispondergli? Il silenzio era infranto dallo scricchiolare del pavimento in legno, il vento faceva sbattere una porta non lontano da lì, forse presso il ponte sopra le loro teste.

Perché me lo chiedi?

Perché facciamo l'amore tutte le notti?

Ermete voleva sapere, ma la sua non era semplice sete di conoscenza, disinteressata e pura come il piacere dei sensi che era capace di dare ed ottenere: in lui c'era desiderio, possessività, amore per un'anima e della carne… tutti gli spauracchi che perseguitavano il cavaliere più anziano, che lo incatenavano alla sua condizione di uomo.

Ci sono cose che imbrigliano uno spirito libero, discipule; ed altre che lo danno al vento. Per essere amici dobbiamo, prima di tutto, diventare nemici.

Mentre parlava si era riavvicinato al talamo, chinandosi sulla figuretta attenta, benché rilassata, dello studente, fremendo di toccarne la pelle, ripromettendosi che sarebbe stato per l'ultima volta… un bacio e l'avrebbe lasciato a se stesso in eterno.

Era un consapevole spergiuro, conscio della propria virtù, del proprio amore, che lo angosciava come un vizio, consumandolo lentamente, insinuandogli mille pensieri inutili nella mente.

È un rischio che vuoi correre, quello di affrontarmi?

Domandò prima di adagiargli le labbra sul collo, vittima dello spettro della propria debolezza, ed ivi lasciandole scorrere in un gioco beffardo, che provocò una sonora risata del giovinetto, una risata che gli gelò il sangue.

Io non ho nulla da perdere, ma tu cosa metti in palio?

L'armatura e me stesso.

Proseguì, rendendosi conto di quanto l'altro fosse cosciente - giocavano a rincorrersi, come due animali selvatici, fiere sanguigne ed indomite, senza scelta né scampo- mentre posava le mani sulle spalle del giovane amante, affinché questi si stendesse supino, alla mercé della sua superiorità fisica o, semplicemente, pronto a soddisfare una voglia ribelle, che non voleva sottostare al saggio consiglio della ragione.

Allora, amico mio, saprò redimerti o incatenarti a me fino alla fine dei tempi…

Concluse, ricambiando impacciato la stretta del sensei ed imprigionandogli la bocca in un bacio, per non ascoltare un'eventuale risposta.

Per Zoroastro, però, non c'era nulla da dire: era già stato sconfitto, poteva solo tentare di salvare quell'angelico demonio dall'abisso in cui lui, l'insegnante, era precipitato; di elevare l'alunno al grado di illuminato, padrone degli Inferi, superiore agli uomini con tutti gli dei.

*

 

Ermete:

È ritornato al mare.

Mare… l'ho detto. Mare maledetto!

Amore… perduto; le mie catene sono ancor più pesanti e mi trascinano giù, costantemente più giù.

Eros, amico, consentimi di morire da uomo libero. Dà pace allo spirito di Zoroastro, brucia il suo corpo col mio nel vento, cenere colorata e immortale, concime che feconda la Terra, pasto di vermi e di fiori.

Destinato ad imputridire, dove non arriva la luce.

Incompreso, speculatore e sovversivo, guerriero senza causa e senza dio… morto per quanto avevi scoperto; mi porti con te.

Il ferro non sazierà questo desiderio, gelido tocco dell'assenza di tutto, di tutti, di te.

Son già crepato.

Cos'hai detto?!

Non chiederlo, è inutile porre quesiti… vani. Non c'è risposta. Solo parole, altre, altre domande.

Sappi, non piango, non piango: non una singola lacrima per lui, per te, per me. Noi stolti rimaniamo confusi. Quello in cui credevo ormai è fuso con la realtà: ho perso ogni fede, ed ogni ideale… mi rubò la morale, mi salvò dalle grinfie di nessuno; ed ora… che stringo fra le mani? Non ho più la mia etica, la sua etica, mia e sua… nostra.

La vita è difficile da sopportare!

Atena!!!! Tu non comprendi, ignori… io amavo! Amavo!

Cos'hai detto?

Basta, non so risponderti… ho dimenticato ogni verbo. Imprimere il pensiero, sintassi sgrammaticata e tu.

Tu, sempre tu. Signora! Pietà. Non hai saputo vedere la sua intenzione… il suo cuore; io l'ho tenuto in mano. Se l'è ripreso. È andato.

La neve… acqua gelata, come quella dei miei luoghi, come la mia anima. Acqua. Fluido. Acqua…. Ghiaccio, ghiaccio che succhia il sangue, il tuo sangue, il mio amore. Amore! Nel deserto, nel sole e l'oceano, solo il nostro amore e nulla più, nulla più.

Voci, le voci della gente non sanno tacere. Abbiamo imparato a non ascoltare. A pensare di pensare. Non pensare. Non penso! Mesto compenso del mio male! Caso, puro caso. Giù. Dio. Dio e il caso…. Dio è il caso. Dio! ma quale? Dio non dà firme. Dio! Atena! Perché?

Arte… la tua opera. Nascosta, celata. Le tue membra…. - virtù; svanite. Arte… la tua opera. Non firmata. Rimarrà al niente. Niente. Niente lapidi, niente nomi. Nomi!

Il tuo nome! Il tuo nome… Zoroastro. Chi chiamavo? Chi chiamavo?

Son pazzo. Impazzisco. Impazzisco ripetendomi di impazzire. La fine. Esclusione. Di', di' che porta all'esclusione. È mio! La mia esclusione! No, non ti so dire. Non è giusto alcunché. Non parlare.

Volevi incontrare la morte? L'hai persa, come un riflesso, hai dimenticato ogni cosa, anche me. Non potevi stringerci entrambi.

Cos'hai detto?!

Ancora…… Fuori la luminosità è bianca, bianca, bianca. Si smarrisce, distrugge, non può. Non è stata, non sarà.

Eravamo. Non saremo. Verbi. Zut! Mon dieu! Ombre, ombre nere; ciascun singolo fiocco proietta l'oblio, trasparenza fatale, sensualità che inganna. Ammalia. Come i tuoi baci, l'abbraccio di dita impalpabili. Aria. Stringerò un riverbero, uno spettro.

Un ultimo amplesso di acqua e di vento.

*

Tu mi distruggi, bambino.

Borbottava Zoroastro, in modo piuttosto inconsueto per la sua personalità riflessiva e poco espansiva; mentre, seduto a tavolino, stilava un rapido schizzo del ragazzino che gli stava seduto di fronte, il musetto alzato a guardare il cielo dal piccolo spiraglio dell'oblò.

Lo avrebbe immortalato; non rischiava più nulla, ormai, ma c'era tutto da guadagnare: aveva, quel piccoletto, concentrato su sé l'amore destinato alla sua Arte, ma egli avrebbe fuso le due cose, unendoli per il concepimento del suo capolavoro.

Che stai dipingendo?

Ermete non distolse lo sguardo dal lento spostarsi delle nuvole in cielo; la nave aveva il vento in prua: il movimento delle sagome bianche, simili a enormi batuffoli di bambagia, era opposto a quello dell'imbarcazione, ma il bastimento scivolava sulle increspature dell'immenso mare - esattamente come una nube nello sconfinato empireo - misero riflesso di qualcosa di intangibile.

La tua prossima statua…

Ebbene?

Deve essere morbida, viva; pretendo che abbia un respiro.

Il maestro voleva che lui, lui stesso, anima ardente, corpo di carne, e vellutata pelle profumata di pesche; fosse la sua seguente scultura, l'unica capace di fargli dire "Ho creato un essere umano" - per l'apparenza divina del modello.

Sai, ti prenderò come soggetto.

Il giovinetto gli rivolse due occhi cupi e profondi, terribilmente tristi, malgrado il dolce sorriso dipintoglisi sulle labbra sottili. Non avrebbe avuto bisogno di parlare; lì, nella luce del sole riflesso dalle acque del Mediterraneo, i mezzi comuni gli si sarebbero rivelati inutili, forse anche d'intralcio: l'uomo, per il bambino, era una condizione già sorpassata; adesso era tutto e niente, il vuoto delle sue criptiche iridi ne recava l'inconfutabile testimonianza. Tutto ciò che contava, tutto ciò per cui valesse ancora la pena di ridere e scherzare, piangere e lottare, vincere e morire… migliorare, era la propria felicità - felicità terrena, con ben poco d'assurdo o straordinario, eppure assoluta e, perciò, sublime - felicità dolce sussurrata allo Zefiro, allo Zefiro e alle onde del mare, allo Zefiro che non sa tacere; la felicità era il cavaliere che lo fissava, in attesa di un cenno, una risposta; pronto ad assecondarlo come si fa solo con un amico… come avrebbe fatto egli stesso.

Ho trovato.

Cosa?

Quello che cercavo…. Farò poesia.

Aveva scelto la propria arte, non per vocazione, né per onore o ambizione: semplicemente per amore.

E all'altro, prima o poi, sarebbe andata anche bene quella decisione.

 

*

 

Eros:

 

Non l'avrei mai creduto; era tanto importante? Troppo, vero?

Sei venuto in vano: non qui troverai la tua consolazione. Taci e m'ignori, che razza d'aiuto vuoi? Signora, ma chi mai ottiene il soccorso che desidera?

Un compenso. Non agirò senza degna retribuzione: i tuoi occhi, i tuoi occhi e anch'io avrò compiuto la mia vocazione; i tuoi occhi e saprò ammazzare questa solitudine, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. In cambio, un istante del tuo sguardo…. Non domanderò più nulla, non a te.

Amico mio…

Non riesco, non sopporto di vederti in un simile stato. Animalesco, teso, agguato dei sensi… a me. Vorrei convincerti - ma di cosa, in fondo? Non so, basta non fallire.

Bambino… non sei più quello che eri, sei cambiato, cupo e solitario più di prima….

È un verme a divorarci l'anima. Non so oppormi al mio, non ti salverò dal tuo. Incubo.

In fin dei conti, mon petit, è solamente un gioco ingiusto.

Neve, ancora. Son calmo, può continuare finché ella non torna; non saprà tornare. Ingiusto. Scova in questo mondo qualcosa che non lo sia; scovala e mostramela. Non credo, non credo in alcunché, solo che ti vedo. E sei bello; Atena, quanto sei bello! Acqua. Rude scoglio modellato dal mare. I gabbiani tubavano, un volo confuso. Felice. Spigoloso e disperato, intagliato male. Volteggiare di candide piume. Colorato di sangue. Quello che ti diede uno spirito e poi scorse via, fluido. Letale. Due sagome bianche sul nero e tu, al mio fianco tu. Amico…

Letale. Il tuo è un morbo letale, non so intervenire. Come potrei? Voglio? Lo ignoro. Mi manca la volontà di trovare ciò di cui necessito. E piango. Qui, ora, di fronte a te.

Derideranno noi. E lo sai.

Derideranno il nostro scopo. E lo sai.

Derideranno i nostri secondi fini, dal primo all'ultimo, mossi da qualunque ragione

Derideranno la speranza. Lo sai.

Derideranno la tua arte, il tuo lottare per essa; accuseranno la memoria del maestro che tutto ti diede e tutto si prese. E lo sai.

Perché non rinunci? Deponi le armi e io riempirò l'abisso della nostra inutilità.

Un tuo cenno.

… sei qui

sciocca considerazione o amara consapevolezza.

Volente o dolente, non posso tirarmi indietro.

*

Il pomeriggio volgeva ormai alla sera, ma il mare restava pur sempre d'un azzurro sereno e biancastro, senza tracce di notte, opponendosi all'incedere della nave, la cui prua fendeva la superficie appena increspata dell'acqua.

Una brezza leggera, tiepida e profumata, li coglieva entrambi in pieno viso; il cielo si perdeva negli occhi felici di Ermete.

Zoroastro, dietro di lui, lo teneva contro il proprio petto, cingendogli la vita con un braccio ed indicando, con l'altro, un punto indefinito, poiché non ancora visibile, dell'orizzonte. Additava il mondo ed incoraggiava il discepolo a guardare, ad impossessarsi di ogni singolo fotogramma: ora tutto aveva un senso; avrebbe potuto utilizzare quelle immagini in futuro, quando l'innocenza avrebbe ceduto il passo all'esperienza, e la speranza alla consapevolezza.

Spingiti oltre il cielo e vedrai casa.

Era gentile e pacato come sempre, in lui tutto sembrava scolpito e immutabile, destinato a resistere e continuare, senza mai cedere, mai - o, perlomeno, così credeva il suo allievo.

Spesso non lo comprendeva e, mentre lo stringeva a sé, aveva l'impressione che fosse altrove, intento a rincorrere un sogno o i suoi pensieri.

Anima e corpo in lui erano separati, la stessa mente persisteva in una condizione estremamente frammentaria, concentrato di mille "io" in perpetuo conflitto fra loro, matrice di infiniti dubbi. La razionalità cozzava con gli istintivi impulsi dei sensi, generando, come inconsueta risultanza, un'arte (o una persona) misteriosa e affascinante, caotica e composta, classica e informale - che traspariva da ciascun movimento o da una parola, pronunciata come solo lui sapeva - avvolgente benché prole di una lotta priva di pietà o regole, vicina alla perfezione, ma… morta.

Il giovinetto considerava tutto ciò, fra le braccia del sensei, posato come sempre al di fuori del letto, e cercava un perché, la ragione di tanto tormento.

Magister, potrò essere felice con la mia Poesia?

Temeva che poche parole impresse sulla carta gli negassero ben più alta e concreta letizia, rubandole un'importanza che, a parer suo, non avrebbero in nessun caso meritato; arrivando ad opporsi alla motivazione stessa che le aveva costrette ad essere.

Non devi mai, ascoltami bene.. mai perseguire la tua felicità. Se c'è qualche motivo che ci induce a venire su questa terra, per recarci alla tomba tramite un funerale vivente, non è la nostra gioia, bensì la creazione.

Frasi teoriche, le sue, troppo per l'animo d'un bambino alla scoperta del mondo e di sé, dell'esistenza e … dell'amore.

Frasi teoriche che neppure lui, l'infallibile maestro, era stato capace di mettere in pratica, continuando ad angosciarsi e distruggersi con le proprie mani.

Frasi teoriche, in cui avrebbe dovuto credere, ma non ci riusciva. Creare… e per cosa?!

La memoria dei posteri? Al giovane Cancer sarebbe bastato un eterno pensiero di quel piccoletto per abbandonare tutto, raggiungere il sommo gaudio concesso ad un uomo, all'uomo che, malgrado tutto, era ed era condannato a rimanere; all'uomo incapace di plasmare un essere nuovo, incapace perché per raggiungere tale intento sarebbe stato necessario distruggere quello vecchio, quello che… amava.

E quando avrai compiuto il tuo dovere - di artista o cavaliere, che cambia? avrai ottenuto il diritto di morire in pace, nella coscienza di aver forgiato qualcosa di superiore a te.

Soffriva, avvertendolo fremere sotto le proprie dita ed inclinare pensoso il capo su una spalla; soffriva, rendendosi conto che il suo angelo era pronto ad immolarsi in nome di un sentimento impossibile.

*

 

Ermete:

Forse l'ho deluso, o era stanco di me. Sei anni trascorsi per nulla. No: solo per dolore… il male di vivere; ha ucciso anche te. Sono stanco di questo assurdo abbraccio d'amore e morte, Eros e Patos, che ritorna uguale, sempre. I tuoi racconti. Mi parevano insensati. È colpa mia: se avessi saputo ascoltare, ora saresti qui…

Cosa avrei da temere? Non si delude un fantasma, spettro della nostra felicità, dell'allegrezza che fuggivamo, ma ci perseguitava come una condanna, marcata a fuoco sulla carne e… faceva male. Come sono stato triste per la mia letizia!

A te? Ho fallito.

Perché sono qui? Che conforto voglio ottenere?

Cerco qualcuno che mi lasci piangere.

Non ho lacrime per te, Zoroastro.

Avvicinati.

Nei suoi occhi vedo sorpresa. Comprensibile. E brama sconfinata. Miravi alla bellezza, vero? Ti offro la mia, indomita e barbara, equo baratto per l'oppio dell'anima.

Piano, indeciso, è un gesto da amico, ti perderà, ma sazierà anche l'egoismo del genio; per il momento.

Ricordo. Una partenza distante nel tempo; fotogrammi sfocati dagli anni, ingigantiti dalla memoria.

Era l'alba. Quello che disse Zoroastro… è un mistero.

Il mare… il rosa del giorno, d'un fiore forte di vita e giovinezza. Io, infante, e lui, uomo al culmine di potenza e splendore.

I suoi riccioli… fluttuanti nella brezza di terra, turbinavano, cupi filamenti di notte intarsiati di stelle.

Avvicinati.

Non parlava con me, prima di salpare.

"Stolta, stolta Saggezza! Femmina volubile… lunatica! Sei con me, ma non mi appartieni. Infida! Quando ti carezzo i capelli, scovo nel folto del tuo soffice crine l'armonia delle forme. Sulle tue labbra c'è la sostanza. La tua caviglia sottile mi figura ogni tecnica; il collo slanciato delinea la posa, il candido seno incarna l'opera tutta. Ma tu non ti dai, Saggezza! Non ti dai…"

Avvicinati.

E allora, allora lo osservai piangere per la prima volta. Lo avrebbe fatto ancora, di fronte a me, in un'occasione sola, ma la luna doveva compiere ancora molti cicli, e la sua saggezza perire, prima che le lacrime gli solcassero nuovamente le gote.

Rideva, invece, di Maggio, nel folto della foresta, all'ombra di alberi secolari e di castagni fecondi. Rideva…. Rideva…. Ridevo con lui.

"Come ti chiami?"

Mi chiese, tremante. Selvaggio, lo avevo ammaliato. Era il primo che fissasi in quel modo, il primo con occhi che non fossero… fallaci.

Avvicinati.

Ermete…?

"Ermete"

Sì, gli dissi così - Ah, finalmente un sì!

Non sono un duro, né un creatore. La mia natura è debole. Ha fatto bene ad andar via senza lasciarmi le chiavi. Non so biasimarlo.

Toc, clop, tonc. Passi e pugni sul pavimento e nella mia mente.

Ma si rivolse anche a me… in che termini? No, non ricordo quel che disse Zoroastro.

È una memoria che bussa, e c'è un solo modo per mandarla via, per placarla almeno per una notte ed abbandonarmi alla quiete del limbo.

C'è un solo modo e ci sei tu, amico mio.

*

Sarebbe stato capace di sacrificare al proprio amore se stesso e il prossimo?

Non lo sapeva, ma era certo che esso dovesse essere una scultura magnifica ed imperitura, non un bambino etereo ed evanescente, sul punto di sparire da un momento all'altro. Lo aveva legato a sé con la promessa dell'armatura.

Avrebbe trovato la forza per razionalizzare, lui tanto irrazionale ed istintivo?

Erano diversi, terribilmente diversi, eppure Zoroastro, a volte, s'illudeva di scambiare la febbrile attesa nelle iridi dell'allievo con un lampo di comprensione, con ciò che palesa una comunione profonda.

In realtà, certi momenti bui si trascinavano dietro l'orribile sensazione di una condivisione prettamente fisica, d'un incanto magico che tramutava la beata semplicità di Ermete nel contorto inganno d'una Circe infingarda ed esperta, lussuriosa.

Erano solo attimi, istanti in cui ciascun'indecisione, approfittando d'una profonda stanchezza del corpo o della ragione, si faceva avanti e, prendendo il sopravvento, lo sballottava da un pensiero all'altro, conducendolo lontano… lontano…

Anche allora, abbracciando il discepolo, sulla prua della nave, al cospetto di salmastri spruzzi di spuma che, coi traballamenti dell'imbarcazione, incantavano il giovinetto, trascinandolo in un dondolio ritmico ed appena accennato, la danza di Madre Natura; anche allora i suoi ragionamenti lo avevano esiliato in un recondito angolo di cosmo, tetro ed oscuro, vuoto.

Era quella creatura, appena apertasi all'esistenza, idonea ad accollarsi le responsabilità di Cancer, dal freddo raziocinio?

Lo avrebbe distrutto, sacrificato a qualcosa di più grande, all'amore per la sua arte o la sua guerra… ma l'amore per lui?

Sai maestro, mi accontenterei di creare una frazione di secondo veramente felice e non avrei più bisogno di nulla… forse solo di te…

Disarmante… come immolarlo? Come? E ad un ideale, poi! ad un concetto che lo aveva tradito, deluso, disincantato! Avrebbe dovuto, però, adeguarsi al sistema, per soffrire e vendersi l'anima ma, in ogni caso, sopravvivere. Il piccolo italiano, tra l'altro, gli serviva: il suo modello, l'ispirazione, il piacere.

Ma cos'era Zoroastro? Artista, guerriero o letterato? Nulla di tutto questo. Era un pazzo, un folle in pieno possesso delle proprie facoltà mentali. E, se Ermete avesse dovuto rinunciare alla ricerca di un brandello di paradiso personale, sarebbe stato lui a fornirgli un ritaglio di gaiezza pura e perfetta: avrebbe insegnato con le parole e negato coi fatti, perché l'altro potesse imparare la più difficile fra le lezioni… vivere.

Neppure io ti sarò indispensabile: finirà il mio tempo e mi toccherà andar via…. Sarai erudito e camminerai sulle tue sole gambe, plasmerai un'opera che sia tua e basta. Difenderai la nostra dea e la sua causa.

Tremò quando si accorse che, in quanto aveva proferito, c'era un fondo di verità: i suoi giorni sarebbero terminati, l'avrebbe abbandonato a se stesso.

Il ragazzino tossicchiò e rise, portandosi alle labbra una mano del cavaliere per darle un piccolo bacio scherzoso.

Sai meglio di me che noi siamo senza dio e senza causa.

Ti potrebbero ritenere un bestemmiatore.

Il fanciullo si girò, dando le spalle alle onde che ferivano la chiglia; il vento gli scompigliava i capelli corti, rendendolo ancor più irreale. Mise le braccia intorno al collo dell'insegnante, premendo il proprio petto contro il suo, in una movenza tipicamente adolescenziale.

Allora renderò la mia vita un'enorme bestemmia.

*

 

Eros:

Morbido. Tutto è stranamente morbido. Finanche egli.

Così perso e disperato, terribilmente infelice per scelta o costrizione, mi chiede un aiuto, che racchiude in sé il mio compenso e non posso negargli; non voglio. Le sue braccia intorno alle mie spalle e - oh Atena! è così vicino!

Ricordo Médée, quando la vidi col suo cesto di fiori campestri, come non ne crescono nelle terre del nord, baciate da un sole che non riscalda. Baciate…. Puf! Soffice, le sue labbra di donna lo erano, per la belle d'un infante. Ignaro. Calda come una mamma; inflessibile e sensuale. Ho trovato la bellezza che cerca, quella che ha tentato di insegnarmi per tutta la vita. Ho l'elemento, plasmerò la mia rosa.

Tonc, bum, bum, tum… il battito è impazzito.

Che vuoi farmi? Profumo di mare. Un gabbiano vola; allora era notte, vedevamo solo le stelle.

"Mi mancherai"

Sarei pronto a ridirlo; ho bisogno di te, amico mio, la mia è una necessità impellente, non perdona.

Profumo di mare… l'odore del remoto Mediterraneo, calde terre, la Grecia.

Un giorno andammo al mercato: era colmo di odori. Il tuo, però, è inconfondibile, lì come ora. Profumi di eterno, di bosco. Elfo. No: uomo che ha passato l'uomo, per mezzo del dolore.

Un passo, un passo ancora e ci sarai: l'infinito ti aprirà. Non potrai più tirarti indietro, non possiamo più nemmeno adesso.

Stanco. Sei troppo stanco. Scende la sera. Eccessivamente esausto per pensare. Ti trascini sul fiume della disperazione. Confuso. Completamente sottomesso al vagare impetuoso delle correnti. Io or ti raccolgo.

Un singhiozzo.

Mi ha lasciato

E poi le tue lacrime calde, piccole gocce d'eternità, s'insinuano nella stoffa della mia camicia.

*

Ermete se ne stava, tutto accoccolato e tremante, fra le lenzuola che considerava gelide e ruvide; tra l'altro, erano bianche, ovvero d'un colore indefinito che gli trasmetteva l'idea di freddo. Le coltri erano percorse da mille brividi, pulsanti di notte, umidicce.

Che cos'ha il mio blasfemo sbarbatello?

Domandò Zoroastro cordialmente, con fare scherzoso, nonostante non sollevasse lo sguardo dalla bozza su carta, che stava stilando con crescente cura, tranne che per brevi occhiate fugaci, finalizzate a cogliere ogni particolare del viso rilassato, malgrado i visibili fremiti degli arti, del fanciullo.

Sono vicino all'assideramento!

Rispose con un filo di voce, accentuando l'entità del proprio disagio sino all'inverosimile: gli piaceva far ridere il compagno drammatizzando sempre su tutto e sentendosi controbattere con un immancabile "Hai un futuro da comico".

Quella volta, però, non ribadì in nessun modo; la bocca gli si contrasse semplicemente in una smorfia divertita, ma proseguì il lavoro senza palesi segni di distrazione.

Era intenzionato a finire, prima che fosse tardi, prima che perdesse quello per cui combatteva. Era una lotta contro il tempo: avrebbe annullato il divenire e conservato l'essere, pietrificato il proprio amore perché rimanesse ai posteri, consacrato col nome di chi ne era l'autore. Un matrimonio di travertino.

Ah! Bene! Io sto per morire e tu non mi degni della benché minima considerazione! Grazie per l'interessamento…

Allora l'uomo rise per colpa del piccolo pagliaccio che farneticava, steso sotto l'oblò, rannicchiato in modo tale da cogliere le prime stelle.

Sciocchino, grazie a ciò che sto facendo adesso, sarai giovane e forte anche fra un migliaio di anni.

Improvvisamente, la rinuncia alla gioia non gli parve più necessaria - perché doveva esserlo? Le parole ammonitrici e nefaste di quella donna sembravano vaneggiamenti privi di senso.

Il mare, l'arte, l'amore, uno spicchio d'immortalità… tutto era così… perfetto! troppo perfetto. Un bel sogno?

Zoroastro si alzò di scatto dalla sedia impagliata, cogliendo di sorpresa il proprio "muso" ispiratore; e si diresse verso di lui, accomodandosi sul bordo del talamo e fissandolo negli occhioni scuri ed incuriositi.

S'illuminò mentre gli posava una mano sulla guancia, trovandola appena tiepida, ma colma di consistenza fisica, carnale, tutt'altro che onirica. Pensò che fosse liscia come marmo, scolpita come quella di un nume.

Che c'è?

Il tono della domanda era comprensibilmente stupito, per il gesto evidentemente inaspettato.

Volevo solo controllare… se eri vero.

E, in quell'occasione, non mentiva affatto.

*

 

Ermete:

Ho mangiato il mio cuore.

Vivevo d'un ricordo, lo eri anche prima. La tua Arte. Io non ero lei, lei non era me.

Dilaniato a morsi.

Eri mutato, radicalmente. Non hai resistito a te.

Ti amavo. Anche se spasimavo per Lei, ti amavo. La mia piaga.

Mi chiamava, chiamava, chiamava!

E imponeva , oh Iddio! come negarmi alla sua possenza?

Grande e forte la sua mano. La tua dava forma alla nostra fine. Speculare - chiavi; oltrepassare il limite. L'hai valicato.

Che dicesti? Prima di partire, che dicesti?

Per te, ti ho perso. Ho cercato la creazione al di fuori dei tuoi occhi e guarda! Guarda cosa ho ottenuto! Un punto vacuo contro l'orizzonte e lacrime, una moltitudine di lacrime che mi offuscano la vista.

Non ti trovo più.

Agguantare. Un ciuffo di capelli contro la luce della luna. Gli scogli, bellezze rudi, non modellati…. Il mare. Giù!

Colpa mia o della mia Natura?

Rivolevi indietro quest'anima? Egoista!

Egoista…. Egoista…. Egoista. Lo sono anch'io, proprio come te, proprio come noi, giovani e belli. Chiusi, barricati dietro i nostri giochi, in attesa di fare la guerra. Guerra! Che c'è d'armonioso nella guerra? Vita! Troverò la mia opera in un'esistenza combattuta, disarmata da orde di fantasmi. Il tuo.

Piango contro il petto d'un amico, le mie lacrime per te si fondono con le sue versate per me. È una catena.

Perché? Giù!!!!

Sono ubriaco di sole. Questa è la mia notte, il tuo eterno riposo.

Dove l'hai nascosta? È già terminata?

Siamo i custodi… verrò a prenderti! A prenderti… prenderti! Aria…!

Sapore dolciastro e denso, odioso raschiore, soffoco.

Dove hai occultato il tuo amore ed il sapere?

Mi insegnasti un bacio, te lo pagai col cuore.

Il bosco… ebro di mattine infuocate. Il profumo del mare lontano, emulato da una pozza. Non l'avevo mai visto, ero lì dall'alba dei tempi.

"Dunque sai parlare?"

Seduti insieme sul terriccio. Fru, fru. Friabile e… soffice. Verde erba sui declivi, viscida e ombrosa, nascosta sui tronchi degli alberi. Parassita.

Non rispondevo, non con i termini umani: libero nei boschi; m'incatenò.

Fiore giallo, dalle mie alle sue mani.

Sorrise ed ancor domandò - cosa? l'inizio della mia prigionia, eufemismo d'un editto che non avrebbe ammesso appello. Tuttora niente repliche! Schiavo d'una tomba d'acqua sono!

"Sai cos'è un bacio?"

Avevo i capelli negli occhi perché mi si muoveva il collo. Da destra a sinistra, da sinistra a destra, da destra a sinistra, da sinistra a destra, da destra a sinistra, da sinistra a destra.

Cos'è un bacio? Un bacio cos'è? Cos'è un bacio? Un bacio cos'è?

E ancora e ancora, non mi fermavo: ora desideravo rubargli il mistero, l'arcano d'un bacio, che lui conosceva.

Zoroastro…

"Vuoi che t'aiuti ad apprendere?"

Su e giù, su e giù. Giù!!!

"Avvicinati"

Tremavo; le foglie nel vento scuotevano i passi dei corvi sul limo; vicino, dovevo farmi vicino. Volevo, bramavo capire il perché non ebbi né dubbi né se, solo il timore che… facesse male. Un ramo rovente, era notte. Ahi! L'intensità del dolore che si mostra a colui il quale non lo può controllare. Non sapevo. Non sapevo! Non dominavo nessuna materia. La Parola.

Caldo bruciore che non può guarire se non col tempo. Pensare. Non lo feci. Restai ad aspettare.

Un bacio sapeva di sale o di fuoco?

Non riuscii ad avanzare.

Qualcuno ne aveva parlato, chi e dove non so ricordare; ma io non avevo capito una bocca con verbi d'amore.

"Non temere"

E , invece, avevo paura, fremevo. I tizzoni ardenti, la sera, tutto di nuovo nelle sue iridi scure. Era, però, ancora mattina. Mattina… di mia vita. Di giorno non volano gli spettri, ma straziano l'animo coi ricordi! Ricordi! Ricordi! I miei ricordi….

"Avvicinati"

Eppure, era egli a farsi più presso di me, sempre più presso.

Diciassett'anni, non di più ne aveva; ed io meno, pochi per anticipare il futuro in una folgorazione del passato.

Passato. Una sua mano sulla mia spalla e l'altro braccio intorno a me, tenendomi stretto; in un balzo, un istante. Sogno. Le sue morbide labbra sulle mie, delicate ed umide, senza osare oltre per rispetto all'ingenuità. Passo dopo passo, fino all'esperienza.

Passato. Un attimo ed era passato, finito. Ed è finito anche lui. Ma è me, è il mio passato.

"Questo è u bacio"

Un soffio, tenero sospiro malinconico, voluttuoso. Ancora contro me. Paterno. Una sensazione che avevo dimenticato.

Piango il mio passato, con me e tutti i miei morti.

*

Una volta mi è stato detto che, nella vita, si può avere uno e un solo grande amore.

La luce d'una candela, la cui cera gocciolava lungo la bottiglia verde che era stata impiegata come base, rischiarava appena l'ambiente, creando un intrigante incantesimo d'ombre e luci dorate, caldi bagliori nel tetro ed impenetrabile buio della notte.

Una spessa cortina di nuvole nere velava la luna e le stelle, simile ad una macchia d'inchiostro capitata, per il gesto sconsiderato d'un pittore capriccioso, su un quadro bicromatico.

E tu cosa ami?

Zoroastro era seduto ai piedi del letto, abbracciandosi le ginocchia e contemplando un punto sospeso nel vuoto, lo sguardo perso e triste. Cosa amava lui?

Non gli faceva piacere che l'allievo formulasse una simile domanda, non con quel tono, il qual non ammetteva che un'unica risposta; ma, evidentemente, se aveva giostrato il discorso in modo tale da esordire con quell'affermazione, in fondo, così desiderava sentirsi interrogare per dare le dovute risoluzioni, delucidazioni forzate.

Non presto fede a chi mi riferì una cosa del genere.

O, perlomeno, portava violenza al suo io per non farlo. Doveva amare le proprie virtù, giacché per esse sarebbe perito d'una morte onorevole; ma quali erano realmente?

Il combattimento non l'aveva mai coinvolto del tutto: da sempre, per i Cancer, era stato un atto inevitabile e forzato, una costrizione; perché la loro natura, i loro scopi, erano altri.

E lo sapeva.

E se, invece, avesse ragione?

Ermete si era chinato su di lui, incrociandogli le braccia intorno alle spalle e posando il proprio capo fra il collo e la clavicola del maestro. Questi riusciva a percepire il suo fiato tiepido, ad emissioni regolari e rilassate, sulla propria pelle e lo riteneva piacevole.

Se fosse stato un uomo, semplicemente un uomo, un uomo come tanti; non avrebbe preteso altro dalla Vita, o sarebbe stata Essa a non domandargli più nulla. Egli, però, era un cavaliere che, ufficialmente, perseguiva lo scopo di servire Atena fino alla morte; sebbene, in realtà, il Fato gli avesse affidato un compito assai più gravoso ed esaltante, vicino al ruolo dei signori dell'Olimpo.

Per sopravvivere, il suo discepolo, come egli stesso a quel tempo, avrebbe dovuto apprendere come si giocasse a sostituire Dio.

Ogni regola ha la sua eccezione, no?

In fin dei conti, non c'era altra via d'uscita; neppure il Destino dominava l'amore, che dipende solo ed esclusivamente dai comuni mortali. Ne era convinto.

Mentre soffiava sulla tremolante fiamma e si stendeva accanto al fanciullo, si rese conto di aver determinato ben poco durante il corso della sua peregrinazione sulla Terra. Forse aveva perso la propria partita col mondo. Magari Ermete, fra qualche anno, sarebbe stato migliore di lui; ma adesso, celato dalle confortevoli dita della sera, si abbandonò alle proprie debolezze ed esaltò il suo grande e radioso peccato.

*

 

Eros:

 

A volte mi chiedo che diavolo abbiamo sbagliato in questo sregolato ruotare di uomini e fatti, sulla scacchiera d'una battaglia che si delinea all'orizzonte, sempre più nitida. Contro noi stessi.

A volte mi chiedo cosa sia capitato nelle lontane lande di Grecia; la tensione di Médée…

A volte mi chiedo che sia la mia bellezza, la medesima che cerco in te, che mi sei fra le braccia. Esausto, ti sei assopito, cullato da insostenibili vaneggiamenti.

Cosa rivelerebbe una qualsiasi conclusione, cosa?

Zoroastro è morto. Tu non pensi al presente né al futuro; vivi nel passato, cavaliere senza vestigia. Come, come conquisterai l'armatura? Con che criterio e in base al giudizio di chi? Chi?

Non era questo che volevo per trovare la tua debolezza e finalmente, una tantum, sentirmi io il forte. Il suo sorriso… un sorriso di donna potrebbe mai rendermi uomo?

Ella che parla sol di beltà. Una carezza…. Io non ne ho nemici; come tu hai perso la causa per cui lottare, così io ho obliato i miei avversari. Non li ho individuati.

Buio, silenzio profondo: scende la sera, la bufera impazza su queste lande oscure.

Sorgerà ancora il sole… per noi?

L'ho mai visto io sulfureo pallore pronto a svanire, questo riscalda il mio cuore, nulla di più.

Gioisci! Oh, bambino, gioisci…

Gli occhi del tuo maestro erano colmi d'amore, per te e per l'arte… per te.

Quelli della mia non hanno niente, niente! Iridi di ghiaccio senz'anima, spirito votato ad una prigionia tombale.

A volte mi chiedo se sia vera… se mi indirizzi sulla retta via, sospendendomi a metà su ogni crocicchio: non creo né distruggo, contemplo solo il creato, come ora miro te. Il tuo fiato. Quante volte sei stato così… così… con lui?

Io mai; non una parola più del dovuto. Ore di fronte a una rosa per ascoltarne il ta

re. Mi abbracciava e non c'era. I suoi baci sono vuoti, come donna e come madre. Volle divenire tutto, peut-être, e non è rimasta in alcuna forma del percepire umano.

Tu sei il mio colore. Il marmo la farà cantare in una poesia di sangue ed acqua gelata.

A volte mi chiedo….

Ma ora…

Piango la vostra morte e me, che mai sono nato.

*

Sveglia….

Aveva bisbigliato appena, sfiorando, steso accanto a lui, una spalla del ragazzino, con dita gentili. Faceva perno su un gomito, per chinarsi a guardarlo, rammaricandosi della necessità di destarlo: l'alba era sorta da un pezzo e fra non molto sarebbero giunti in prossimità della costa, dove lo sguardo riesce a rubare un ritaglio di terra al mare, prima che il litorale fosse in piena vista.

Desiderava che Ermete vedesse, al fine di imparare qualcosa di più che un'inutile guerra insensata, basata sull'ingiusta ambizione ad un potere illegittimo.

Bene e male… tutto era relativo; quando fosse giunto a comprendere, l'avrebbe ringraziato per quell'unico grande insegnamento.

Bene e male… ne avevano parlato anche a lui, anni prima, ai tempi in cui si allenava per conquistare il titolo - ma perché?- lo stesso titolo che l'aveva marcato come eretico e blasfemo, come intrigante che fuorvia la dottrina.

Ora, però, non ci pensava affatto: nella sua mente avevano senso solo il bel viso del discepolo e il radioso mattino.

Sveglia… bambino, sveglia….

Eppure, quasi gli dispiaceva che stesse per aprire gli occhi, come preannunciavano i pochi mugolii, sommessi e infastiditi, che emise girandosi su un fianco; sarebbe rimasto così, chinato sul suo sonno, fino alla fine del mondo, trafugando un brandello d'eternità alle avide stelle.

Scesi dalla barca, come dopo ogni viaggio, molte cose sarebbero mutate: la magia del Mediterraneo li avrebbe abbandonati, restituendoli alla routine quotidiana, al gravoso onere dei doveri.

dal momento in cui il fanciullo avesse ripreso i sensi, Zoroastro gli avrebbe rivolto solo sorrisi furtivi, movimenti appena accennati d'un ladro nell'ombra.

Nei panni di cavaliere non l'avrebbe amato, non come anelava a fare, e neanche l'allievo, una volta superato il maestro, l'avrebbe ricambiato: ne sarebbe semplicemente stato incapace, da bravo amante fedele al proprio compito di custode e sacerdote d'una dea eccessivamente fredda e… lontana.

Atena! non gli sarebbe più stato talmente vicino… non con l'anima.

Doveva scolpirlo così, ancora nel fiore degli anni e dell'innocenza, per avere lo spettro d'uno spirito da stringere nel letto…. Quel bimbo, per amor suo, si sarebbe dilaniato il cuore in petto, ingoiandolo morso su morso e, allora, sarebbero morti entrambi, sebbene uno, almeno uno, avrebbe continuato a vagare, come un misero riflesso, attraverso oceani e deserti, in cerca della metà perduta, smarrita sin dall'inizio.

Médée gli aveva parlato; dopo un silenzio durato stagioni era ricomparsa, fantasma emerso dall'Ade, per metterlo in guardia dai propri sentimenti: se gli era affezionato, era indispensabile che lo distruggesse affinché l'apprendista riuscisse a valicare il limite fra questo mondo e l'altro.

L'arte… l'arte l'avrebbe conservato, ma non fra gli uomini: solo nel loro minuscolo Elisio personale, destinato a crollare sotto i colpi della realtà di là fuori.

Sveglia…

E si trasformò nel principe che in un alito dona la vita all'addormentata.

Era mattina; la notte si era spenta, il viaggio giunto a termine.

Bisognava lasciare il paradiso per sprofondare nei meandri dell'inferno.

Ma, dentro di sé, un uomo sapeva che avrebbe rivisto ancora le stelle abbracciando il suo amore.

Fine I capitolo

Nuit de l'Enfer

(Parte prima)

 

Terrified again

Of not loving

Of loving and not you

Of being loved and not by you

Of knowing not knowing pretending

Pretending

 

I and all the others that will love you

If they love you

 

Unless they love you

 

Samuel Beckett-

 

Ermete:

Strimpellavano i vulcani, quella notte.

No: era uno con mille bocche.

Tutto era strano su una terra di nessuno, forse tua, comunque non mia di certo, anima cara.

Strimpellavano i vulcani, quella notte.

L'intera mia voce era un'unica canzone: il cielo grigio di sulfuree nubi, la melodia d'una speranza nuova. Speravo in cosa?

Di piangere, un giorno, per la gioia; imparare le lacrime d'un uomo realizzato.

La vita sfuma i sogni, la morte li conserva… a pezzi.

"L'amore non esiste, non fra le persone" parole tue, bugie! quante bugie! Sempre e solo bugie! Per cosa? per rincorrere il tuo sogno, la tua bellezza assoluta ed imperitura?

I desideri sublimati, ogni paura… un riflesso brillante che ritorna.

Lo strimpellavano i vulcani, quella notte…

Anche se fosse verità la menzogna d'allora, oggi cambierò le carte in tavola: la ragione sarà del pazzo.

I riverberi d'un sorriso andato non si sono spenti; sebbene tu non sia più, io ti vedo… ti vedo! Leggero! Passi di piuma sul ghiaccio, soffio di vento sul gelo della mia disperazione, su un'acqua ardente che non riscalda, ma che piano ed inesorabilmente consuma le pietre e lo spirito.

Anima.

Stella d'imbrunire, sotto la neve che per te si dirada. Per te!

Iddio, potessi ricordar le tue canzoni…

Orfeo che passa l'inferno; tu ne emergi da salva Euridice, rubi la musica altrui, le pulsazioni d'un altro.

T'avanzi, costante e irreale su una landa pallida; i primi raggi della sera, dita incantate ti scompigliano i capelli.

Tante lacrime, la vista offuscata, occhi stanchi del mondo che non può offrirmi altro - cosa ha mai avuto da darmi? cosa? - braccia tiepide d'un fratello che ha dimenticato il sole. L'anima d'una donna fredda, che non conosco e di cui ignoro il ruolo nel gioco, aleggia minacciosa sui fantasmi del vespro.

Su noi.

Riesco, però, a sentirti… il dolce mormorio del tuo respiro…

Vivo.

La tua musica di singhiozzi, l'ultimo pianto e poi gli occhi freddi. Adesso, bruciano di febbre o fuochi fatui…

Sapremo scaldarci anche a quelle fiammelle tremolanti e stremate dal non essere, dal non vivere.

Acqua…. Esangue.

Fluido abbattimento, una goccia di tristezza sul marmo perfetto.

Ben lungi da me l'armonia, ma tu ti fai sempre più prossimo ed io ti attendo.

Come sempre.

Al momento.

Ricordi…?

Vivo.

*

Non possiamo andare avanti così!

Gridò, scaraventando a terra il sacco colmo di mele, che era appena andato ad acquistare in paese, giù fra la gente pronta a fulminarlo con occhiate ambigue in una bolgia di mormorii maliziosi, sconvolti, compassionevoli o colmi d'odio… dicerie oculari d'ogni sorta!

Irritanti. Irritanti come il comportamento dell'altro, accanitosi sul non capire o, semplicemente, sul non volerlo fare.

Così come?

Guardati!

Aveva ritrovato un po' di calma, la stringeva fra le dita come un filo di seta pronto a perdersi nel vento, a volteggiare nella polvere d'un fuoco ancora acceso, lì sull'Etna.

Aveva riagguantato quel po' di compostezza e distacco che Zoroastro gli succhiava, goccia su goccia; sanguisuga affamata, bisognosa di nutrimento.

Perché?

Un lungo momento di silenzio, lungo e terribile, lungo e intollerabile.

Fremeva come una corda di violino, in attesa; pregando sommessamente, con un pensiero inespresso, che Zoroastro proferisse qualcosa, qualunque cosa, o lo degnasse d'uno sguardo. Uno sguardo soltanto e sarebbe stato salvo!

Salvo!

Lasciami in pace…

Pace? Pace?! E cosa dici a me, eh?! Come pretendi che io trovi la mia pace se per te, ormai, non esiste nulla al di fuori di quel pezzo di marmo?! Marmo, Magister! Marmo! Non ho uno scopo e non sai inculcarmelo, sei bravo solo a piangerti sulle ginocchia! Non vivi e te ne rammarichi! Che vuoi scolpire? I tuoi fallimenti?

Credevo potessi comprendermi.

Era triste, ed Ermete non poteva sostenere quella nota di malinconica commiserazione nella voce del suo… suo cosa? cosa erano, in realtà, loro due?

Che c'è da capire? Te lo esplico io: ti stai consumando per un'opera che non riuscirai a scovare dentro di te, e ne sei pienamente consapevole. Ancora… mi assegni esercizi, esercizi su esercizi, senza incrociare i miei occhi, dandomi la schiena; mi allontani quanto prima. Non è finita… stai qui, giorni e notti, intorpidito da un'inerzia totale e paralizzante… e, per giunta, mi fai gentilmente sapere di considerarti incompreso! Insomma…

La voce gli si strozzò in gola, tramutandosi all'improvviso in un mormorio flebile e spezzato, soffocato da profondi singhiozzi e da un ringhio di rabbia contro se stesso, furia istintiva per essere scoppiato in un pianto convulso davanti a lui, a lui che non avrebbe, per nessuna ragione al mondo, dovuto vederlo colà e che, nonostante ciò, continuava a non voltarsi: la linea diritta e tesa delle sue spalle robuste era immobile e ferma.

Bambino…

No! non parlarmi! Né così né in alcun altro modo! Non sono un bambino…. Non sono un bambino…. Per Giove! Ho quattordici anni! Quattordici! Sono uomo almeno quanto te, ma - è vero - come fai a saperlo? Ho perso il conto del tempo in cui hai dormito solo… tu non…. Io non ti comprendo, non colgo il senso della tua follia, ma tu non compi nessuno sforzo per venirmi incontro! Non l'hai mai fatto…

E, con le gote rigate da lacrime scintillanti e copiose, corse via sbattendo la porta dietro di sé.

 

*

 

Eros:

Le tue mani calde e sussurri, sussurri insensati.

Sospiri e lacrime e poi… Che fai?

Parli di cose strane, cose che non conosco e ti stringi… ti stringi… ti stringi!

Sapevo. Sentivo sin dall'inizio. I giochi felici nelle terre dal tardo meriggiare, compostezza statuaria, colonna vittima di febbri sconosciute e incurabili.

Pietra corrosa.

Tradito da quanto ti porti dentro, perché il fuori non ti tocca. Neppure io.

Non ti amo: troppo egoista e plagiato dalla sorte beffarda per farlo. Ti voglio bene. Soffrire.

Sei prigioniero di te stesso.

Médée… volle liberarmi o ingabbiarmi, non posso dirlo, non ora. Sono a metà: nulla è mai espresso in toto ed io resto sospeso.

Apnea.

I battiti del mio cuore impazzito.

Bellezza che non muta e non si piega ai giorni, alla nostra guerra. Vita.

Bellezza indomita.

Perita.

Tu palpiti ancora: ultimi spasmi d'un animale agonizzante. Moribondo nel cuore.

No, non saprò salvarti. Chi mai ottiene in soccorso desiderato?

Darò. Darò perché tu deceda o rimanga, libero o incatenato. Acqua schiacciata contro la terra o impalpabile vento in ascesa.

Sii ciò che brami. Avrai l'addio cui aneli.

Da lui.

Da me.

Mi abbandono, concedendomi completamente al tuo incubo. Incubo?! Sogno. Io sogno di nascere e nasco! In compenso, avrai il tuo idillio di morte.

Zoroastro… insegnargli cosa? immortalare chi?

Ucciderò la tua creatura. Sono pulsante anch'io; gli strapperò un'immagine dal petto ed una stilla di rugiada.

Rugiada, intrisa di notti.

Lucente al sole.

La tua anima e sarò uomo anch'io.

Non più muto spettatore.

Ecco un corpo per dar commiato ai tuoi spettri. Amico…

È quanto vuoi. Baci eloquenti, i tuoi. Troppo!

E fremo… arcano calore e fretta di venire al mondo.

Eccoti muscoli, carne per congedarti dalle visioni del passato.

*

Correva.

Ignorava dove le gambe lo stessero conducendo, attorniato da una spessa cortina di tenebre, sotto il cielo sereno dimentico della luna, punteggiato da qualche stella; ma continuava a correre… via da lui o dalla memoria che ne aveva.

Diversa.

Fuggiva.

L'oscurità gli scivolava addosso, costantemente uguale a se stessa, passo dopo passo più cupa… più disperata.

Senza uscita.

Troppe cose erano fosche, troppo torbide per essere interpretate e capite: i suoi pensieri erano un libro chiuso oppure non aveva mai imparato a leggere.

A leggerlo.

L'aveva chiamato "bambino"… bambino!

Scappava anche dalla propria infanzia, dalla fanciullezza che Zoroastro gli aveva rubato, strappato di mano e fatto a pezzi, gettato al vento.

Gli teneva il cuore in pugno e, invece di vivere, di vivere e consentirgli di persistere nella ricerca d'uno scopo; invece di ripagarlo per tutto l'amore che stava trafugando e confessargli le parole dimenticate, risalenti ad anni prima; preferiva consumarsi contro un pezzo di pietra.

Invece di amarlo lo uccideva.

E il giovinetto stava abbandonando, per una manciata di nulla, la propria morte vivente, lì di fronte al niente, avanzando fra rocce scoscese e remoti bagliori che spiccavano sul cielo monotono, giù su prati e fra arbusti. Veloce…

Veloce finché la terra cedette il passo… al vuoto.

Oltre l'orizzonte doveva esserci il mare, il mare su cui erano stati felici, dove aveva colto ciò che il maestro temeva: era lui; egli era la sua maggior paura. Probabilmente l'unica, magari la principale.

Pugnalandolo alle spalle, credeva forse di esorcizzare un sentimento negato e rinnegato vanamente?

Aveva dimenticato? come aveva potuto?

I bei colori del bosco, nel tempo in cui la primavera già assume le pingui fattezze dell'estate, della calda estate italiana. Tutto un gaudio di colli si presentava loro, un armonioso cinguettio d'uccelli, il mormorare sommesso d'un rivo che si snodava sinuoso sino alle acque d'un lago stagnante. Un alito d'aria ed un sospiro di vita.

Un suo bacio.

Aveva scordato?

- Al diavolo…. Al diavolo per avermi mostrato tutto questo e permettermi di distruggermi nel rimpianto. Al diavolo!

singhiozzava ancora, troppo stanco per proseguire la propria avanzata verso la perdizione, forse finalmente alla pace della tomba; privo delle ali adatte a volare. Se anche le aveva avute, una volta, ormai erano spezzate.

Anelava al cielo e, con una mano protesa verso un piccolo punto luminoso, si lasciò cadere pesantemente sull'erba, abbracciandosi le gambe e sommergendo il viso fra le ginocchia.

Non mi resta che la notte.

E, probabilmente, aveva ragione.

*

 

Ermete:

Forse discorrevi di dio. Un lungo ed inutile soliloquio.

L'ennesimo nonsenso di tutta questa storia.

Magari una corda sottile, un fine finimento d'argento vibrava nell'aria, turgido di tensione.

Probabilmente neppure tu sapevi cosa volessi dalla vita né, tantomeno… da me.

Ombre. Scendevano cupe nubi sulle screziature delle tue iridi. Violacee.

Forza animalesca, ci attirava e allontanava.

Amici - Nemici.

Finalmente diventammo quanto ti chiesi di spiegare, mesi prima, non certo anni!

Le cose seguono comunque il loro corso. Agiscono da sé. Eventi che non sappiamo controllare. Destino.

Paura.

Terrore di non finire, di non terminare in tempo e d'aver perso tutto… per nulla.

Zoroastro…

Hai dimenticato?

Cos'è codesto misterioso sorriso?

La tua bocca addolcita da una tenera piega. Zigomi alti. Occhi profondi. Stesse fattezze d'allora. Così… così luminoso di….

Vita.

Zoroastro…

Il profumo della tua pelle chiara, luce spettrale e funeraria, guance lisce d'un giovane pieno di forza.

Muto desiderio.

Bambino mio…

Parli, mi parli di nuovo. L'identica voce delle ore felici , sotto le stelle.

Felici!

Signora…. Perché t'incuteva tanto timore l'idea della gioia? Perché rinnegarla? Perché rinnegarmi, senza scacciarmi, ma chiudendomi fuori da te?

Tu… tu…

Non trovo una domanda da rivolgerti: tante cose mi sono oscure, una moltitudine di quesiti mi affiora sulle labbra e uno m'assilla, m'ossessiona.

Piango ancora. Per te, che insisti nel tormentarmi.

Un ultimo cosciente goccio di miele prima di distruggermi fino all'estremo limite dell'eternità.

Un ultimo assaggio di ambrosia, per poi precipitarmi giù dell'Olimpo. Siamo incatenati. Mi trascinerai con te!

E che sia. Non ho intenzione d'aspettare nuovamente.

Tu…

Io sono qui.

Questo mi basta.

Non voglio sentire altro. Lasciati stringere. Concedimi un barlume di dimenticanza fra le braccia dei miei ricordi.

*

Per tutte le illusioni che erano cadute all'improvviso, senza vacillare prima dell'istante del crollo; per il suo tono vuoto, malinconico e intristito, cupo d'una malinconia che era da addebitarsi a lui e a lui solo; per quanto gli risultava incomprensibile e insensato; si sentiva svuotato…

Deluso.

Finché si ha qualcosa in cui sperare, in cui riporre ciascun grammo della propria fiducia, allora si è bambini, ingenui fanciulletti che ancora poco hanno appreso dalla cruda quotidianità, infanti inermi di fronte alla vita.

Di fronte a lui, alle sue spalle diritte ed affilate, taglienti più di lame.

Senza speranza non si è esposti al pericolo di soffrire, al rischio incombente di perdere l'anima, confondendolo in quel grande calderone di fattori.

Senza felicità, nessuno può portarsela via.

Altrimenti, si sarebbe aleggiati in un fluido di minaccia onnipresente, spaventosa ma...

Eccitante.

Aveva sbagliato, commesso l'ennesimo errore nel corso d'una lezione che non sarebbe mai finita; non era riuscito a mantenere le aspettative del maestro, ma aveva considerato costui le sue?

Non contava affatto: era secondo ad un blocco di marmo vergine. Perché? Ancora perché…?

Non aveva più nulla da offrirgli?

Eppure… ho tanto da… ricevere…. Ricevere.

Singhiozzava, incapace di fermarsi, di concedere un alito di riposo al respiro provato dalla corsa e dal pianto. Morire di sofferenza… perire e rimanergli sulla coscienza, angosciandolo fino alla tomba con la consapevolezza d'una colpa fatale.

Tradimento.

Che idee assurde! Assurde! La sua esistenza non aveva né capo né coda, fatta di immagini fluttuanti prive d'ogni importanza, riflessi effimeri e passeggeri.

Viveva per lui, solo per lui. E, smarrendolo, perdeva ogni cosa, anche se stesso.

Fuggendo dalla sua bellezza tenebrosa… si sarebbe dilaniato il cuore, ingoiandolo morso suo morso.

Ma, in fondo, prima o poi sarebbe dovuto succedere, fra due come loro, all'inseguimento di un sogno più grande; era inevitabile.

Ermete…

Un lieve sussurro dietro di sé - il rumore dei passi era stato attutito dal fiorente manto erboso - lo riportò alla realtà, strappandolo bruscamente ai propri pensieri.

Ai propri vaneggiamenti.

Mentre l'altro gli si avvicinava piano, avanzando con circospezione, come temendo di essere troppo brusco o, semplicemente, invasivo; il ragazzino si teneva il viso premuto contro le rotule, interdetto alla luce fioca della notte impenetrabile, rischiarata da qualche timida stella.

Ermete…

Gli chiedeva il permesso di assediare un regno privo di padrone, l'insidiosa terra di nessuno; di ripiombare con la propria entità fisica in un caos tutto mentale.

Un inferno privato.

Non venne consenso… né rifiuto.

Zoroastro gli si sedette accanto, rivolgendogli uno sguardo che, benché non levasse gli occhi ad incontrare i suoi, il discepolo si sentiva addosso, interrogativo ed inquisitore…

Tentatore.

Ermete…

Tu…. Tu…

Non sapeva che dirgli, voleva solo allontanare la minaccia di ricascarci, di farsi nuovamente abbindolare da qualche frasetta dolce ed un'interminabile carezza. Non sarebbe tornato in gabbia; non più.

Io sono qui.

E gli passò un braccio intorno alle spalle, tirandoselo al petto in un gesto paterno e lasciandolo piangere contro la propria clavicola.

Non volevo. Credimi, piccolo mio, non volevo…

La voce gli tremava, specchio di una volontà lacerata da rimorso e esitazione. Si era, però, spinto troppo oltre: la sua opera…

… io devo finirla.

Mentre pronunciava le ultime sillabe, si sentì un idiota o soltanto un pazzo.

Un ulteriore singhiozzo del compagno, eccessivamente fuori di sé per mantenere finanche il minimo controllo del contegno misterioso che lo rivestiva d'una luce attraente e sensuale, intrisa d'una virilità velata dalla svolazzante coltre dell'adolescenza; fu per lui una pugnalata inattesa.

Era un verme. E lo sapeva.

Io… Ermete… non, non…

Balbettava turbato, visibilmente a disagio, indeciso se rimanere fedele alla causa o venire meno al dovere di cavaliere, sacrificando le convinzioni di un'esistenza intera ad un faccino che sarebbe forzatamente scomparso, presto; molto presto.

Era là, fuori del proprio personale universo, disseminato di vittime ed arte; era là, accarezzando una creaturina tremante cui avrebbe offerto tutto, ma che non lo guardava, non accettava quelle pseudoscuse né le respingeva, rimanendo distante, avvolto in un fosco mantello di dolore.

Ti chiedo scusa.

Gli aveva sollevato il mento fra tre dita, costringendolo ad incrociare gli occhi con i suoi, percependo in lui un brivido gelido, che gli correva per la schiena.

Ermete aveva paura, probabilmente anche Zoroastro.

Temevano per ciò che le scelte di allora, le decisioni annebbiate e irrazionali d'un frangente d'eternità che sarebbe passato, lasciandosi dietro conseguenze imprevedibili; avrebbero comportato.

Erano due Cancer, dalla calma soltanto apparente, sotto la quale ribolliva il fermento d'un tormento radicato, una sensibilità oppressa dall'onere del dovere.

Erano fragili.

La vita li avrebbe massacrati.

Entrambi, però, non l'avrebbero mai ammesso; non l'uno di fronte all'altro.

Posa per me.

E, così, scagliava la prima pietra della loro lapidazione.

*

Eros:

non ho nulla, e pretendo di darti tutto.

Sono un tramite. Messo viaggiatore. Messo di qualcosa che non mi appartiene.

Un nemico.

Cosa c'è di bello nella guerra? Nel sangue? Nella morte. Quella ch'era gente non sarà più niente.

Niente.

Invincibile: la mia assenza di morte è invincibile, non posso sconfiggerla. Non la vedo. Non sento.

Médée…

La bellezza, ma quale? Quale? La tua?

La tua non lo è: si tratta di disperazione, pura disperazione.

Non hai accettato il continuo divenire, l'allontanarsi del traguardo. Ad ogni passo.

Non poteva essere parziale. L'insegnamento completo ti ha sconvolto.

Nemici…

Ferito a tal punto che cerchi di dimenticarlo.

Inseguo i miei nemici.

Invano.

Non sono in pace né in conflitto. Non con me né con alcun altro essere al mondo. Non sono esistito. Mai. Culla. Non sarebbe stato poi molto diverso.

In fondo.

Cosa so io? Adesso? Cosa? cosa?!

Signora? Impartire lezioni, io?!

Ti insegno la perdizione pur non avendo avuto alcunché da smarrire.

Non ho un tesoro da scovare. Mare deserto. Mare maledetto!

Come te. Gelido marmo.

Come lei. Lei che taglia fili su fili, vite su vite ed intreccia le trame.

Penelope sfila di notte e ritronca i miei sogni. S'illude: non ne ho.

L'unico gaudio che ottiene è tenermi, imprigionarmi qui senza sperare, senza osare pregare.

Per cosa? perché finisca.

Non avevo questo. Eppure è arrivato da sé; il buon profumo del sole.

Con te e col tuo dolore.

Non l'ebbi mai domandato. Mai.

Oggi mi prendo il mio idillio. Una beffa a chi m'ordinò di non ridere e consacrarmi al gelo, come i suoi occhi…

Spenti.

I tuoi bruciano, ardono di mali convulsi; non più gelidi come sul litorale greco, alla vigilia della partenza. Distanti…

Non li saneremo, non ora e non qui.

Contagia anche me, fremo di scoprire quel che ancora non so.

Agitato. Tu non lo eri mai: già avevi la tua conoscenza. Io no.

Contagia anche me: nella malattia finirà il torpore deficiente di salute o infermità.

Privo di imperfezioni, privo di… vita.

*

Siediti lì.

Armeggiava con le candele per l'illuminazione, contemporaneamente cercando gli attrezzi, frugando freneticamente nella penombra, rapido nella sua agitazione. Il ticchettio dei passi, lo sfregare metallico di lime e scalpelli poggiati assieme per puro caso, in un gesto sonoro, era l'unica reminiscenza che avessero del tempo, nella capanna di gelida pietra, con le imposte della finestra sbarrate per non lasciare entrare una notte che sarebbe stata lunga.

Ermete si accomodò sul bordo del letto sfatto, il volto congestionato semi inghiottito dall'oscurità, i pugni chiusi posati sulle ginocchia, come uno scolaretto impaurito dal potere dell'autorità.

In fondo, anche lui era del tutto inerme, sottomesso. Aveva provato a fuggire, spinto da rabbia o delusione; ma aveva fallito e non gli restava che continuare.

Infelice e fedele.

Zoroastro si fermò, in bilico fra il tremolante bagliore di tre piccole fiamme e le tenebre rossastre, costrette a strisciare sulle pareti, cacciate via dallo spazio intriso d'una luce dorata che giocava sulla pelle abbronzata delle gambe del ragazzo.

Porti ancora i pantaloni corti.

Osservò il maestro, senza una particolare inclinazione nella voce, ricevendo in cambio una cupa occhiata obliqua, carica d'attesa, di paura dell'ignoto.

"Non sono più un bambino"

Ogni cosa sarebbe stata diversa, ma doveva riuscire a fissarsi nell'anima la sua innocenza, imprimerla nel proprio cuore di pietra.

… benché tu ormai sia un uomo.

Non voleva essere ironico né pungente, ma probabilmente l'altro, a giudicare da come tese improvvisamente i muscoli del collo, che iniziavano a rilassarsi, aveva di netto frainteso.

Si avvicinò, perdendo le sue pupille negli occhi rossi e gonfi di lui, contandone i capillari irritati, cercando i solchi lasciati dalle lacrime sulle guance belle e calde come il sole. Si chinò, sfiorandogli la pelle liscia ma tesa d'una gota, gelida.

Non credevo che… sapessi piangere.

Non credevo che me lo avresti insegnato e non sapevo che facesse così male.

Aveva un tono inespressivo, distante, del tutto disincantato, smarrito nella minuscola goccia che, quasi nascosta, gli stava già scorrendo giù per la gola.

Non voglio… non posso perderti.

Era tenero, gentile mentre gli sussurrava quelle parole che, pronunciata da qualcun altro, sarebbero suonate come una dichiarazione d'amore; e gli lasciava scivolare la camicia bianca su una spalla, rivelando una clavicola armoniosa, immobilizzata in un'unica contrazione di muscoli e volontà.

Mi chiedo se tu mi abbia.

Ti ho mai avuto, bambino mio?

*

 

Ermete:

Cosa cerchi da me?

Cosa? cosa? il profumo della tua pelle non è stato lavato via dal mare. Dalla morte. Ci sei di nuovo, come se non fosse cambiato nulla; nulla.

Le tue labbra. Lo stesso sapore.

Non rispondere. Taci. Baciami e basta.

Saprò farti mantenere il silenzio.

Maestro… non hai nulla da spiegare. Nulla.

Non rendermi conto dei tuoi errori.

Non del tuo dolore.

Non di quello che mi hai fatto ingoiare, gustare lentamente.

Piano. Boccone su boccone.

Il mio cuore… dilaniato a morsi; un monumento in pietra.

Fermo. Vieni qui. Abbandonati alla sorte e non scappare.

Sei fuori del tempo, distante dal destino.

Cancer… per te l'Ade può aspettare. Ora sei qui per me, solo per me.

Insegnami l'ultima lezione, amore. Insegna.

Il tuo saluto, piccolo mio.

Sei fuggito, corso via, ungi da me, dalle mie braccia e dai miei sogni. Lungi da quello che siamo adesso, e saremo potuti essere.

Sono ubriaco di dolore e credo finanche di poter essere felice. Felice…

Ave magister, ego periturus mortem et te saluto.

Ridi. Cristallo argentino che sbatte sul ghiaccio, del tuo tocco disanimato.

Questa notte d'incubi antropomorfi non mi darà che rimorsi. Sono avvolto dai miei rimpianti, che sghignazzano allegri.

Sei diventato un uomo; non morirai… non per me.

Mi sciolgo in un pianto profondo, sommesso e pacato. Come un bimbo cresciuto, contro la tua spalla, la tua clavicola un tempo morbida e calda. Oggi è di marmo.

Ex vita discedo tamquam ex hospitio, non tamquam domo. Rammenti? La cosa più bella, quella più cara… l'unica veramente importante…

Parlavi, parlavi anche allora. Dicevi cose che non capivo, in una lingua strana. Al lago. Un fiore giallo fra le mani. Conservalo negli occhi.

Avrei presto appreso, scoperto il senso stesso delle parole, non quello che gli davi.

Mi hai amato, spettro? O torni nel mio sogno per placare la mia paura e lavarti la coscienza?

Il sole. Giorno e mattina. Vita e giovinezza.

Infanzia.

Innocenza… carpita.

… sei tu, discipule.

E così… così parlò Zoroastro.

*

Zoroastro lasciava scivolare le dita sul marmo liscio, ancora liscio, ignaro di che fosse uno scalpello, lasciando copiose tracce d'acqua, gocce che scorrevano lungo la pietra pallida, illuminata dalle candele, incupita dalla notte profonda.

Accarezzava il suo capolavoro nascosto, sospirando di vivo desiderio, spasimando di stringere un sogno senza doverlo distruggere, di concretizzare un ideale pur non trovandosi costretto a sacrificarlo alla realtà. Fare del proprio amore, di quel fanciullo ancora sconvolto che posava per lui seminudo, le mani giunte, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo assente di chi cerca altrove la risposta alle proprie domande; fare di quella carne mortale un monumento che non teme il tempo e legarlo a sé, trasformandolo nella sua stessa felicità, tale era il suo folle proposito.

Fissava il blocco marmoreo, come se potesse prendere da sé le sembianze dell'efebo; fissava il marmo e continuava a tastarlo, a cospargerlo del liquido che non sarebbe sgorgato dai suoi occhi, non allora; insisteva in un umido abbraccio, per rubare il pianto della terra o espiare quello del ragazzo.

Dimmi… dimmi se mi ami.

Parlava con lui o con l'opera?

Non avrebbe mai dovuto azzardare la domanda, regalando all'altro la convinzione d'avere qualcosa di più che un evanescente e freddo insegnante, ossessionato dalla propria arte, da perdere; eppure la richiesta era affiorata sulla sua bocca, concepita da un cervello stanco e accaldato, impegnato a combattere col presente deluso e gli spettri del passato… col fantasma di lei.

Cosa?

Dimmi se mi ami.

Lo ripeteva, incapace di tacere o scolpire o guardarlo negli occhi e raccontargli il proprio dolore, spiegargli ciò che gli sarebbe toccato patire fra qualche anno oppure di lì a pochi giorni, rivelandogli il dramma d'essere padroni del tempo e schiavi di sé stessi.

Di sé stessi e delle proprie paure.

Lo sai che ti sono molto affezionato.

Ermete tentennava e si interruppe un istante, incerto se continuare o abbassare le iridi rilucenti sulle dita intrecciate, che si contorcevano spasmodicamente.

Ma tu mi ami?

Fu un attimo di silenzio, poi un monosillabo aleggiò triste, pressappoco disperato, rotolando sul pavimento e contro i muri.

Strinse più forte la materia inerte che stava esplorando col tatto, stordito dalla stanchezza; la avvolse fra le braccia, come a volerla stritolare in un tenero amplesso di morte, e si rese conto di non possedere altro.

*

 

Eros:

Mi accarezzi; con le mani e un mormorio mi tocchi.

E che sia.

Vieni pure, saziati di questo mio tesoro di niente, vuotalo, rendimelo colmo di una cosa che non conosco.

Tante cose non conosco.

Médée…

Vi ho sempre invidiato. Lo sai? Non conto assolutamente nulla. Non per lui. Non per te…

Lei… lo disse: "Non accostarti, non accostarti mai ad una rosa… con troppa tenerezza."

Triste… troppa tenerezza.

Io non ne ho mai ricevuta, da nessuno.

Dimmi… dimmi che mi ami.

Parli con lui. Con lui. Il tuo magister…

In cosa mi ha erudito la mia?

Gli dici frasi tenere, vaneggiamenti d'amore.

A non essere felice…

Stringi me ma chiami lui, vuoi solo lui.

… per non soffrire.

Zoroastro…

Per non soffrire.

Non proverò dolore. Non stanotte. Amalo, amico mio; ama pure il tuo ricordo.

Perché mi hai lasciato? Perché…

Amalo senza fargli domande cui non saprà rispondere.

Il male di alzarsi ogni mattina. Sempre stanchi di doversi stancare ancora. Seguire i suoi passi di donna, sottili e leggeri sulla neve.

Neve…. Irreali.

Vento…

Il riflesso privo di sostanza dei suoi capelli mi attirava. Magnetico richiamo animalesco.

Non si è lasciata pettinare da me, neppure una volta. Non mi ha concesso neanche… un briciolo di tenerezza.

Di felicità.

Donna….

Perché?

Non singhiozzare. Non più. Non vorrà vederti piangere prima di andar via, senza dirti niente.

Perché?

Per non soffrire.

*

Si era addormentato tutt'a un tratto, non sapeva neppure lui come. Semplicemente, il sonno era sopraggiunto, il corpo si era inclinato nell'ultima involontaria contrazione, dei muscoli di spalle e collo, prima del rilassamento; e gli occhi si erano serrati, sprofondandolo in un oblio scuro, senza luce né sogni.

Ed in quello stato di completa incoscienza, ricordava d'averlo sentito piangere, lì contro la statua, piangere e bagnarla di acqua e lacrime, di rancore e disperazione.

Ricordava di aver percepito la propria rabbia salire su dalle profondità del cuore, ma poi spegnersi in una molle stanchezza, soffocata dal vento, nel disinteresse totale.

Ricordava di aver desiderato rompere quell'inutile pezzo di marmo a mani vuote e sporcarlo del proprio sangue, dargli un fluido vitale, per il solo gusto di distruggere un essere "carnale" come lui, un'effigie mortale.

Ricordava di avere imparato la lezione.

Avrebbe fatto altrettanto, in un riposo macchiato d'inchiostro; l'avrebbe ritratto in una parola, su un pezzo di carta da strappare, dimenticare.

Quando si svegliò, era già mattina; timidi raggi di sole si infiltravano fra le imposte lignee, rischiarando Zoroastro, nei suoi vent'anni o poco più, che gli giaceva accanto, tirandolo a sé con un braccio.

Malgrado il corpo del maestro fosse caldo, teneramente tiepido ed insolitamente morbido, disteso, Ermete aveva freddo, un freddo profondo ed intenso. Per quell'uomo, non era che un essere da superare, al fine di creare qualcosa di superiore.

Per quell'uomo non era niente.

Lo spostò, con delicatezza, per non destarlo, e si alzò, infilandosi una tunica, prendendo carta e penna e recandosi a rubare uno stralcio di giorno.

*

 

Ermete:

È tutto un alito di vento, puro vento che penetra in me, puro vento che mi squassa, correndomi dentro all'impazzata.

Sei tutto un alito di vento. Vento che ulula e mugugna. Sospiro di dolore; soffio di piacere.

Aria impazzita, ribelle, che si trascina indomita lingue di fuoco. Il profumo del mare.

Onde. Rumore di onde e di acqua. Non c'è più la neve.

Lontano… lontano dal gelo… lontano con te.

La sera era così fredda. Fredda.

Un cupo borbottare saliva dalla terra.

Baciami

Correnti si inseguivano. Il litorale ombroso.

Sale. Labbra di sale. Mielose.

Carta. Accartocciarsi di carta. Notte ed inchiostro, scuri sul bofonchiare del monte.

Il colore del fumo.

Un filo di sogno, tu dietro a dormire.

A morire.

Uccidi anche me oppure prendimi!

Ridi! Ridi! Chinato all'indietro, fra le mie braccia, muscoli lisci, capelli corvini in una cascata nera di luce annebbiata.

Perduta.

Hai sempre la stessa risposta.

Tu vestito di stelle, un'immagine illusoria del mio Mediterraneo. Mio!

Di chi sono io?

Forse libero? Liquido schiavo d'un corpo. Fluido legato alla terra.

Di chi sono io?

Poche parole da prendere e stracciare.

Rabbia poiché ero il tramite della tua arte.

Rabbia poiché non riuscivi a realizzare un'opera, a ridisegnare me.

Perché tu…

Poche parole che non parlano d'amore, né di odio o di felicità.

Poche parole che non dicono niente.

Poche parole da spartire in silenzio tra noi. Ladri di ombre.

L'alba sull'orizzonte, il tuo respiro nel mio - vento…- dopo tanto tempo. Era un giorno remoto.

Io ti appartengo.

… non hai che una domanda.

Non cambiare mai.

L'avevi capito; avevi compreso il perché del tuo inevitabile fallimento.

*

Era sorprendente con quanta delicatezza la luce strappasse la maschera della notte alla terra, velando e scolorando, in tinte pastello, un miraggio del mare non molto lontano. Tutto riprendeva vita, terrena e pulsante, come la carne di chi dolcemente riemerge dal sonno, caldo e irrequieto come il cuore di un bambino, l'erba cullata dal vento, cresciuta su rocce che mai avrebbero indotto a credere di poter ospitare una qualsiasi manifestazione animale o vegetale.

Una mela?

Zoroastro gli era comparso, ancora una volta, alle spalle, camminando col suo impercettibile passo felpato, afferrandolo e plasmandolo con quella voce…

No.

Dovresti mangiare di più, sai? Non ti fa certo bene…

Ermete si voltò bruscamente, fulminandolo con uno sguardo innervosito, recante ancora le postreme reminiscenze d'una furia che bruciava come una ferita aperta. Non l'avrebbe perdonato, non poteva più ormai e, forse, l'altro era intenzionato ad arrivare esattamente a quel punto.

Cosa vuoi?

Fu sorpreso di scorgere nelle iridi violacee del maestro un luccichio sereno, tranquillo, che tremava, colpito e scosso, il riflesso dell'illusione che cadeva, anche in lui.

Rimase lì, a guardarlo, inarcando appena il collo sulla spalla sinistra, e mostrandogli due polposi frutti rossi che stringeva in mano, in attesa che il bambino si addolcisse, che si calmasse, convinto che si trattasse solo di un capriccio passeggero, sicuro che si sarebbe dissolto. Tutto passa; ne era certo.

Non venne, però, dall'esserino un tempo scherzoso e burlone, leggero e incostante, pronto a scappare da un momento all'altro; dal piccolo angelo ribelle che aveva amato tanto, e desiderava ardentemente come sempre, come quel giorno nel bosco, con un fragile fiore giallo fra le dita; da quel sogno che stava distruggendo perché divenisse reale; non venne neppure un sibilo.

Pensavo che le avremmo gustate insieme…

Azzardò timidamente, troppo a disagio per chiedere spiegazioni di sorta, consapevole di doverne egli stesso altrettante. L'allievo non avrebbe potuto comprendere, non a fondo, né la situazione né tantomeno lui; e il giovane Cancer glielo leggeva in volto, scritto a grandi lettere, in una tristissima ed inesprimibile poesia che cantava di amore e condannava l'egoismo di un amante incapace.

Ben conscio di ciò, tentennava, era indeciso esattamente al pari della sua sensei anni prima; ciascuno si struggeva per un cuore che non doveva battere, che non doveva essere felice per non perdersi nel regno dei morti.

Non poteva.

Per non soffrire.

La vita di Ermete sarebbe diventata una grande opera, la stessa che Zoroastro non era in grado di realizzare, perché adorava il fanciullo, ne era completamente stregato.

Quella notte, giacendo con lui, tirandolo a sé come nei giorni gioiosi, liberi sul Mediterraneo; quella notte aveva visto ed era giunto alle dovute conclusioni, ricordando il proprio addestramento e… lei.

Non l'aveva mai odiata, mai, neppure dopo che l'ebbe abbandonato.

"Non ti voglio"

Sette anni, circa 61362 ore consumate bruciando insieme, perseguendo arte, inferno e bellezza; avevano trascorso il periodo più bello della loro esistenza, la prima giovinezza lui ed il momento in cui ci si affaccia alla maturità lei, senza domande e senza pretese, aspettando che le porte dello spirito si spalancassero.

Cavaliere del Cancro… l'unico che non rimanesse legato a questo mondo.

Aveva creduto che fosse possibile vedere l'averno senza morire, continuando a godere delle meraviglie della terra e la beltà di Médée, come Proserpina raggiante a primavera, circondata da rose, che lo dimostrava inconfutabilmente.

Poi, invece…

"Mi spiace ma…. Non ti voglio"

E gli aveva insegnato il più grande segreto, strappando sotto il suo naso un disegno idilliaco, il suo ritratto immersa in un mare di petali bianchi.

Per superare il confine, devi rendere l'anima al diavolo, condannarti spontaneamente ad essere cadavere pur vivendo, provando, vivo, ciò che sentono le tue vittime, morte.

Quel "non ti voglio" l'aveva ammazzato, gli aveva fatto ingurgitare ogni frammento del proprio cuore infranto, spingendolo a ritrovare la passione fra le braccia di un efebo, cui impartire la lezione della quale, solo, non sapeva sostenere il peso, amandolo per distruggersi con lui.

Uno schizzo stracciato, gli occhi di lei gelidi e puri come ghiaccio spesso gli tornavano in mente, quando rivedeva lo stesso guizzo di impassibile distacco, di indifferenza, in quelli del suo pupillo, il passato nello sguardo del presente.

Da allora avrebbe scolpito nel marmo, perché nulla gli togliesse ciò che gli dava la forza di continuare, di svegliarsi ogni giorno e seguire una dea distante… troppo distante. Ermete… l'avrebbe privato d'ogni fiducia, della voglia di vivere e di morire, mettendolo a cavallo fra due universi, ma l'effigie del ragazzino elfico, che correva libera fra i monti, sarebbe rimasta, come una pietra tombale.

*

 

Eros:

Fino a che punto il dolore può portare un uomo…

Fino a che punto un uomo può restare legato a se stesso o a quanto ritiene di essere, da semplice stolto e nulla di più.

Dimmelo!

No, sospiri ancora. Le tue labbra ora sono distanti.

Parli con lui o lo contempli, perso in un sogno di aria e metallo.

Una rosa d'argento.

Il suo sorriso e il vento fra quelle mani che stringevano neve, e il mio pugno.

Colpire…

Non volevo farle male. Non voleva che la ferissi.

Provare piacere. Oh, dammi il piacere completo ch'ella non m'ha concesso: era d'un altro e non m'ha insegnato ancora il nome col quale le stella invocano il fanciullo Amore.

Eros…

Non certo io! Non io!

Mandare a fondo l'attacco, fin dove perviene il mio fiato, sulla sua bocca un bacio per dimostrarle d'essere forte.

E poi? più niente.

Ammira una rosa e non la toccare, fragile fiore cosparso di spine.

Ha promesso, senza parole, la mia dose di dolore, ritarda il regalo per non soffrire.

Tu vivi, Médée è già morta. O è come me.

Come me…

Acqua, figure infrante su terre bianche e infinite.

Le chiavi d'inferni e paradisi fra le sue dita, chiuse vicine… con troppa tenerezza.

Sono un esile animaletto che brama i suoi occhi chiari, scovare la luce nel buio, mattina d'inverni polari.

Paglia sottile dei campi, memoria del mare di Grecia, libero vento che modella i corpi.

Marmo dell'ultima casa.

"La fine e l'inizio del mondo"

Gelida su una colonna, aveva in mano una cetra e ne ritendeva la corda spezzata.

La fine e l'inizio d'un sogno.

"Che intendi dire?"

Non rise né pianse, ferma come una statua con le sopracciglia inarcate.

"Che presto starai più di là che di qua"

Vuoto di templi e di chiese. Capanne tiepide abitate da chi non ti vede o comprende.

Errare da pellegrino, avendoti al fianco, per lande assolate e brulle.

Adesso.

Agosto, i campi di grano e la luna.

I campi di grano, e te che rinneghi sofferenza ed amore.

*

Che stavi facendo?

Domandò chinandosi sul piccoletto, cercando con gli occhi il testo scarabocchiato sul foglio che quegli nascose rapidamente sotto una piega della candida tunica.

Perché t'interessa saperlo?

Sorrideva di nuovo, ed era un buon segno, un prodromo meraviglioso, perché i morti non sanno farlo. Era solo ferito, ma gli restava ancora tutta la vita per poter morire.

Non vorrei mai vederlo… ammise tra sé Zoroastro, pensando al momento in cui anche il suo amore sarebbe stato distrutto.

Perché sono il tuo magister e avrò pure qualche diritto su di te, no?!

Rispose scherzosamente, agganciandogli il collo, in una mossa giocosa, con il gomito e arruffandogli i capelli dai riflessi blu con l'altra mano.

Era un piacere per l'anima sentirlo almeno superficialmente felice e voleva goderne a pieno: il marmo non sa sghignazzare come un ragazzino di quattordici anni.

Ma questa mela?

Prima consegna il capolavoro alla somma opinione del tuo qui presente superiore, poi se ne parla!

Non riuscivano a computare le frasi, scossi entrambi da lieti singhiozzi che nascondevano paura, paura di perdersi, consapevolezza che non sarebbe più stata come prima, né l'esistenza né la serena campagna in cui il discepolo svolgeva, lontano dai sensi della gente comune, i propri esercizi. Una muta tempesta le aveva sconvolte, la notte aveva rubato ogni colore, non rimaneva che la finzione.

Zoroastro, con uno spintone che rasentava i limiti della slealtà, avvalendosi della maggior forza delle proprie braccia, costrinse Ermete supino nell'erba, mantenendolo per le spalle e osservandolo ridere, smarrendosi con lui in quell'assurdo gioco adolescenziale spartito fra due adulti, maturi e formati, che fra non molto avrebbero dovuto salutarsi. Dirsi addio. Intanto, lasciava scorrere veloci le dita sul torace del monello che era lì, incantevole e spaventosamente importante, indispensabile, caldo come Médée non era mai stata, già avvolta allora nel dolore o nel distacco, indifferente.

Le iridi scure del più grande continuavano ad essere maliziosamente beffarde, mentre il volto gli si contorceva in una smorfia che imitava male l'espressione d'una "persona seria", col sol risultato di far sganasciare ancor più il giovinetto sotto di lui.

E va bene! Va bene, mi arrendo! Mi arrendo! Consegno le armi, ma il solletico no…

Da' qua!

Afferrò il pezzo di carta che l'altro sventolava in un pugno e lo lasciò libero, sedendosi lì di fianco e srotolando il prezioso bottino di guerra. Era bianco.

Si girò per protestare, ma Ermete era già in piedi, sulle bellissime gambe da cerbiatto, con le mani posate sui fianchi, in una seducente posa d'attesa, pronto a correre, impalpabile come aria.

Briccone d'un quattordicenne!

L'uomo balzò d'un tratto, repentinamente gettandosi all'inseguimento del compagno che, con altrettanta prontezza, volava sui prati, libero da qualsiasi peso; tentò di agguantare una risata nel sole, protendendo un braccio verso la sua esile schiena infantile, con un immane sforzo, nonostante il quale le dita non riuscirono a sfiorare il corpo adorato.

Non mi prendi!

Gridava, il respiro per nulla affaticato, come se stesse camminando, e il sensei gli si sarebbe rivolto con altrettanta facilità, se solo avesse avuto una parola, una sola parola per lui e per il mondo.

Probabilmente, la covava, calda e protetta in fondo all'anima dilaniata, martoriata dal significato di quell'unico termine che, bene o male, in fin dei conti, era la causa e lo scopo di tutto.

Il monello si fermò improvvisamente, col viso verso quello del maestro, anch'egli arrestatosi in un colpo, a pochi centimetri dal suo naso.

Estrasse dalla cintura un foglio stropicciato, con scarabocchi illeggibili; glielo mostrò, come si fa con la testa d'una bestia rara uccisa, come Davide col capo di Golia; e lo strappò. Con gesti lenti, ripetitivi movimenti del polso, lo fece in mille minuscoli pezzettini e, stringendoli fra le palme, soffiò, lasciandoli svolazzare in direzione del destinatario dei versi che, ormai, erano i frammenti di quello che, in altre circostanze, si sarebbe rivelato un capolavoro.

Zoroastro strinse i polsi dell'implume poeta, lo accarezzò piano, come se potesse sparire insieme ai brandelli di carta frustati dalle correnti ascensionali, agli stralci di pensieri non espressi.

Questi, dal canto suo, posò, da bimbetto quale era, la testa contro il torace del cavaliere, per nascondergli gli occhi rilucenti di lacrime, velati di confusione.

Cosa c'era scritto?

Cose che già conosci.

Levò il capo per guardarlo, in un attimo più alto, più saldo…

Più uomo.

Voglio la tua anima.

*

 

Ermete:

Bambino… ero bambino. Solo, col gelo, la fame ed il sole, la foresta dai molti sussurri, ma senza parole. Solo.

Mi credevo grande, selvaggio e imperituro. Non sapevo… non sapevo che fosse la morte.

L'hai trovata? Hai trovato la tua eternità? Anima…

"Tu sei vero?"

Avevi un nome, io avevo il tuo. Avremmo potuto chiamarci, ma non lo facemmo.

Non facemmo nulla di logico. Mai.

"Guarda il lago"

Bianco su azzurro sporcato di terre, questo scorgevo lontano. Piume brune nascoste. Foglie occluse su porte di casa. Ne ho mai posseduta una?

Faccio ritorno al passato. Vivo in un sogno.

Chinato, il mio viso e un sorriso innocente; promettevo ciò che non mi aspettavo; ho una domanda.

"Che c'è di strano?"

"Guarda bene!"

E si inginocchiò accanto a me, occhi contro occhi rispecchiati fra torbide onde frementi, increspate di platino chiaro.

Mi voltai e mi smarrii nelle sue iridi viola.

Viola, mon coeur, viola!

Ho chiesto al mio amore vestito di notte, che fosse la vita, il senso del nostro finire; nelle screziature d'opale che ti porti in faccia ho scoperto il riflesso d'una fine tetra, l'ho rubato e lo reco nel petto.

Ho chiesto al mio amore vestito di sole di darmi una goccia d'ambrosia e la promessa di un istante perpetuo, che tu mi hai forgiato con lava e con pianto, con fuoco e lapilli di un'Etna già vecchia.

Il mio amore con gli occhi viola, viola, è rimasto di sera legato al tramonto.

"Sai cos'è un bacio?"

*

La risposta lo fece tremare, sconvolgendolo molto più in profondità di quanto si possa pensare.

"Voglio la tua anima", gli risuonava nelle orecchie; ronzante, ossessivo, vero e presente… non gli dava pace. E, mentre si chinava sulla testolina del ragazzo, inclinata sul collo in una tipica movenza che gli era propria, ed avvertiva la sua lingua tiepida infilarsi fra per proprie labbra, carica di un'irrefrenabile onda di desiderio o rabbia repressa, rassegnazione frustrata, si sentì privato di una parte di sé, di un soffio di vita; ed ebbe l'impressione, staccandosi dall'abbraccio e barcollando all'indietro nel tentativo di muovere qualche passo verso nessun luogo, lontano da quel demone, di ripiegarsi come un contenitore vuoto, un sacco che si affloscia sul pavimento del granaio durante d'inverno.

"Che ti succede?"

Lo aveva raggiunto e lo sorreggeva ma, dietro la zelante e innocente preoccupazione, si nascondeva la consapevolezza, che rendeva il quesito, or ora posto, puramente retorico.

- Niente. Tutto a posto… Tutto a posto.

Lo aveva ripetuto, come per convincersene, allorché si lasciò cadere sull'erba, circondato dalle braccia morbide e lisce di Ermete, il quale si era genuflesso al suo fianco, senza lasciarlo, braccandolo con uno sguardo velato di qualcosa che le parole non sono in grado di definire, permeato d'una poesia che, in nessun'epoca, sarebbe mai stata scritta.

È un baratto equo, no? Finché non mi strapperai la mia, io ti lascerò la tua a posto. Non perderemo, in ogni caso.

Si era espresso con calma, non con un distacco da 007 o il conturbante fascino di chi è troppo appassionato per gestire il gioco e non dare a vedere la propria esaltazione, consentendo così che la luce rivelasse i fili dei burattini; si era pronunciato come se la cosa non avesse alcuna importanza o la sua realizzazione fosse tutt'altro che imminente e non lo riguardasse.

Entrambi gli uomini, però, tralasciavano un dettaglio: Zoroastro non aveva più nulla da insegnare all'ormai forte e preparato, padrone del settimo senso, alunno.

Entrambi ignoravano di appartenersi.

*

 

Eros:

Correvi veloce, le esili gambe di bimbo muovevano il tempo del vento. Il tuo passo era scandito dal rumore del silenzio, un bisbigliare di grano che non osava infrangerlo.

Avresti gridato alla luna il tacere dei suoi occhi, lo vedevo nei tuoi movimenti rapidi, scorrevoli e impauriti, ma… statuari.

Forse ti aveva picchiato. Ormai era solito farlo. A volte.

O forse eri tu a farti battere. Ed è una cosa diversa, molto diversa.

Sulle tue guance una lacrima rossa, nei tuoi polmoni il niente, o un nome soffocato che ti strozza ancora.

Vi ho invidiati, comunque.

Ho bramato soffrire il dolore della vostra carne, il male delle vostre menti. Il mio è peggio.

Ma, qu'est-ce pour nous, mon coeur?

Qu'est-ce?

Cosa e poi perché.

Nasci con un destino, nasci con un ruolo da teatro, ma puoi declinare l'offerta, puoi rifiutare la tua buona stella.

Una lacrima rossa.

Vero?

Dimmi che è vero… ti prego.

Il maestro ti chiese una promessa d'amore, io ti domando un giuramento di verità.

In cambio di lui.

Un mazzo di rose e la convinzione che non pungano.

Tu sei veloce. La voglio vera o, perlomeno, verosimile.

E con lui un sorriso.

Vera o, perlomeno, verosimile.

Vera, come il tuo sogno.

Sono anch'io un disperato.

Ricordo lo stormire delle cicale. La stasi delle parole era infranta: terra pure si pronunciava e i tuoi piedi non proseguivano oltre.

Scappi sempre da qualcosa.

Ti fermasti nel campo, senza luce, tutto un'ombra ed io un fremito dietro di te.

Un fremito, dietro, per te.

"Atena, m'uccida, ma non mi consenta…"

Scappi da te.

"…di vederlo morire"

*

Ermete aveva svolto gli esercizi lì, sul prato in fiore, e Zoroastro lo aveva guardato, seguendo con attenzione ogni singolo movimento, costantemente sul punto di correggerlo, ma sprecando energie nel vano tentativo di trovare un'imprecisione per cui rimproverarlo.

Esausto, col sole calante, si gettò a terra accanto al maestro, incrociando le braccia sotto la nuca e cercando le prime stelle in cielo. Mai l'Etna gli era sembrata più lontana dal mondo, più persa nel suo cosmo lunare, così arcana, così impervia e…

Crudele.

Hai mai pensato…

Cominciò, rivolgendosi all'insegnante che, anch'egli steso, poggiando il capo su una mano e standosene comodamente adagiato su un fianco, in una posa pigra e languida, lo guardava con l'apparente interesse che ha la gente la cui mente vagabonda per lande ben lontane.

Hai mai pensato?

… a come sia la pasta asciutta?

L'uomo rise, ma rimase alquanto perplesso.

Intendo dire quella cucinata decentemente, non come la tua!

La cosa più buffa, o quella più strana, era la profonda serietà nel tono del giovinetto: parlava di spaghetti come se fossero l'unica cosa veramente importante, aveva nella voce la stessa intonazione di un cantore intento a narrare il suo miglior racconto.

Non venire a raccontarmi che la mia cucina non è deliziosa… - Si finse risentito.

Perché, tu sai che significa cucinare?

Ti va una proposta?

Il bimbo si rivolse all'altro, i cui capelli erano lievemente mossi dal vento e intarsiati di riflessi dorati dalla morente luce del tramonto, tutta la propria attenzione, pendendo dalle sue labbra che abbozzavano una smorfia divertita, magari intrisa di una qualche malinconia, per la quale il giovinetto non aveva una spiegazione. Il passato del magister, per lui, era un enorme punto interrogativo, un quadro sfocato da cui, nei momenti di tristezza - come quel giorno in Grecia, prima della partenza - o quando nel sonno il cavaliere vaneggiava frasi e pensieri sconnessi, emergevano delle figure umane confuse e torbide, acqua di un fiume in piena che lava tutto e rimescola il dolore, trascinandosi un nome di donna, farfugliato a stento da una bocca impastata.

Spara.

Non siamo mai stati insieme, giusto? Insieme come due persone normali, voglio dire. Gli altri apprendisti sono tutti i ragazzini della tua età che conosci, vero?

Il fanciullo annuì, lasciandolo proseguire… lasciandosi accarezzare una gota ancora imperlata di sudore.

Desidererei che tu vedessi quello che c'è laggiù. In fondo, ci sei nato sulla montagna più alta, non t'ho guidato in nessuna scalata, ma le miserie umane che ti ho porto, stringendole fra le mani come mio solo bagaglio, ti hanno fatto piangere. Tu devi riderne, Ermete, riderne… capito? Promettimi, promettimi che ne riderai…. Promettimelo.

Non capiva, per l'ennesima volta la lezione appariva semplicemente priva di un senso, come la canzone dei folli e il riso del vulcano; le spiegazioni si sarebbero sommate, se richieste, alle spiegazioni, inutilmente; ancora una volta, Zoroastro lo aveva condotto proprio nel luogo cui anelava si recasse, muto e passivo, incapace di comprendere, incapace di scegliere fra onere e piacere, incapace di rendersi conto, di prendere coscienza, della realtà, di accorgersi che il momento era prossimo.

Te lo prometto.

L'uomo abbassò le palpebre e sospirò, per poi illuminarsi di vita, quasi, finalmente, sereno.

Allora, domani andremo a pranzo fuori.

*

 

Ermete:

Anni dopo i tuoi baci hanno fatto male, male da impazzire; non era il dolore delle percosse, no, ben altro.… i tuoi baci avevano tutti il sapore dell'ultimo.

La tua era una bocca di marmo, amor mio: avevi intenzione di scolpire me, ma ritraesti te stesso, quello che eri e che è stato distrutto.

Ci distruggono tutti, prima o poi.

È inutile indietreggiare.

Qualcuno ritroverà i nostri pezzi.

Il mare lambisce la spiaggia, strappando al continente un brandello di terra, giocando a tira e molla…. Ci somiglia.

Corriamo indietro, appena giunti lì - era ancora il tempo di ridere - e lui ci inseguiva, perfido.

Lo sfidavamo. Cedeva il passo.

"Il mare"

"Lo avevi mai visto, Ermete?"

Lo avevo sognato, volte e volte infinite, rinchiuso fra le onde di un lago.

No.

Corsi da te, incubo, come tu ora ti sei recato al mio cospetto. Forse ero morto anch'io, ma venni e ti ringraziai.

Firmamenti e stelle congiunti in supremo consiglio, può un uomo fare tanto per un altro?

Un uomo così meraviglioso e imperfetto, tanto tormentato da ogni estremo, destinato a morire, può porgere ad un bimbo una sorsata di vita sì inebriante?

Può un uomo espiare la sua condanna ad essere sé, solo per venir superato?

"Che ti prende?"

Che mi prende?

"Grazie del mare"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intermezzo I: Il canto della malinconia

How I wish, how I wish you were here.

We're just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year,

running over the same old ground. What have we found? The same old fears.

Wish you were here.

Pink Floyd-

 

Il corpo inerte dell'uomo giaceva supino nella stanza buia, circondato da troppa oscurità per definirne esattamente la posizione: poteva trovarsi al centro, come a pochi centimetri da una parete, inghiottita dalla notte.

La luna lì non giungeva, nulla era in grado di infrangere quell'incanto di tenebra; per questo avevano scelto proprio quel luogo. Comunque fosse finita, nessuno dei due avrebbe visto le lacrime scorrere sul viso dell'altro, illuminate da un pallore astrale che, riportando alla mente il ricordo della felicità, avrebbe reso tutto più difficile, più doloroso.

La ragazza si chinò sulla carcassa del maestro, che respirava ancora, sollevandone il capo con la delicatezza di una cattiva madre con il suo piccino; e affondò le dita nella massa scura dei capelli di lui, senza riuscire a scorgerli, trattenendosi nell'anima solo la memoria del sole giocoso su quei riccioli tendenti al blu, il blu del mare più profondo.

In quel momento, però, tutto era nero e, stringendosi l'uomo che tutto le aveva dato, e tutto le stava rubando, contro il petto, sentì la vita scorrere ancora in lui, testarda e tenace, come una vecchia caparbia già condotta al proprio funerale, solo attraverso un gemito, soffocato dal contatto delle labbra contro il seno della fanciulla, celato allo sguardo pure da una candida camicia, ormai imbevuta di rosso.

Sapevate che saremmo giunti a questo punto…

Il giovane tossì, emettendo un copioso fiotto di sangue che andò ad inumidire l'abito dell'allieva, lasciandole sulla pelle la tenera sensazione del delicato tepore che stava abbandonando le membra del ferito… dello sconfitto.

Allora… perché?

Senza accorgersene, stava dando all'assenza di immagini una ragione di essere; ma le piccole gocce salate, che scappavano dagli occhi di Médée per scivolarle sulle gote d'avorio, si riversavano sul viso del moribondo.

Tentò di discostare la testa dall'abbraccio dell'alunna, non più sicuro dei suoi vent'anni al cospetto dei quindici di una discepola troppo diligente, troppo forte e passionale, troppo ribelle, troppo… innocente.

Sai una cosa, piccola?- Esordì, raccogliendo le energie residue per parlarle, per salutarla.

Sss… Silenzio… -

Singhiozzava, consapevole che, se avesse taciuto, sarebbe stato per sempre; aveva ancora, però, il coraggio di regalargli una risata isterica, disperatamente priva di allegria.

Lui sollevò una mano, esortandola con lo sguardo nascosto, a consentirgli di proseguire e sfiorandole una guancia.

Avrei voluto ucciderti… ucciderti e non trovarti più… soffrire per non poterti avere. Ucciderti e… non farti piangere.

Reclinò il capo, eccessivamente stanco per star sollevato in una posa simile, la quale implicava una certa tensione.

Dall'esterno, giungeva una vaga fragranza di rose appassite, soffusa e profumata come la morte, tanto dolce da nauseare, eppure così diluita nell'aria, così leggera… Il roseto continuava a fiorire e seccare fuori del monumentale tempio, senza sole né tempo, piegato esclusivamente al giogo delle stagioni, ma immutato dagli anni, indifferente al susseguirsi di morti, e nuovi tutori, tutti giardinieri per dovere o disperazione, tutti terribilmente fragili, tutti senza spine.

"Perché non l'avete fatto?", ma non lo chiese, non aveva più parole per farlo. Lo sistemò sul gelido marmo del pavimento, per fargli sentire un po' meno male, la sua pelle nuda, cosparsa di ferite ed escoriazioni d'ogni sorta, a diretto contatto con le lastre di inalienabile pietra; e, con un orecchio contro il suo torace, rimase ad ascoltarne i battiti del cuore.

Eppure, non avrei speso neppure un minuto… un istante della mia esistenza, senza desiderare… di averti qui.

Il suo respiro era regolare, forse aveva perso la sensibilità per percepire le lacrime che gli ricavano il collo; oppure era felice, e la contrazione che attanagliava la sua faccia dai lineamenti raffinati, d'una nobiltà austera, d'eleganza latina, non era una smorfia di dolore, bensì la maschera d'un sorriso.

Hai imparato a picchiar forte, puella!

- Mi avete insegnato bene.

Quella che aveva intenzione di essere una risata si presentò sotto forma di grugnito o lamento soffocato da un accesso di apnea, un principio di soffocamento.

Dammi del tu, bambina.

Raccontami una storia, come quando ero piccina e mi accovacciavo sulle tue ginocchia… Ricordi?

Alludeva alla stessa storia che proseguiva da sé, di quella storia dai fogli disordinati che, comunque fossero letti, combaciavano, creando un insieme verosimile dal loro completo nonsenso; alludeva a quella storia che volava alla velocità del sogno, e riuscivano appena a starle dietro; alludeva a quella storia che diventava sempre uguale, e finiva per essere detta sempre nelle stesse strade senza uscita, attraverso gli occhi di paure perennemente identiche. Intendeva la storia di una rosa bianca.

E le ritornarono in mente i giorni felici, trascorsi in Grecia, e l'ombra presente sposava il passato sulle rive del Mediterraneo.

Erano i tempi in cui gli arrivava alla cintola; le correnti ascensionali confondevano in un unico niveo turbinio i suoi capelli e la tunichetta immacolata, una pennellata chiara stagliata verso l'acqua, sospesa su un promontorio fra cielo e mare.

"Perché mi hai portata qui?"

Occhi fraterni erano quelli che vagavano sul suo crine infantile, come la mano salda che le stringeva le dita paffute, non ancora affusolate dal tempo.

C'era solo silenzio e il mormorare dell'aria, sinuosa fra le rocce.

"Non lo so"

"Rimarremo qui per sempre?"

"Per quanto possa farci paura, nulla è per sempre. Vedi quel gabbiano sopra di noi? Un giorno non volerà più non ne sarà più capace."

Médée, allora, si era seduta sull'erba, abbracciandosi le gambe e premendo il mento contro le ginocchia, con far pensoso.

"Ma se…"

Il ragazzo le aveva troncato la frase in gola: "Semplicemente, si dimenticherà come si spiegano le ali, oblierà il sole sopra di sé e il rumore delle onde sotto di sé. È un po' triste."

La piccina gli aveva rivolto due iridi grigie, costellate di luci scolorite, gli orizzonti illimitati d'una mattina invernale.

"Ti dimenticherai di me?"

L'altro sorrise; una strana malinconia si ere impressa sui tratti del suo viso, il fantasma d'un rimpianto che non si cancella, forse perché appartenente ai confini più remoti della memoria, forse perché fluttuante nel futuro.

"Sarai tu a dimenticarmi"

Si era chinato sull'esile figura di lei, su quella piccola sagoma accovacciata su se stessa, impaurita dall'idea di conquistare l'eternità per poi gettarla via. Gettarla via…

"No io non ti dimenticherò mai: perderemmo il cielo, e saremmo in due, magister. È troppo triste."

Quando poi lui le aveva porto un rilucente oggetto argenteo, carico di riflessi bui, lo aveva considerato uno sciocco, per la prima volta in tutti quei mesi di convivenza, scoprendo dietro la sua facciata imperturbabile un oceano di paura… Di solitudine.

"Saremo in due, magister, e saremo nascosti. È troppo triste… troppo."

Aveva parlato a se stessa, ben conscia del fatto, che anch'egli portasse una maschera, sempre, perennemente, in ogni momento, una maschera per non provare gli spasimi della paura sulla pelle, la maschera di un personaggio che non era, di un sogno che sa afferrare il cielo. Strinse ciò che lui le aveva donato, e con un rumore cristallino lo spezzò sotto i suoi occhi, ma senza buttarlo via, continuando a tenerlo con sé, senza rinunciare alla propria parte.

Una voce di giovine, ma già profonda e pienamente virile le aveva fatto eco, bisbigliando sul suono delle onde e sul tacere del resto.

"Già… è troppo triste."

Non le sembrava vero, non era vero perché non poteva esserlo, che le occhiate, penetranti e velate di un intimo disagio, lanciate da un essere pieno di energia, di forza e di vigore, di uno splendore annegato nei fugaci attimi andati, non sarebbero più scaturite da sotto quelle palpebre pesanti, incapaci di rimanere ancora aperte, sul punto di chiudersi per un'ultima volta.

Era troppo triste.

Non piangere più.

In fondo, erano le stesse vecchie paure a ritornare, a comprimerli l'una sull'altro, ad intrecciarli e privarli della ragione; erano le stesse vecchie paure, allo sbocco di una strada senza uscita, a prendersi gioco di due anime perse, ignare di cosa fosse il sole. Erano loro, ciascuno di loro, generazione dopo generazione, sterminio dopo sterminio, ancora gementi su un mucchio di carne macellata per il quale si provava l'amore profondo che nutre solo chi tutto ha appreso, donandosi integralmente; ognuno di loro, lacrima dopo lacrima, risaliva controcorrente un fiume di pianto, una goccia impazzita sulla cosmica boccia di Dio o di chi per lui ritenesse necessari tutti quei sacrifici, quelle illusioni infrante, quei saluti; una goccia impazzita sulla coscienza degli uomini.

E lì, nel buio spettrale della dodicesima casa di Pices, immersi e accarezzati da soffici fiotti d'oscurità, che si agitavano spasmodici in un'unica contrazione di tenebra, le pulsazioni di un cuore infranto innumerevoli battiti prima; lì, uniti da un freddo che li irrigidiva entrambi, le braccia di lei strette attorno al suo busto di secondo in secondo meno tiepido, di secondo in secondo più inerte; lì un moribondo narrò una fiaba ad un boccio di rosa.

Magari, nessuno seppe mai ciò che si dissero, con l'alito del fiato che viene meno; magari nessuno seppe mai cosa si raccontarono o se Médée pianse quando dalle labbra di lui non uscì più una parola, non un sospiro.

Magari qualcuno sapeva, ma a volte è meglio dimenticare.