Intermezzo
secondo:
Il
canto dei sepolcri
Defraud
my innocent senses of they own.
Edna
St. Vincent Millay
Ho preso il
mio piacere, ho avuto il mio dolore; non c’è rosa senza spine, e troppo
piacere fa male, male da impazzire. D’altronde, due persone sane di mente non
sarebbero finite come noi, mai, neppure in cerca di un petalo vellutato o del
profumo del passato su un marmo inerte. Due persone sane di mente si sarebbero
amate senza ferirsi, senza andare oltre… i limiti dl consentito. Due persone
sane di mente non si sarebbero guardate negli occhi, bevendo la reciproca paura,
come un nettare frizzante che dà alla testa; non si sarebbero desiderate con
tanto impavido ardire, al di fuori di ogni ragionevole misura, ritornando allo
stato brado di animali liberi e selvaggi, sui monti e contro il mare, dove un
po’ più in là c’è il cielo, l’allucinazione d’una corolla bianca.
Due persone
sane di mente non si sarebbero abbracciate… con troppa tenerezza.
Eppure, le
persone sane di mente ignorano il fremito di tensione, quell’interminabile e
indescrivibile brivido, un sospiro di nervi, privo di parole, che corre per i
muscoli d’un uomo con sul petto la mano e contro il collo la lama d’un
angelo decaduto. Non sanno che significhi uccidere lentamente, con tutta la
dolcezza di cui solo gli amanti o i vecchi amici sono capaci, un giovane efebo
leso e stanco, così perso da abbandonarsi, mandando al diavolo riserve e
raziocinio, alla violenza d’un creatore, alla passione d’un illuso.
Sono un
cantore fallito ed anche un pessimo scultore: il mio allievo m’ha impresso sul
cuore un’immagine di pena e dello smisurato bisogno di aggrapparsi a qualcuno
per non sprofondare, per oltrepassare l’oceano in burrasca, fino alla prossima
tempesta; ed io ho ritratto lui, schiavo come sono di quello che è già stato e
che non tornerà più, di quello che ho voluto rinnegare per una notte, solo per
una notte felice… veramente felice.
Io, libero
per antonomasia! Io, padrone di inferni e paradisi! Io, che ho teorizzato il
Nuovo! Mi fa rabbia, mi fa una rabbia immensa la consapevolezza che egli sua più
grande di me, più capace e forte, più… geniale. O la rabbia è quello che
voglio provare, devo.
Ma io…
Avendo fra
le labbra il liquido scarlatto che sgorga dalle sue ferite e nelle orecchie un
lamento soffocato, nel cuore la sua inespressa preghiera che finisca presto,
m’illudo d’aver domato un elfo, di poterlo salvare, d’essere tornato ai
giorni spensierati con Médée, sull’Etna. In realtà, oggi sono ciò che ieri
ella era: un disperato; cerco fra i muscoli contratti d’un bambino, sulla
morbida curva che il candido collo disegna inarcandosi col mento –baciata
volte e volte infinite!- lo stesso tepore delle membra della mia maestra nelle
sere d’inverno, trascorse vicino al camino, rubando l’uno dall’altro un
po’ di calore umano; lo cerco su di lui, per non trovarvi il mio amore, perché
non muoia con me, ma viva morendo con il suo dovere, con il mio cuore infranto
ed un frammento di specchio che non rifletta la felicità appassita, che non lo
faccia piangere… in nomine meo. Ed io annego in me stesso: la memoria d’un
fuoco ormai spento, i riverberi dei tizzoni velati di cenere che ridavano vita
alle sue guance pallide, funebri da prima che l’incontrassi, funebri da prima
del mondo; essa riprende forma e sostanza, fisica consistenza, fra le grida
d’angoscia d’Ermete, del solo che non avrei mai voluto ferire, quando di
notte soddisfo l’insana necessità di rifocillarmi con l’altrui linfa
vitale, di riconciliarmi con i miei fantasmi e di concedermi loro, come lui si
concede a me, liberamente e denudato di tutte le coltri.
E quando è
esausto, stremato da piacere e dolore, raccoglie un coltello, che è sempre lì,
in attesa di essere afferrato, e me lo punta all’altezza della giugulare,
lasciando scivolare, lievemente adagiato, il filo tagliente sulla mia
epidermide, lasciando che io a mia volta tema, che il respiro mi si acceleri
nello spasimo d’avvertire lui, tiepido di vita, toccarmi e lanciarmi verso
l’oblio dei sensi, il confine del non ritorno, nel terrore, in bilico su una
corda fra soddisfazione e morte, fra quel sorriso colmo di sensuali promesse e
le sue iridi torbide, impenetrabili come quelle di lei.
Allora,
quando siamo eccessivamente scoraggiati per fingerci umani, capiamo di essere
due predatori pronti a scannarsi, ad ammazzarsi per il piacere di rendere
un’anima al vento e la carne alla terra, di dare ad un uomo… la libertà.
Dopo di questo, in fondo, non ci resta più niente; e dimenticarlo sarebbe
troppo triste.
Esattamente
come sarebbe stato triste se un giorno avesse premuto un po’ più a fondo, e
non mi avesse dato il tempo di salutarlo, non consentendomi neppure un’ultima
carezza alle sue braccia arrossate e livide, al torace tumefatto, un piccolo
bacio ad una gota affranta e una minuscola, infinitesimalmente breve, parola al
demonio che si cova dentro, accucciato in un angoletto ombroso, in un cantuccio
fatto di silenzio; al demonio che mi ha permesso d’intravedere il limbo, per
precipitarmi nel Tartaro.
Non sono più
un fanciullo: la mia purezza è stata sacrificata ad un roseto ardente; il mio
candore non sarà restituito intatto, né a me, né a nessun altro.
Passeggiava
leggero, sulle pendici scoscese d’un monte che mi pareva irreale, mentre
dormivo, o così credeva, piangendo, forse, ma non si sarebbe lasciato vedere,
nascosto sotto il ghigno beffardo che già m’aveva lanciato, quando l’avevo
ucciso una volta di più, una volta fra tante, perché non morisse perdendo un
idillio, l’ultimo dei sogni prima del confine del cielo.
Passeggiava leggero ed era stupendo, talmente bello da non essere vero, un riflesso fra le mie palpebre socchiuse, sfocato d’innocenza, che credevo obliata, o mai trovata, ma che esisteva in lui, in quello che volevo discernere di lui, in quello che lui è, per me, solo per me.
Miraggio.
Come in una
bruma sottile ondeggia la sua immagine, i suoi polsi immersi nel sapone, la
bocca dall’aroma fragrante d’un vino rosso di cui non rammento il nome,
dolce ed ignara come quella di chi non ha conosciuto e non ha sofferto l’impatibile.
Un tempo, brindando con qualcun altro, anche ella aveva lo stesso gusto
inebriante, ma mani corrotte non possono adagiarsi su un fiore senza
insudiciarlo; ed è diventata una rosa, secondo la medesima, tragica metamorfosi
che mi ha condotto qui, per amore, peut-être per dovere, perché sta crescendo
- l’elfo incantato non sopravviverà che in un’icona scolpita e smetterà di
amarmi- , per non ingannarlo più, inginocchiandomi alla perdizione del mio
destino, ché, dopo una notte senza tempo, non sono più stato felice, né egli
mai lo sarà. Ma, così agendo, vecchio rimarrà fanciullo, fanciullo resterà
solo mio in eterno. Non ritornerà in patria intatto, né servirà alcuno fuorché
se stesso, o il suo dolore, la sua condanna.
Per un
frangente, chiederà una deroga alla sorte, fra le braccia d’un riverbero, pur
amando solo lo spettro cui strappo quanto son dovuto essere; cercherà il suo
sole, fino alla fine, all’ennesimo tramonto.
Ricomincerà,
non qui, può darsi, non così, ma ricomincerà, e saremo ancora insieme a
straziarci, tutti incatenati ad un giogo non nostro, toccatoci per caso, e
reciteremo, per capriccio, una sola scena di felicità.
Romperai
l’intreccio satanico delle tue dita fra le mie, come farai abbandonandomi a
me, protendendo un braccio a domani e chiedendomi dove starò andando; un giorno
ti bisbiglierò all’orecchio se l’avrò trovato, ma anche tu ti sarai
lanciato all’avventura, ed avrai visto l’inferno, da cui non posso
preservarti, in cui mi è solo concesso di scaraventarti insieme a me,
percorrendo una via imboccata da tanto, sugli intarsi blu (come i tuoi occhi)
d’un’armatura.
Il nostro
peccato è conoscenza, dopo di che non c’è più dio. Sbattendo le ciglia, ad
un’alba perpetuamente troppo chiara, troppo iridescente, troppo soffusamente
fragile, come i tuoi polsi instabili e insicuri sul bicchiere che ti porti alle
labbra per bere, per placare il respiro rotto, i miei sensi di colpa, il nostro
tedio disumano; sbattendo le ciglia diventi il mio idolo ed in silenzio consumo
la mia eresia, il sapere ogni dettaglio in quel lembo della tua anima che si
riflette su di me nel salato d’una lacrima.
Sbattendo
le ciglia, tu sei immortale, come lo sono stato io, come anch’ella fu per
qualcuno che prima aveva sofferto, lottato e perduto.
Io non ti
assolvo dalla consapevolezza del vuoto, dell’eterno ritorno del tempo,
dell’ombra di noi stessi che ci inchioda ad un’altalena di dolore e piacere,
di distillata ossessione. Io non ti libero dalla speranza di riaverti, dal sogno
di averti avuto, d’essere stato, per una volta, padrone assoluto
dell’infinito fra le tue sopracciglia, dal paradiso e dall’averno che ti
reco in pegno. Ti sottraggo al dovere di rinunciare al tuo ruolo di allievo,
imparerai dalle stelle, non ti darai a nessuno; tendo su te le catene del mio
sacrificio, del nostro comune sentiero tracciato, perché ti amo.
Albeggia,
è giunto il momento, non so se piango scostando il tuo braccio irrigidito
intorno ai miei fianchi, adagiandoti la palma semichiusa sul petto ferito ed un
ultimo fiato sulla gota esangue.
Non puoi
capire. Non so se piango guardandoti destare, inarcare la schiena, scattare
furibondo per divincolarti dal sudario di lenzuola e riaffermare la tua autorità
sul tuo possedimento in fuga, gridare, gemere per aver intuito, schiacciarmi
contro un materasso, ringhiando sospeso fra l’errore e l’orgoglio.
Non so se
potrai perdonare, se ricorderai… quello che non ti ho detto.
Piangi, non
sei più un bambino.
Non sei più
un bambino.
Un
bambino…
L’avevi
già urlato, ed ora ripeti le stesse parole che s’erano insinuate sulla mia
lingua, che io proferii fra le coperte, molti anni fa…
*
-“Ogni
uomo non è che un soffio”
Una voce.
-
“Ascolta la mia preghiera,
porgi
orecchio al mio grido,
non essere
sordo alle mie lacrime…”
Un canto.
-“…poiché
io sono un forestiero,
uno
straniero come tutti i miei padri.”
Una nenia
lamentevole che collassava su se stessa, soffocandosi; una lacrima caduta nel
silenzio.
-“Distogli
il tuo sguardo, che io respiri…”
Una
preghiera.
- “…
prima che me ne vada e che più non sia.”
E che più
non sia.
Le parole
della donna scivolavano come acqua sulle note, imprimendosi sui polpastrelli
paffuti che pizzicavano le corde saltellando da un suono all’altro, con
infinita lentezza, al pari di quelli di mille e mille musici nel corso dei
secoli; ma essi cantavano una lode.
- Ogni uomo
non è che un soffio…
Le fece eco
il giovinetto, senza distogliere l’attenzione dalle linee tracciate dalla
matita sulla carta, emerse dal ritmo delle mani, create con la sacralità d’un
rito.
- … e che
più non sia…
Médée posò
la cetra sull’erba umidiccia, intrisa d’una rugiada appiccicaticcia che la
faceva sentire sporca, troppo sporca per salmodiare; o, semplicemente, le
bruciavano gli occhi, riteneva trascorso il tempo di cantare. Provava un vago
senso di stanchezza, un attanagliante torpore delle membra, come tutte le
mattine, come dopo tutte le veglie, quando il sole sorgeva sempre uguale a
colorire il suo pallore, la sua spossatezza; esistere la distruggeva. Non si
stese sul prato in pendenza, dal quale le ombre rapide si ritiravano in una
contrazione spasmodicamente nervosa, come qualcuno che risenta
d’un’astinenza improvvisa ed imposta dalla rassicurante foschia della notte;
si abbracciò le gambe ed abbassò le palpebre, senza più osare guardare il
cielo.
- Che stavi
suonando?
Zoroastro,
ora supino, giocherellando con uno scarafaggio che gli zampettava noncurante fra
il disegno, adagiato sul ventre, ed il torace cosparso di luce, le rivolse
un’occhiata incuriosita.
Quella
fanciulla, sacerdotessa dal viso scoperto e le immense iridi grigie, trasparenti
come il ghiaccio immortale, dopo anni di convivenza, di addestramento, di quello
strambo connubio di anime e corpi, così tiepido, che egli si ripeteva essere
amore, e che gli sembrava la sola forma d’amore possibile, poiché l’unica
che conoscesse; quella fanciulla continuava a costituire un mistero, candida ed
enigmatica come una rosa che non vuole sbocciare.
- Un salmo.
Il
ragazzino si rimise a sedere, afferrando il piccolo amico fra due dita per
rimetterlo in libertà, e sistemandosi il taccuino sulle ginocchia, mentre
mordicchiava l’estremità della matita, assorto in qualcosa che sfuggiva anche
a lui-
- È molto
triste.
- Cosa?
La magistra
non si mosse.
Il bimbo la
fissò e sorrise, abbandonando il proposito di posarle un palmo sulla spalla,
cedendo alla nostalgia dell’intimità di poche ore prima; la sua era
l’espressione d’amara rassegnazione, lenita dalla speranza di domani, ad una
nuova giornata di duro esercizio, in cui non c’è spazio per la tenerezza
d’una carezza, identica alle altre.
- “Ogni
uomo non è che un soffio.”
*
Scrutò il
riflesso del proprio occhio scuro sulla boccetta di cristallo, tanto piccola da
stare tra due dita, e la risistemò sulla mensola, accanto alla finestra che si
affacciava su un indefinito boulevard slavato come un acquerello attempato; il
profumo della pioggia, che copriva languido gli altri odori, non aveva un aroma
proprio.
Si rivolse,
vagamente assorta, all’altra figura femminile che, col capo chino in avanti e
i capelli chiari scompigliati che le ricadevano disordinati sulle spalle e sul
petto, rimaneva inerte, accaldata e ansante, spossata dal viaggio e dalle troppe
lacrime: non sapeva se sorriderle o se tacere, ignara dello strambo meccanismo
con cui il dolore, pur tanto quotidiano e radicato nell’essere attraverso le
sue molteplici e strazianti forme, si manifestasse nell’uomo, anima e corpo,
che si lascia morire.
- Si lascia
morire…
Sussurrò
con le labbra socchiuse, seguendo con la voce il filo di sporadici pensieri
senz’ordine, mentre si avvicinava alla ragazza arruffata, le cui spalle
tentavano di non piegarsi sotto il peso dei singhiozzi che faticava a reprimere
nel petto, soffocando un grido, un lamento, il rantolo disperato della
consapevolezza che non era giusto.
Non era
giusto.
La stanza
era invasa da un pallore grigiastro, un ibrido chiarore pomeridiano ammantato di
nubi e di acqua; le ombre si confondevano con le sfumature pastello degli
oggetti disposti ordinatamente nel bugigattolo, dove l’unica nota scomposta
era la fanciulla, il suo pianto avversato da una volontà imposta dal dovere.
Non era
giusto.
- Than…
Invocò
l’amica sommessamente, senza rivolgerle le iridi argentee, troppo stanca o
stravolta per prestare attenzione al rumore dei passanti giù in strada, allo
scalpiccio delle suole, e dei tacchi delle signore, sul selciato bagnato, in un
viavai che persisteva vivace,
ignaro della vita e della morte del singolo, pulsante dell’energia
inesauribile, nei limiti delle cose dei mortali, della folla senza volto; né
alla bruna pensosa che la guardava, né a se stessa che si condannava, e la
terra continuava a girare ed i suoi polmoni si riempivano d’aria,
irrespirabile lì a Parigi come nella XII casa di Pisces in Grecia. Eppure
sapeva che Lui era morto, che non era null’altro che un gelido mucchio di
carne macellata, da cosa poi? dall’insostenibile silenzio di quelli che si
cercano e non sono capaci di trovarsi? dalla volontà d’una dea relegata sul
suo altare di marmo in un tempio non baciato dal sole? dal desiderio di finire
per non essere mai iniziati? o soltanto dalle sue mani? dalle sue lunghe mani
candide, dalle dita affusolate, dal sangue di cui erano macchiate e che
avrebbero preteso pure in futuro, insaziabili artigli di predatore? soltanto
dalle sue mani bugiarde che non avevano saputo parlargli?
Non era
giusto.
E lottò un
po’ col fiato spezzato che la soffocava con brusca violenza, senza la dolcezza
dell’agonia, ma con la brutalità del fremito, della rabbia.
Non era
giusto.
- Than…
*
Bambino.
Un’ultima goccia d’eterno. Ecco il sole, il mio eterno errore.
Il sole.
Ricordo.
Sognavo da solo di cose indicibili, dopo aver suonato, da cacciatore che lancia
i propri nervi oltre la selva su una cornamusa per odi barbare, sul tuo corpo
così voluttuoso, così armonioso, che seguiva il mio passo dopo passo, bacio su
bacio, alla ricerca di qualcosa che, uomini, mai scoveremo fra le piaghe della
nostra miseranda carne sublime; sognavo di essere dio e di insegnarlo anche a
te.
Avrei
voluto inventare una magica alchimia, ma ero privo della pietra filosofale e
dell’alambicco: in me, nella mia opera al nero, non c’era oro, ma solo la
prima putredine, il vano tentativo d’una donna che, non potendosi salvare, ha
perso anche me.
Avrei
voluto trasformarti, bambino, in quello che non sono, ma t’avrei ucciso e
forse l’ho fatto. Siamo uomini, non celesti, e per la nostra materia pulsante
siamo divini: l’inerte marmo d’una statua tanto vagheggiata fra vita e
teoria non è abbastanza, non quanto un tuo bacio, un sospiro felice dopo
l’amore che spossa il corpo ed appaga l’anima; non quanto quello che è
stato mio, completamente mio.
Ed allora
sarà per sempre.
*
Rivolse uno
sguardo stanco al lucernario, immobile, ad occhi aperti, era un po’ più
vicina al cielo.
- … il
cielo…
si sentiva
terribilmente fredda, sola come pochi uomini riescono ad essere, sopravvivendo
fra i propri simili giorno per giorno, vittime forti d’una violenta convivenza
indispensabile; si sentiva sola e probabilmente lo era.
Non contava
molto la presenza esangue dell’altra ragazza, di cui era in grado di percepire
appena il fruscio della veste e il vago aroma profumato, che si perdeva, lavato
via, nella pioggia su Parigi; la solitudine, fra terra ed empireo, era completa,
non era altro che solitudine, un po’ più pallida che nel buio d’un vecchio
tempio di marmo, un po’ meno permeata di sospiri. Le lacrime, poi, sparivano
presto ingurgitate dal cuscino.
- Sei
sicura di quello che stai facendo?
Una voce
distante echeggiò su qualcosa che non c’era, su muri che, nel silenzio del
suo fiato ormai rilassato, le erano parsi immensi, le gloriose pareti d’una
cattedrale gotica protesa verso il sole; una voce la schiaffeggiò,
ritrascinandola in quella dimensione in cui il corpo e la mente sono pienamente
senzienti e complementari, anche se era doloroso.
Médée
lanciò alla sua ospite un’occhiata vacua, non quella di chi non avesse
recepito una domanda, piuttosto quella di chi ha raggiunto la stanchezza delle
parole, il disgusto delle cose vane; e non sapeva trovare altra risposta al di
fuori di quella.
- Che cosa
sto facendo?
Quanto
emerse dalla sua gola, più che un insieme di suoni articolati, era un lamento
strozzato, abbandonato ad una disperazione che non aveva il coraggio di
ammettere, perché con essa avrebbe dovuto riconoscere la fondatezza di tutto ciò
che paventava, temeva, detestava fino alla fobia; eppure era un lamento, proprio
un semplice gemito, un rantolo di pena, che non avrebbe mai immaginato di poter
provare, fino ad una sensazione troppo intensa per essere vissuta entro i
confini del razionale.
Sisifo era
morto. Morto. Nel suo corpo misterioso, così morbido e teso, cercato con la
coda degli occhi, fra curiosità e desiderio, desiderio d’essere come lui,
desiderio di possederlo; nel suo corpo misterioso non scorreva più la vita; era
fuggito finanche il ricordo dell’antica armonia solida e pulita d’un torace
piatto, dell’addome ancora liscio d’un giovane uomo.
Sisifo era
morto. Era carne mortale, peritura; non era divino.
Negli anni
ibridi dell’adolescenza, in cui non sapeva se la sensazione d’attesa quasi
angosciosa, che le mozzava il respiro, fosse gioia o dolore, speranza o
rassegnazione; allora l’aveva elevato a modello, idealizzato come il più
potente dei numi, perché, in fondo ne era cosciente, aveva bisogno di trovare
un po’ d’infinito nell’uomo e, dunque, in se stessa. Ma si era sbagliata.
Come Prometeo o Lucifero era caduta, stringendosi il proprio idolo al seno,
sentendone i muscoli freddi e irrigiditi contro l’addome, piangendo sulle sue
labbra tutte le proprie lacrime senza speranza di dargli quell’anelito, quel
soffio che chiamano vita.
Vita.
Di fronte
alla morte, alla fragilità della carne, si era riscoperta debole, e mentre
seppelliva con un cadavere ogni suo sogno, ogni sua fiducia, e quella dolcezza
inespressa tanto prossima all’amore, aveva denudato, palata su palata, sotto
polvere e terra umidificata da piccole gocce salate, il proprio terrore,
l’eterna paura di non esser degna, di doversi celare dietro una maschera. Non
è il terriccio secco che sporca le mani dei viventi, aveva pensato, non un
momento felice, scagliato in alto, sublimato in un incanto dove fantasia e realtà
non si distinguono, forse non sono; non è la cieca determinazione d’arrivare
alla meta, alla cima del monte, sull’orlo del precipizio, in bilico fra
l’universo e il mondo, calpestando tutto e tutti, e per primi sé stessi; non
è l’avida brama di possedere, d’essere padroni perfetti – che importa per
quanto?- una sola volta, d’un solo essere; non è quel sorriso sicuro eppure
velato di dubbio, l’eterno ed intrigante gioco di probabilità, che ha per
fine qualcosa di più della riproduzione; non è la nostalgia delle sue parole,
delle sue dita calde che correggevano un gesto errato, ma era tutto quello che
non era mai stato detto, mai confessato, il silenzio della magica meraviglia
estasiata e stordita, che la uccideva dentro, la corrodeva lentamente, la
massacrava con un pensiero martellante, con un vocativo che non osava
pronunciare, non per un ricordo, non rivolto al vento.
- Ma che
sto facendo?
- Lo sai.
Lo so, ma
non parlò, non pianse, non rise, non guardò Thanatos, che le accarezzava un
braccio come si fa con i bambini che non vogliono dormire, con una tenerezza
quasi indifferente, peut-être dettata da una pulsione di madre terribile che
non le era propria.
- Mi sto
consumando.
Sussurrò,
col tono calmo d’una bimbetta rasserenatasi un po’ dopo un capriccio, eppure
ancora assorto, smarrito nel grigio che le aleggiava, prigioniero in un
quadrato, sulla testa; non aveva avuto possibilità di scelta, dopo un sì, dopo
un fiore, dopo il verde e il mare di Grecia e il vento di Normandia, non era più
padrona di sé o del proprio destino, aveva solo potuto fingere di esserlo; ma,
anche in possesso d’un libero arbitrio precluso alla razza mortale,
l’avrebbe rifatto. Non era tardi, non lo era mai stato: era solo il presente,
e sarebbe continuato.
- Stai solo
cambiando, Médée. Stai solo cambiando…
Era logora,
canuta, vetusta nei suoi quindici anni non ancora compiuti, ma era stata
prossima all’ebbrezza della felicità, il resto più non contava.
-… stai
diventando un uomo.
Non le
restava che il dovere e l’onore.
*
Cose
indicibili si muovono indistinte oltre il confine di quello che scorgo appena,
che non vedo, e danzano prossime all’orizzonte, ombre senza padrone, senza
paura: i nostri padroni i le nostre paure.
I non
ricordo, il limite della mia mente umana sconfina nella bestialità o nella
violenza, nella dimenticanza, e non so trattenere i pochi pensieri felici, qui,
contro la mia tentazione di tornare e quella di saltare: la macchia è un
profumo troppo forte al mattino per rinunciarci, e la fragranza dell’acqua non
vale abbastanza, non quando il mare confonde il suo odore col primo sole, con
l’ultimo tepore del corpo. E le membra che avanzano verso sé stesse, o
l’anima che le imprigiona o ne fa l’essenza e di cui sono materia,
continuano ad essere troppo tiepide e personali, sia per andare sia per restare.
Ogni catena
è un piccolo piacere che ci siamo concessi e s’è
trasformato in una ragione per ripercorrere i nostri passi verso quel
luogo incantato, surreale e impossibile, che chiamiamo casa; ogni catena è
l’amore cui ci siamo affezionati, il frutto del consapevole piacere di
soffrire, il prezzo della felicità, un vago sapore fra le labbra, l’insipido
sentore del sangue mortale. La vita non ci lascia altro.
È
un’eternità che scalo questo monte, che vegeto sospeso a mezz’aria,
convinto di vivere, di camminare su un filo, teso sopra la piazza, d’essere
l’equilibrista in bilico e il filosofo in ogni luogo; e, invece, non sono
niente. Non sono niente. O vento.
*
Raccolse
alla men peggio i lembi della tunica sulle ginocchia, con un movimento compiuto
da infinite generazioni di fanciulle, accovacciate in quello stesso luogo, chine
nel medesimo movimento, impacciate e aggraziate ad un tempo nella loro lentezza
femminile, pudica e civettuola, di musa e di fiera; ed immerse i polsi nel
liquido freddo, sfregando il brandello di stoffa che stringeva fra le dita
nervosa, come a volerne cancellare il più in fretta possibile le macchie
torbide, che denunciavano inequivocabilmente la maturità del suo corpo. Come
ogni donna prima di lei, forse nel suo inconscio più nascosto e misterioso,
forse per un unico istante, fra sorpresa, ignoranza e ragione, finché la tacita
intesa che avvinghia gli elementi d’una cerchia in un laccio di muta complicità,
di somiglianza fisiologica, non abbia preso il sopravvento sulla squallida
solitudine dell’individuo e del proprio sangue; come ogni donna arrossì, e
come poche si sentì coscientemente umiliata della sordida debolezza di se
stessa. E, per un momento, le lacrime le salirono agli occhi e brillarono fra le
palpebre e le guance arrossate.
Genuflessa
sull’acqua, come un Narciso percosso e deluso dalla vacuità della propria
immagine, intangibile, mostruosamente falsa, lontana; come un Narciso che si
fosse scoperto femmina, odiò quel ventre morbido e disegnato in una curva che
qualche parto futuro avrebbe reso pingue; detestò i seni fecondi che le
cascavano sul petto, la piaga umida che, fra le gambe, le feriva l’anima; ed
imprecò contro l’alone, che non scompariva dal panno che tentava di lavare.
- Tutto a
posto?
La voce
alle sue spalle, improvvisa e inattesa come le cose che si paventano in un
timore, indefinito fino a che non si concretizza, le raggelò il sudore sulla
fronte; si immobilizzò in una contrazione terrorizzata da animale in trappola,
mentre avvampava sentendo un fiotto di sangue più copioso scivolarle fra le
cosce, proprio allorché tentava di voltarsi senza piangere o scappare via.
Scattò in piedi, con la rapidità che il dolore le permetteva, per non
prolungare l’agonia d’uno spostamento lento; si girò verso di lui, celando
l’oggetto incriminante dietro la schiena e cercando di ricomporre il viso in
una qualche espressione che non fosse incertezza: ma tutto quello che riuscì a
riferirgli , sospesa fra una rabbia insicura e debole e la fragilità d’un
sorriso, che però le appariva abominevole, fu una smorfia sofferente, dipinta
da linee scomposte sul suo pallore spettrale. Sentiva che sarebbe svenuta, sì
sarebbe svenuta, lo sapeva; o forse sarebbe addirittura morta di
quell’emorragia dannata della carne, raggelatasi dopo un tepore alterato, e
dello spirito. Il mondo intero le girò intorno alla testa, come e trascinarla
giù o a scagliarla in alto, senza limite o via di mezzo, col solo ordine di
distruggere l’equilibrio, un equilibrio illusorio: ora non era che materia in
mutazione, materia che cresce, una rosa che sboccia. La voce le venne meno, un
rumore gutturale le raschiò la gola. Larva, era stata quasi felice, prossima a
quello stadio incantato in cui nulla conta fuorché il presente, ed il sogno si
confonde con il reale, l’adesso col poi; larva, aveva sognato d’essere vento
e farfalla, ora non sognava più, neppure se stessa.
- Che ci
fai qui?
Bimba
triste, bimba sola, bimba che ha paura d’abbracciare troppo stretto il suo
maestro, d’un contatto che qualcuno, o la sua coscienza, le avrebbe
rinfacciato come un furto di caramelle, parlò, e si trovò di fronte soltanto
il silenzio di due profondi occhi scuri che non domandavano niente, niente
pretendevano; e non s’accorse d’aver lasciato cadere in terra quanto tentava
di mascherare dietro la schiena, mentre, con il furore che diveniva stanchezza,
inesorabile torpore, sfiancato abbandono, le braccia pesanti le scivolavano
lungo i fianchi, inerti e ferme.
Non
aspettava alcuna risposta, non c’era bisogno che l’altro parlasse o le
afferrasse i polsi attirandola a sé per consolarla; già intuiva ciò che
desiderava sapere, già lo sognava; negava, ma non avrebbe mai avuto il coraggio
di chiederlo.
*
Alba, un
sorso di vino, una domanda che non oso dire – ma chi mai l’ha potuto?
Brezza, ancora un ritaglio di notte, sulle mie spalle nella mia ombra; ancora
uno stralcio di perdono.
Non merito
la tua indulgenza, né la tua comprensione. Perpetuo il tuo odio ed amore, non darmi altro: è troppo quello che mi sono
preso, è poco quello che tu hai ricevuto, mia e tua dannazione.
Io sono qui
per il mio tempo, per il mio tempo che non sa sperare, per il mio tempo che non
sa volere, per il mio tempo che non ha battaglie da sostenere, dei simulacri da
venerare e neppure il silenzio del tempio. Io sono qui per quel silenzio.
Voce, tu
canterai sereno dentro il mio sogno, se un sogno esiste, o sarai il mio niente,
voce silente dei giorni infelici, anni beati che t’ho rubato, che ho
consacrato ad un nome ed al mio piacere; forse non ti ho reso eterno. Voce, non
tacerai le spiagge, i porti ed i lidi di questo viaggio insensato, per mare, dei
mille spettri che non sai scacciare; voce, continua a cantare.
Io sono qui
per il mio onore, per il mio onore che non vuole affermare l’inutilità di
questa guerra, non combattuta e aspettata, cui ha già immolato un elfo
incantato dei boschi, ed il suo amato, o chi s’è creduto tale; io sono qui
per il mio onore, cui ho rinunciato quando ho dovuto cercarlo, e t’ho
condannato alla stessa colpa, per egoismo, per egoismo, egoismo; io sono qui per
le mie ombre, per ritrovarle e smarrirle, per regalargliele in pegno, mondate
d’un triste ricordo, d’una nuvola bianca di seta e di marmo. Io sono qui per
il mio destino.
Ma sono
stato felice, forse ho sofferto.
Alba, mi
scivola addosso, preghiera smarrita in un raggio di sole, trema l’abisso sotto
i miei occhi assonnati: sono stordito, ebbro d’amore, non posso provare
dolore; guardo le onde, è ingiusto saltare. Calma, molto fu ponderato, da me,
da quelli prima di me, stretti in un cerchio, destino, ruota del fato che non
allenta la presa: anche un minuto sarebbe stato troppo.
Tu non
lasciarmi altro: mi basta il sapore della tua bocca sulla mia, il profumo
d’una pelle giovane al mattino, quando mi desto e ti respiro, come se fossi
aria, mentre ancora dormi e non sai, perché è la cosa migliore; il suono della
tua voce, mentre t’alleni sul vulcano e parli col sole, col cielo, col
riflesso dell’orizzonte che t’illumina lo sguardo e ti si perde nel
cervello; il ritmo delle tue parole quando ti siedi a mormorare, e mi vorresti
amare, ma mi guardi con odio e desiderio represso, da che t’ho fatto
assaggiare l’ambrosia e t’ho reso mortale – ma lo sono anch’io! Lo sono
anch’io.
Tu non
lasciarmi altro: a poco varrebbe il ricordo della pioggia sulle palpebre stanche
quando venivo da te solo perché lo
volevo; io lo potevo, bramavo la tua anima, come tu anelavi alla mia, te la sei
presa, ora la rendo al vento. Tu non lasciarmi altro; io ti lascio solo,
fanciullo – stai diventando uomo, inutile preservarti ancora da quello che
siamo, farti protendere verso il tuo male per quell’amore beato che abbiamo
goduto una volta, che presto è fiorito e appassito; è inutile celarti agli
occhi il mondo, chiuderti in un sospiro le stelle, lasciarti soffrire sol quanto
tu hai voluto patire; inutile consumarmi, volerti sfiorare di notte e già non
osare chinarmi sul tuo dolce sonno, dopo il piacere e il dolore, per non dirti
addio e poi ritornare, per non t’ammazzare di tenerezza: solo per me e per te,
t’ho dovuto cambiare.
È quasi
mattina; tu scriverai poesie sui muri, ma nessuno le saprà leggere, volerai con
me, un po’ più su, per un istante prima del giorno, prima di cadere; e la
chiamerai “eternità”.