L'accordo di Ginevra per la Palestina

di Giovanni Palombarini

Ogni giorno gli avvenimenti sembrano decretare il fallimento della Road Map, il piano di pace fra Israele e Palestina messo a punto da Onu, Usa, Ue e Russia. Ma è davvero impossibile la pace in Medio Oriente? No davvero, la tragica situazione in atto non può essere definitiva, non può essere che due popoli debbano pagare quotidianamente un prezzo così alto in termini di vite umane a tempo indefinito.

Che la fine del conflitto sia possibile lo dimostra il recente accordo di Ginevra, tanto coraggioso quanto ragionevole anche agli occhi di chi vede le cose da lontano, stipulato da esponenti politici (parlamentari, ex ministri) e da intellettuali (scrittori, docenti) del popolo palestinese e di quello israeliano.

I media italiani non si sono soffermati molto su questo avvenimento, ancora più importante sotto il profilo politico - anche se al momento non può avere rilevanza giuridica - della partecipazione comune alla marcia della pace di Assisi di esponenti dei due popoli (ma la contemporaneità dei due avvenimenti è tale da fare bene sperare). I presupposti dell’accordo vanno ricercati nelle trattative che sono iniziate a Sharm El Sheikh, in Egitto, nel gennaio 2001, interrotte a seguito della sconfitta nelle successive elezioni politiche del partito laburista e dell’avvento al potere della destra guidata da Ariel Sharon. Già allora, a fronte del riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e alla sicurezza, vi era stato da parte del governo laburista, fra l’altro, il riconoscimento della necessità di un’equa soluzione del problema dei profughi palestinesi.

Ebbene, l’accordo di Ginevra - che riprende, sviluppa e vuole portare a conclusione quelle trattative e gli accordi di Oslo del 1993 - si basa su alcuni punti qualificanti, con i quali si vuole risolvere ogni questione aperta, in particolare le quattro che sono apparse negli anni quelle di più difficile soluzione.

In primo luogo, definiti i confini dei due Stati in sostanziale coincidenza con le frontiere esistenti prima della guerra del 1967, con l’istituzione di un corridoio, sotto la sovranità israeliana ma liberamente percorribile, tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, è previsto che Israele provveda allo smantellamento degli insediamenti realizzati in territorio palestinese da quella guerra in poi. I confini verrebbero garantiti da una forza internazionale.

In secondo luogo la Palestina sarebbe uno Stato non militarizzato, disponendo solo di una forza di polizia ed essendo impegnata (come Israele per la sua parte) non solo a combattere nel proprio territorio ogni forma di violenza e di terrorismo, ma anche a sciogliere ogni milizia o forza militare irregolare.

Terzo punto. Per i rifugiati palestinesi è previsto un articolato sistema di risarcimenti e reintegri - che contempla anche l’eventuale coinvolgimento di Pesi terzi disponibili ad aiutare la realizzazione dell’accordo - basato sulla scelta informata e libera di ogni rifugiato, fermo restando che, al fine di salvaguardare Israele come Stato ebraico, sarà Israele stessa a stabilire il numero dei rifugiati dei quali è disposta ad accettare il rientro nel suo territorio.

Infine i due Stati avrebbero la capitale in Gerusalemme, divisa in due aree sotto le rispettive sovranità, ma città aperta e libera per i fedeli delle diverse religioni, con l'affermazione della santità attribuita al luogo da giudaismo, cristianità e Islam, sotto la garanzia anche qui di una forza internazionale.

Dunque, il tentativo è importante per i suoi contenuti e per il reciproco riconoscimento come Stati sovrani. E’ stato duramente contrastato, non a caso, da un lato dai gruppi radicali palestinesi, in primo luogo da quelli che ancora non si rassegano all’esistenza di Israele, dall’altro dal premier Sharon e da quei settori israeliani che non intendono rinunciare agli insediamenti in territorio palestinese (del resto al loro mantenimento è finalizzata la costruzione di quel muro che di recente 144 Stati, fra i quali tutti quelli dell’Europa, hanno definito illegale in sede di Nazioni Unite). Certo, la strada per portarlo a compimento sarà lunga e difficile. Per questo sarebbe importante che venisse preso in considerazione e fatto proprio da quei grandi soggetti internazionali che hanno inutilmente proposto la Road Map.

Novembre 2003

 

 

 

 

 

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