Verso un lavoro senza diritti*

di Giovanni Cannella

 

A) Dal Libro bianco al disegno di legge delega

Il Libro bianco sul mercato dl lavoro in Italia è stato pubblicato dal Ministero del Lavoro in ottobre. Il 15 novembre a tamburo battente il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega per la realizzazione di una parte degli obiettivi contenuti nel Libro bianco.

Questa improvvisa e inaspettata accelerazione la dice lunga su come intende il Governo il "dialogo sociale" con le associazioni sindacali, concetto su cui nel Libro bianco si insiste in modo ossessivo, precisando più volte che si intendono solo fare proposte sulle quali si invitano le parti sociali ad osservazioni e integrazioni.

Il carattere unilaterale e autoritativo dell'iniziativa legislativa è accentuato dall'uso dello strumento del disegno di legge di delega al Governo, anziché di un ordinario disegno di legge che possa essere esaminato dalle Camere.

In sostanza il parlamento potrà solo esaminare i "principi" e i "criteri direttivi" della delega, che, peraltro, come si vedrà, sono piuttosto generici in molti punti, senza potere poi esaminare e discutere le norme specifiche che il Governo emanerà (salvo che in sede di parere delle commissioni permanenti).

Come è stato rilevato da Vittorio Angiolini, non si è mai verificato in precedenza che venisse usato tale strumento per modificare, in senso peggiorativo e incisivamente, una disciplina così delicata come quella dei rapporti di lavoro, che era stata prodotta "dal parlamento a seguito di un dibattito ricco e approfondito", ed ha implicazioni anche costituzionali, che richiedono "istanze di discussione e verifica democratica che solo nell'attività delle Camere possono essere soddisfatte pienamente".

In ogni caso il disegno di legge delega è stato approvato dal Consiglio dei ministri e con esso bisogna oggi fare i conti.

Si potrebbe anzi sostenere che è inutile continuare ad occuparsi del Libro bianco, perché il progetto avrebbe trovato attuazione appunto nel disegno di legge.

Personalmente non condivido questa impostazione per una pluralità di motivi:

1) nella relazione di accompagnamento al testo legislativo si legge che le deleghe proposte si riferiscono a "misure di particolare rilevanza e priorità al fine di realizzare obiettivi di speciale importanza nell'ambito del disegno riformatore del mercato del lavoro contenuto nel Libro Bianco". Non si tratta quindi dell'intera realizzazione del progetto, ma solo di alcune misure considerate di "particolare rilevanza e priorità";

2) il Libro bianco, d'altra parte, contiene altri temi, non affrontati dal disegno di legge, ma che non possono per questo considerarsi abbandonati (il concetto di "priorità" rinvia solo alla valutazione di affrontare gli altri temi in una seconda fase);

3) esaminando il disegno di legge si ha la sensazione che il Governo abbia voluto scegliere, come priorità, tra i temi del Libro bianco quelli che avrebbero potuto creare meno contrasto e dividere l'opposizione, perché proposte in parte analoghe erano state avanzate in passato, ad esempio dalla CISL, UIL e parte dei Ds, e ciò anche in tema di art. 18, sottovalutando peraltro il carattere simbolico ed evocativo della normativa sulla reintegra (che ha indotto anche parte della destra ad opporsi);

4) la parte, a mio avviso, più pericolosa ed "eversiva" del Libro bianco, come si dirà, è collegata alla recente riforma "federalista" della Costituzione e non avrebbe avuto senso inserirla nelle deleghe, senza prima aver risolto il problema, ancora in alto mare, della concreta attuazione dell'art. 117 nuovo testo;

5) le leggi delega per loro natura, e in particolare quella esaminata, contengono disposizioni generiche e spesso "in bianco" e vanno quindi necessariamente interpretate alla luce del progetto ispiratore.

Sulla base di tali considerazioni è evidente l'attualità dell'esame del Libro bianco, per comprendere soprattutto, al di là delle singole disposizioni, la filosofia complessiva che sta alla base del disegno di legge e delle intenzioni del Governo in questa materia.

Pertanto, prima di occuparmi del disegno di legge delega, prenderò in esame non l'intero Libro bianco, ma alcuni assunti, essenzialmente in tema di regolazione del rapporto di lavoro, che rendono trasparente, a mio avviso, il disegno complessivo dell'intero progetto.

B) Il libro bianco

1) La riorganizzazione delle fonti del diritto del lavoro

Con riguardo alle fonti del diritto, il "Libro Bianco" prende le mosse dall'Europa, affermando che non è possibile "mantenere inalterato un assetto regolatorio dei rapporti e dei mercati del lavoro che, sotto più profili, non appare in linea con le indicazioni comunitarie e le migliori prassi derivanti dall'esperienza comparata".

Passa poi ad esaminare la riforma costituzionale dell'art. 117 Cost., che assegna alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni", nonché "previdenza complementare e integrativa", sostenendo che ciò comporta la competenza legislativa delle Regioni con riguardo non solo al mercato del lavoro, ma anche alla "regolazione dei rapporti di lavoro e quindi all'"intero ordinamento del lavoro", salvo che per la "determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".

Tali principi fondamentali di competenza dello Stato dovrebbero essere inseriti, secondo il progetto, in "una normativa-cornice, che assicuri un sufficiente grado di tutela minima". Non si tratterebbe però di un'autonoma originale disciplina statale, ma essenzialmente della trasposizione della disciplina comunitaria, ravvisata essenzialmente nei diritti fondamentali espressi nella "Carta" di Nizza.

Si tratterebbe, peraltro, non di una legislazione nazionale pienamente compiuta, ma solo di "una legislazione di principi", lasciando "al legislatore regionale di dispiegare pienamente l'esercizio della potestà legislativa concorrente mediante interventi di specificazione dei principi definiti nazionalmente".

In tema di trasposizione di direttive comunitarie è interessante l'interpretazione data alla "clausola di non regressione", intesa come non regressione "del livello generale di protezione dei lavoratori" e non con riferimento al singolo istituto, che potrebbe quindi essere modificato anche in senso peggiorativo rispetto alle direttive comunitarie dalla successiva normativa nazionale.

Secondo il progetto, peraltro, "il legislatore (nazionale o regionale) dovrebbe intervenire solo dove le parti non abbiano sufficientemente svolto un ruolo regolatorio", applicando quindi anche al rapporto tra intervento pubblico e parti sociali il principio di sussidiarietà. Il principio dovrebbe applicarsi evidentemente anche ai diritti fondamentali, gli unici di competenza del legislatore nazionale.

Ma il progetto si spinge oltre, ipotizzando la derogabilità da parte del contratto individuale, "quantomeno con riferimento a singoli istituti" o laddove "esistano condizioni di sostanziale parità contrattuale tra le parti ovvero anche in caso di specifici rinvii da parte della fonte collettiva", della legge o del contratto collettivo anche in senso peggiorativo, pur con l'assistenza di istituzioni pubbliche o delle parti sociali.

Sotto il profilo della tecnica legislativa, il "Libro bianco" critica l'attuale ordinamento basato su "precetti eccessivamente rigidi, sovente inattuabili, tali da favorire l'evasione e gli aggiramenti, fomentando comunque il contenzioso" e propugna, l'adozione di soft laws ("norme leggere", qualcuno ha parlato ironicamente di light laws, leggi senza grassi, scremate), norme di tradizione anglosassone, "che mirano ad orientare l'attività dei soggetti destinatari, senza peraltro costringerli ad uno specifico comportamento, vincolandoli tuttavia al conseguimento di un determinato obiettivo", e si propone subito un intervento in questo senso nel settore della salute e sicurezza.

Si critica poi, giustamente, la complessità e stratificazione degli interventi normativi nella materia del lavoro, propugnando la riorganizzazione e l'ordine in testi unici ed evocando l'equivoco concetto di "semplificazione", che è positivo se inteso come ordine e chiarezza e non come riduzione delle norme di tutela, per rendere la vita più "semplice" ai datori di lavoro.

Si propone, inoltre, la riforma dell'impianto complessivo dell'ordinamento del lavoro, prevedendo uno "Statuto dei lavori", che consentirebbe, lodevolmente, di prevedere un nucleo essenziale di norme e di principi inderogabili comuni a tutti i rapporti di esecuzione di attività lavorativa in qualunque forma prestata.

Le ulteriori tutele dovrebbero, invece, essere graduate e diversificate in base alle materie e non ai tipi contrattuali, lasciando ampio spazio all'autonomia collettiva e individuale: si parla al riguardo nel progetto di "diritti inderogabili relativi, disponibili a livello collettivo o anche individuale (a secondo del tipo di diritto in questione)".

Quali dovrebbero essere i diritti inderogabili comuni? Il progetto li elenca: tutela delle condizioni di salute e sicurezza, tutela della dignità e libertà del prestatore di lavoro, abolizione del lavoro minorile, eliminazione di ogni forma di discriminazione nell'accesso al lavoro, diritto ad un compenso equo, diritto alla protezione dei dati sensibili, diritto di libertà sindacale.

Senza entrare nel merito della sufficienza di tali diritti con riguardo al lavoro autonomo (anche in rapporto alle proposte di legge in materia presentate in passato), va qui osservato che per il lavoro subordinato il recinto delle norme inderogabili viene ulteriormente ristretto rispetto all'ambito che sembrava emergere dalle affermazioni precedenti, e cioè che andavano considerati inderogabili i principi fondamentali riconoscibili almeno nelle disposizioni della "Carta" europea, perché è evidente che i diritti sopra elencati sono solo alcuni dei diritti riconosciuti nella "Carta" e non sono neppure tutti i diritti costituzionalmente garantiti al lavoratore subordinato (la questione sarà esaminata in seguito nel dettaglio).

Va segnalata, infine, la proposta di una procedura assistita di certificazione, cioè di "validazione anticipata delle volontà delle parti interessate all'utilizzazione di una certa tipologia contrattuale", utile a "prevenire controversie giudiziali".

Riassumendo, il "Libro bianco" ipotizza un sistema delle fonti del lavoro subordinato così articolato:

- il legislatore nazionale dovrà limitarsi ad emettere norme relative ai principi fondamentali, coincidenti essenzialmente con i principi contenuti nella "Carta" di Nizza, con la tecnica delle soft-laws, che vincola ad obiettivi e non a comportamenti, peraltro solo se non sono già intervenute le parti sociali nel rispetto del principio di sussidiarietà;

- il legislatore regionale potrà intervenire "specificando" i principi definiti nazionalmente e avrà competenza esclusiva in tutta la disciplina del lavoro nel rispetto di quei principi;

- tutte le norme nazionali e regionali saranno derogabili, ad eccezione del ristretto numero di principi di tutela comuni a tutti i lavoratori, anche autonomi;

- anche il contratto individuale potrebbe derogare tutte le norme, nazionali, regionali e di contratto collettivo, salvo l'eccezione suddetta, e le parti individuali potranno anche certificare la natura del rapporto che intendono concludere.

Si tratta in sostanza del completo smantellamento del sistema di tutele predisposte a favore del lavoratore, con un complessivo disegno non innovativo ma restauratore del pieno liberismo ottocentesco, poiché verrebbero abolite o rese derogabili, dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata o, addirittura, dal contratto individuale, gran parte delle norme in materia.

Non solo quasi tutto lo Statuto dei lavoratori, di cui si salverebbero soltanto le norme in tema di discriminazione e sulla generale libertà sindacale, mentre verrebbero travolte tutte le altre norme (tra cui l'art. 18, l'art. 13 in tema di qualifica e dequalificazione, tutto il titolo III relativo agli specifici diritti sindacali, ecc.), non solo tutta la normativa sui licenziamenti e tutte le leggi di tutela successive alle Costituzione, ma, addirittura, anche le leggi fasciste in tema, ad esempio, di limitazione dell'orario di lavoro.

Anzi, a voler prendere alla lettera le affermazioni contenute nel progetto, la riforma travolgerebbe, o almeno renderebbe derogabili, come si dirà, anche norme costituzionali e principi contenuti nella "Carta" di Nizza.

2) Giustizia del lavoro

In questo quadro si pone coerentemente il rilievo attribuito nel Libro bianco alla giustizia del lavoro.

Il rilievo è del tutto marginale, non solo perché se ne parla brevemente in una pagina nell'ambito di uno studio di quasi cento pagine, ma per la previsione di una netta riduzione dell'intervento del giudice.

Ciò deriva in primo luogo indirettamente dallo smantellamento delle tutele e dell'ampliamento a dismisura della derogabilità delle norme in materia, di cui si è detto, che riduce, è ovvio, drasticamente il sindacato giurisdizionale.

La marginalizzazione è, poi, anche esplicita nei rilievi formulati. Si "cestina", infatti, il lavoro svolto dalla Commissione ministeriale per lo studio e la revisione del processo del lavoro, il che ha prodotto la giusta reazione del suo Presidente dr. Foglia (con una nota all'Associazione nazionale magistrati), e ci si limita a proporre, come unica soluzione ai problemi della giustizia del lavoro, il ricorso ai collegi arbitrali, per di più con giudizi di equità senza il limite delle leggi e dei contratti collettivi, e quindi una soluzione extra-giudiziaria.

Il messaggio è chiaro: l'intervento dei giudici del lavoro deve essere ridotto al minimo, anche perché la crisi della giustizia del lavoro è tale "sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronuncie".

In sostanza, poiché i tempi della giustizia sono lunghi e la qualità professionale dei magistrati scadente, meglio ridurre al minimo il loro intervento, riducendo le norme da applicare, rendendole quasi tutte derogabili anche dal contratto individuale, ricorrendo agli arbitri in caso di controversia.

Si tratta, con ogni evidenza, di un progetto di riduzione del controllo di legalità per consentire agli imprenditori l'esercizio della loro attività senza vincoli e limitazioni.

Se poi si allarga l'orizzonte si comprende meglio come il Libro bianco si inserisca a pieno titolo in un progetto complessivo di riduzione del controllo di legalità, che si manifesta nel settore penale con la riforma del falso in bilancio e delle rogatorie, nel settore civile con il progetto di "privatizzazione", nell'ipotizzata sottrazione al giudice del controllo sulle adozioni internazionali, nello spostamento al giudice amministrativo o all'Authorities di una serie di importanti attribuzioni, nell'indifferenza o forse volontà di ostacolare il funzionamento della giurisdizione, come è evidente ad esempio dalla riduzione degli stanziamenti sulla giustizia in Finanziaria o dal blocco delle assunzioni, che potrebbe riferirsi anche a questo settore.

C) La realizzabilità del progetto

1) I vincoli comunitari

Occorre a questo punto chiedersi se il progetto contenuto nel Libro bianco possa essere realizzato o se incontra ostacoli "esterni".

In ordine alla disciplina comunitaria, lo studio si contraddice, perché da un lato enfatizza in diversi punti le indicazioni europee, considerandole vincolanti, dall'altro afferma che non sarebbe più negli obiettivi dell'ordinamento comunitario "un'uniformità regolatoria su scala trasnazionale", smentendo quindi che le proposte in cantiere, anche se fossero davvero nella direzione voluta dall'ordinamento comunitario, potessero costituire adempimento di un obbligo di adeguamento della disciplina nazionale a quella comunitaria.

In ogni caso non è affatto vero che il progetto complessivo sopra descritto sia in sintonia con le indicazioni comunitarie (senza escludere ovviamente che singole proposte contenute nello studio possano esserlo).

Non è possibile in questa sede esaminare le singole direttive e indicazioni comunitarie in materia di diritto del lavoro e mi limiterò quindi ad alcune considerazioni in ordine ai principi generali riconosciuti in sede europea.

Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha posto un freno al "liberismo selvaggio", richiamando la Carta sociale europea del 1961 e la Carta comunitaria dei diritti sociali del 1989 e inserendo tra gli obiettivi dell'Unione "la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione" (art. 136 sostitutivo dell'art. 117).

La "Carta" dei diritti di Nizza, giustamente considerata nello stesso Libro bianco vincolante quale espressione dei principi generali dell'ordinamento comunitario, anche se non ancora inserita nei trattati, contiene per la prima volta un'elencazione dei diritti fondamentali della persona compresi i diritti sociali.

Per il lavoratore vanno richiamati in primo luogo i principi di dignità (inviolabilità della dignità umana, diritto alla vita e all'integrità della persona), che per la loro posizione costituiscono una sorta di "superprincipi" sovraordinati ad ogni altro diritto o libertà, compresa la libertà d'impresa, che non può esercitarsi quindi ad esempio violando la dignità dei lavoratori.

La libertà d'impresa è inoltre limitata, ad esempio, dalla libertà di riunione e di associazione (in particolare di fondare sindacati e di aderirvi), dal diritto alla formazione professionale, dal divieto di discriminazione (e di parità tra uomini e donne), dal diritto dei disabili all'inserimento professionale, dal diritto di informazione e consultazione, dal diritto di negoziazione e di azioni collettive, dal diritto alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato, dal diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque, dal divieto del lavoro minorile.

Ebbene le proposte contenute nel Libro bianco costituiscono un sostanziale svuotamento di molti dei principi elencati, poiché si ipotizza, come si è detto, addirittura la loro derogabilità, anche ad opera del contratto individuale, in quanto tutela ulteriore rispetto allo "zoccolo duro e inderogabile" da garantire a tutti i "lavori" (si pensi ad esempio alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato, al diritto alla limitazione della durata massima giornaliera, al periodo di riposo giornaliero e settimanale e a ferie annuali retribuite, alla tutela della maternità e della malattia, ecc.).

Ciò potrebbe comportare denuncie dell'Italia in sede comunitaria o anche la disapplicazione da parte dei giudici nazionali di norme contrastanti con i diritti fondamentali della "Carta".

Tra l'altro, con ciò anticipando l'esame delle recente riforma costituzionale "federalista", va osservato che l'art. 117 Cost. nuovo testo prevede al primo comma che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".

Ne consegue l'illegittimità, anche sotto il profilo costituzionale per contrasto con l'art. 117 di quelle norme statali o regionali che si ponessero in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento comunitario o con singole direttive.

La norma non dovrebbe più consentire per l'Italia il principio di "regressione" di cui si è già parlato, neppure con riferimento ad un singolo istituto, che non dovrebbe più potere essere modificato in senso peggiorativo rispetto alla normativa comunitaria dal legislatore italiano.

Non è vero, infine, che il progetto in esame sia conforme alle "Raccomandazioni" rivolte all'Italia dall'Unione Europea e alle "linee guida sull'occupazione", con riguardo al rapporto tra flessibilità e sicurezza, che viene interpretato nel Libro bianco nel senso della necessaria riduzione delle tutele del lavoro subordinato al fine di favorire le forme flessibili di occupazione, spostando le tutele "dalla garanzia del posto di lavoro all'assicurazione di una piena occupabilità durante tutta la vita lavorativa".

Infatti, se è vero l'Unione Europea invita i paesi membri ad "accrescere la flessibilità del mercato del lavoro", non li invita però a ridurre le tutele dei lavoratori a tempo indeterminato, ma piuttosto ad aumentare le tutele dei lavoratori precari, "in modo che coloro che lavorano con contratti di tipo flessibile godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevate, compatibili con le esigenze e le aspirazioni dei lavoratori…" (linea guida sull'occupazione n. 14/2001).

Lo stesso Parlamento europeo, con la risoluzione del 20 settembre 2001, ha rilevato che il continuo aumento dei contratti a termine e in generale della precarietà sul lavoro (in particolare delle donne) crea condizioni propizie per pratiche di mobbing, riconoscendo l’esistenza di un chiaro nesso tra queste forme di vessazione sui luoghi di lavoro e lo stress sul lavoro indotto dall’aumento della competizione, dalla riduzione della sicurezza dell’impiego, dall’incertezza dei compiti professionali.

Quindi l'Europa è indirizzata non verso una tutela ridotta per tutti i rapporti di lavoro, in cambio di una poca chiara "tutela nel mercato", ma verso un'estensione ai lavori flessibili di una parte almeno delle tutele previste per i lavori stabili.

2) I vincoli costituzionali

Con riguardo alla Costituzione, appare indicativa l'assenza di qualsiasi interrogativo in ordine al rapporto del progetto con i principi costituzionali, quasi che si volessero ritenere "assorbiti" tali principi dalla costruzione europea o che la recente riforma federalista, con l'assegnazione della potestà legislativa alle Regioni avesse "declassificato" le norme costituzionali in materia.

Sotto il primo profilo è sufficiente richiamare l'art. 53 della Carta che esclude che le disposizioni ivi contenute possano essere interpretate come limitative dei diritti e libertà riconosciuti, tra l'altro, dalle costituzioni degli stati membri.

Sotto il secondo profilo in nessun modo è sostenibile che la riforma federale possa aver comportato un'implicità abrogazione di norme costituzionali o che le stesse possano essere derogate in sede regionale.

Si è già ricordato al riguardo che il primo comma dell'art. 117 Cost. nuovo testo stabilisce che la potestà legislativa delle Regioni è esercitata nel rispetto, tra l'altro, della Costituzione.

Le norme costituzionali rimarrebbero quindi pienamente in vigore e sarebbero incostituzionali le norme che prevedessero la derogabilità, addirittura da parte del contratto individuale, dei principi espressi dalla Carta costituzionale.

Sarebbero incostituzionali quindi norme che prevedessero, ad esempio, la derogabilità del diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, alla protezione della maternità, al diritto di sciopero. Inoltre, in rapporto all'art. 36 Cost., sarebbe di difficile compatibilità costituzionale una disposizione che consentisse "differenziazioni regionali" dei minimi retributivi, che "colgano la diversità dei mercati del lavoro locali" (come si esprime il progetto in esame), a parità di quantità e qualità del lavoro.

Ma in generale il progetto è conforme ai principi fondamentali indicati dalla Costituzione in tema di lavoro?

Poiché molti sembrano averlo dimenticato, va ricordato che l'art. 3 della Costituzione non si limita ad enunciare il principio di eguaglianza, ma attribuisce alla Repubblica il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Quindi il legislatore ordinario deve sostenere e difendere i cittadini "meno uguali" e cioè più deboli per renderli "più uguali" e quindi alla fine "più liberi".

Tra i cittadini "più deboli" la Costituzione pone in prima fila i lavoratori, tanto che il lavoro è contenuto nei primi quattro articoli dei principi fondamentali della Costituzione, esplicitamente (art. 1: "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro", l’art. 3 già citato, l’art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto") o implicitamente nell’art. 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale", che va raccordato con l’art. 41. Infine un intero titolo, il III (artt. 35-47), è dedicato ai rapporti economici ispirati essenzialmente alla tutela dei lavoratori.

Come è stato giustamente ricordato, la Corte costituzionale ha indicato alcuni paletti invalicabili da parte della nuova normativa lavoristica. Le leggi di tutela dei lavoratori, cioè, "possono essere modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale (art. 35 Cost.) della cui attuazione costituiscono strumento" (Corte cost. n. 49/2000); la successiva legge, nel rimodulare in senso peggiorativo le tutele afferenti ad un determinato istituto del diritto del lavoro, deve salvaguardare il nucleo essenziale del medesimo, nei contenuti definiti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost. n. 42/2000); la successiva legge deve inoltre specificare le ragioni che determinano la rimoludazione peggiorativa, al fine di consentire il vaglio di costituzionalità in ordine al rispetto del principio di ragionevolezza, sia con riguardo alla coerenza interna del provvedimento, sia con riferimento alla ponderazione dei beni costituzionali messi a confronto e dunque al rispetto del canone di proporzionalità e congruità dei sacrifici (commento al Libro bianco sul mercato del lavoro dell'Ufficio giuridico CGIL, www.cgil.it).

Pertanto l'intera operazione di smantellamento non potrebbe in alcun modo essere considerata compatibile con il dettato costituzionale e non sarebbe quindi possibile, a meno che non si intenda "smantellare" anche la Costituzione.

Quanto al nuovo testo dell'art. 117 Cost., si è detto che, secondo gli estensori del Libro bianco, la norma andrebbe interpretata nel senso dell'attribuzione alle Regioni della competenza legislativa con riguardo non solo al mercato del lavoro, ma anche alla "regolazione dei rapporti di lavoro e quindi all'"intero ordinamento del lavoro", salvo che per la "determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".

La tesi non è condivisibile sul piano letterale, perché nessuna delle tre "materie" indicate nella norma, e cioè "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni" e "previdenza complementare e integrativa", appare così ampia da ricomprendere l'"intero ordinamento del lavoro": la prima si riferisce, infatti, esclusivamente alle condizioni di lavoro e non alla generale disciplina e "tutela" del rapporto, la seconda all'organizzazione amministrativa delle "professioni" (qualificazione, accesso, albi, ecc.), la terza riguarda la previdenza.

Inoltre, come è stato giustamente osservato (Ufficio giuridico della Cgil), lo stesso art. 117 riformato prevede una competenza esclusiva dello Stato per l'"ordinamento civile e penale", e non vi è dubbio che nel concetto di "ordinamento civile" rientri la disciplina generale del rapporto di lavoro, in quanto rapporto civilistico tra privati, e ciò anche con riguardo alle manifestazioni dell'autonomia collettiva, che ha natura privatistica.

Deve escludersi, pertanto, che le regioni possano legiferare ad esempio in tema di licenziamenti, come è stato adombrato.

D) Il disegno di legge delega

Non è possibile svolgere in questa sede una completa analisi interpretativa del disegno di legge delega.

Mi limiterò ad esaminare, pertanto, gli aspetti che confermano il progetto complessivo del Libro bianco, soprattutto sotto il profilo regolatorio del rapporto di lavoro.

Per quanto, infatti, come si è detto, il disegno di legge riguarda interventi meno traumatici, teoricamente utili a dividere l'opposizione, il quadro di riferimento appare sempre lo stesso ed è pienamente coerente con la filosofia che sta alla base del Libro bianco.

Ciò deve presumersi anche con riferimento a principi espressi in modo assolutamente generico e tali da non consentire una precisa valutazione: in questi casi la critica non può che essere riportata al contenuto del Libro bianco e deve essere particolarmente stringente se si considera che nessuna critica in corso d'opera sarà poi più possibile sul contenuto della legge delegata, che è sottratta all'esame del parlamento.

Passo quindi all'esame delle singole deleghe, tenendo conto delle premesse qui svolte:

1) Collocamento e l'intermediazione di mano d'opera

Nella prima delega con riguardo al collocamento si dà per scontato che l'art. 117 Cost. consenta la generale potestà regionale in questa materia (non limitata ai profili amministrativi già disciplinati dal D.lgs 469/97), poiché rientrante nel concetto di "tutela e sicurezza del lavoro", tesi che si è già avuto modo di criticare in precedenza con riferimento ai profili civilistici della regolazione del rapporto (non ritengo ammissibile, ad esempio, un intervento regionale in tema di divieto di interposizione che incida sulla titolarità del rapporto e sui diritti dei lavoratori).

La delega contiene una serie di criteri del tutto generici, che non possono che essere criticati in blocco, trattandosi di "norme in bianco" che potrebbero essere riempite in qualsiasi modo o comunque secondo la filosofia di fondo del Libro bianco, soprattutto quando si parla di "snellimento e semplificazione delle procedure" o "semplificazione degli oneri amministrativi e burocratici" o, infine, redazione di testi unici sul mercato del lavoro, che rischiano di produrre l'eliminazione di una serie di disposizioni, forse onerose e burocratiche, ma tuttavia a garanzia dei lavoratori.

Nel merito la delega tende verso una sempre maggiore "privatizzazione" del sistema del collocamento, secondo il principio che ciò che è privato è positivo mentre l'intervento statale è deleterio, e non solo in tema di mediazione tra domanda e offerta, ma anche di "attività di servizio", e quindi di politiche attive e preventive, "in un regime di competizione e concorrenza tra i servizi pubblici e gli operatori privati autorizzati" (relazione di accompagnamento al disegno di legge, pag. 6), relegando in realtà l'intervento pubblico a compiti di mera registrazione, e ciò in contrasto, fra l'altro, con l'invito a potenziare i servizi pubblici all'impiego contenuto nelle "Raccomandazioni" dell'Europa più volte richiamate nel Libro bianco.

Con riguardo alle imprese di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, si prevede l'eliminazione del vincolo dell'oggetto sociale esclusivo, con danno per la specializzazione e qualità dell'intervento.

Si prevede inoltre l'abrogazione della legge n. 1369/60 in tema di divieto di intermediazione di mano d'opera, ammettendo quindi, con il ritorno al vecchio "caporalato", l'appalto di mere prestazioni di lavoro (sembra, ma la norma non è chiara, previa autorizzazione degli intermediari privati) quando sussista una ragione tecnica, organizzativa o produttiva, individuata dalla legge o dai contratti collettivi nazionali o territoriali "comparativamente" rappresentativi, con esclusione, sembra, del caso in cui si verifichi o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo, ma con la possibilità di ricorrere al regime certificatorio, di cui ci si occuperà, sulla base di indici e codici di comportamento elaborati in sede amministrativa.

I limiti indicati non appaiono idonei ad evitare il sostanziale svuotamento del divieto, aprendo, fra l'altro, la strada ad una diversificazione territoriale della disciplina dell'intermediazione, in quanto sarebbe consententita la variabilità dei criteri per effetto delle diverse indicazioni dei sindacati anche locali.

Quanto al limite dei diritti inderogabili di legge, a parte la tendenza, che si è vista, a ridurre drasticamente il campo dei diritti inderogabili, rimarrebbero fuori molti diritti retributivi e normativi assicurati ai lavoratori dell'azienda appaltante e gli stessi diritti inderogabili se non immediatamente percepibili (ad esempio il differente regime di stabilità ai fini della reintegra tra appaltante e appaltatore potrebbe verificarsi a distanza di molti anni).

In ordine poi alla "certificazione" tra le parti appare quantomeno "originale" una attestazione non sulla natura del rapporto (come per la generale certificazione di cui si parlerà), ma addirittura sulla liceità anche penale di un comportamento.

Un cenno, infine, all'art. 2112 c.c. in tema di trasferimento d'azienda, per il quale si propone l'eliminazione del requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda preesistente al trasferimento. La previsione è davvero poco chiara, perché l'eliminazione del requisito significherebbe che non si potrebbe più parlare di ramo d'azienda, mentre è molto chiara l'intenzione, e cioè di consentire il trasferimento di singoli lavoratori da un'azienda all'altra senza alcun limite e senza il loro consenso (come è evidente dalla relazione di accompagnamento pag. 10).

2) Incentivi all'occupazione

Va notato che gli incentivi anche finanziari, prospettati in questa delega, sono previsti "senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato": è evidente quindi che gli esborsi necessari andranno sottratti ad altre voci di bilancio, presumibilmente soprattutto CIG, lavori socialmente utili e indennità di mobilità.

Ciò non sembra comportare un complessivo aumento delle tutele neppure nel mercato, tanto sbandierato nel Libro bianco.

La delega prevede, tra l'altro, interventi finanziari ma anche di altra natura in caso di nuova assunzione con graduazioni in rapporto alle caratteristiche soggettive e al grado di svantaggio occupazionale delle diverse aree territoriali.

Cosa si intende per interventi di altra natura non è detto nella delega, ma se si richiama il Libro bianco è evidente l'intenzione di consentire in tal modo deroghe a norme generali, in materia retributiva e normativa, in certe aree territoriali "svantaggiate".

La delega prevede ancora incentivi al ricorso a tempo parziale e trasformazioni a tempo parziale di rapporti a tempo pieno in alternativa all'avvio di procedure di riduzione di personale. Va notato che la delega non dice "in alternativa al licenziamento" e non è chiaro se questi "incentivi" richiedano comunque il consenso del singolo lavoratore o se si ritiene sufficiente un accordo sindacale.

3) Ammortizzatori sociali

Anche in questo caso l'esclusione di "oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato", rende evidente l'intenzione di non assicurare un maggiore tutela complessiva "nel mercato", ma una ridefinizione delle tutele senza superare l'attuale tetto di spesa.

Si prevede la ridefinizione delle condizioni soggettive per la continuità nel godimento delle prestazioni erogate dagli ammortizzatori sociali, legandola alla ricerca attiva del lavoro e alla disponibilità ad accettare offerte o partecipare a interventi formativi.

Al riguardo, se in astratto può essere accettabile l'idea di creare incentivi alla formazione e all'occupazione effettiva e non puramente assistita, va osservato che le condizioni indicate si prestano ad abusi per la difficile valutazione del comportamento del singolo lavoratore.

Quali sono, infatti, i criteri di dimostrazione della "ricerca attiva di lavoro"? Va accettata qualsiasi offerta di lavoro anche dequalificata? Chi stabilisce se le condizioni sono state rispettate?

Senza queste precisazioni la previsione non è condivisibile.

Ma c'è di più: non è chiaro dal testo se il mancato rispetto delle condizioni suddette possa addirittura escludere del tutto gli interventi di sostegno o se scattano solo dopo un certo lasso di tempo, come sembra dall'espressione condizioni "per la continuità nel godimento delle prestazioni".

Se è esatta la seconda ipotesi, non è possibile alcuna valutazione senza conoscere il periodo di tempo durante il quale le prestazioni sono comunque garantite.

Se si trattasse di un tempo irrisorio, ci si troverebbe di fronte ad una previsione sostanzialmente in contrasto, ad esempio, con l'art. 34 della Carta di Nizza, che prevede il diritto all'assistenza sociale, tra cui quella contro il rischio della perdita del posto, senza alcuna condizione, e quindi indipendentemente da qualsiasi profilo di responsabilità in ordine alla perdita del posto o alla mancata successiva occupazione.

Pertanto, se può condividersi una graduazione della tutela in ordine alle condizioni soggettive e di responsabilità del lavoratore, non sembra possa prescindersi da una tutela minima incondizionata.

Va osservato, infine, che la delega prevede la "semplificazione dei procedimenti autorizzatori, anche mediante interventi di delegificazione", con indicazioni ancora una volta generiche e che comunque evocano una riduzione delle garanzie.

4) Agenzia tecniche strumentali per l'occupazione

Si prevede il riordino di tale agenzie, ma senza spiegare come e perché, in assenza quindi dei necessari criteri e principi direttivi, di cui non si parla neanche nella relazione di accompagnamento.

5) Riordino dei contratti a contenuto formativo

La delega contiene l'espressa affermazione che si tratta di una materia rientrante nel concetto di "tutela e sicurezza del lavoro" affidata alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, tesi che si è già criticata in precedenza.

Viene valorizzato l'intervento degli enti bilaterali delle parti sociali, a cui vengono attribuite competenze autorizzatorie in materia. Quindi, sembra di capire, non dovrebbe essere più l'Ufficio del lavoro ma questi enti bilaterali ad autorizzare il CFL e l'apprendistato.

Per di più le modalità di attuazione dell'attività formativa potranno essere determinate anche in sede aziendale.

6) Orario di lavoro

In tema di orario di lavoro si propongono modifiche in tema lavoro di notturno e straordinario, ma anche di riposi giornalieri, pause e ferie annuali in applicazione della direttiva del Consiglio n. 93/104/Ce.

Sul punto non è possibile dare alcun giudizio in assenza di più precise indicazioni nella delega, notando solo, come è evidente dalla relazione, che la direzione di marcia è sempre quella della riduzione dei vincoli considerati troppo rigidi per il datore di lavoro.

7) Part-time

Nella relazione di accompagnamento si criticano i D.Lgs 61/2000 e 100/2001, perché non sarebbero rispettosi della direttiva europea 97/81/CE, introducendo nuovi vincoli soprattutto in tema di clausole elastiche o flessibili.

Si afferma in particolare che le clausole elastiche non dovrebbero limitarsi a consentire solo la modifica "della collocazione temporale della prestazione lavorativa", ma dovrebbero includere anche il "lavoro intermittente" non suscettibile di esatta predeterminazione delle parti.

Si critica inoltre l'esistenza di un preavviso di modifica troppo rigoroso (nonostante il D.Lgs avesse già consentito di ridurlo a sole 48 ore), il diritto del lavoratore al rifiuto della modifica, al consolidamento dell'orario e alle maggiorazioni retributive previste.

Con la delega quindi si consente qualsiasi forma flessibile ed elastica del part-time verticale o misto, e cioè modifiche della ripartizione settimanale e giornaliera dell'orario di lavoro anche comunicate dal datore di lavoro giorno per giorno o addirittura "attimo per attimo" come nel caso del "lavoro intermittente", anche solo con il consenso del lavoratore in caso di assenza dei contratti collettivi e a fronte di una maggiorazione retributiva.

In questa corsa all'eliminazione di ogni vincolo la delega consente l'esclusione di limiti al lavoro supplementare per il part-time orizzontale anche per casi e modalità fissate dai sindacati (sempre anche territoriali e comparativamente rappresentativi), ma anche in questo caso può essere sufficiente il semplice consenso del lavoratore in carenza dei contratti collettivi.

E' prevista inoltre l'estensione di forme flessibili ed elastiche al part-time nei rapporti a termine e l'integrale estensione del part-time al settore agricolo.

8) Lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite

La delega prevede in generale nuove figure di lavoro precario e l'estensione ad altri settori delle figure esistenti.

Oltre al lavoro intermittente di cui si è detto, a cui si riconosce un'indennità di disponibilità, la delega prevede il c.d. lavoro a progetto (collaborazione coordinata e continuativa), con la previsione, certamente positiva, di tutele fondamentali a "presidio della dignità e sicurezza dei collaboratori".

L'indicazione è peraltro molto generica e sembra, comunque, riduttiva non solo con riguardo alle proposte di legge della passata legislatura, che prevedevano una serie di diritti per i lavoratori "atipici", ma anche con riferimento alle indicazioni del Libro bianco, di cui si è parlato (non è chiaro, ad esempio, se nei concetti richiamati dalla delega rientra il diritto alla non discriminazione o alla libertà sindacale di cui non si parla neppure nella relazione di accompagnamento).

Va osservato sul punto che un’interpretazione restrittiva si porrebbe in contrasto con la tendenza della Corte di giustizia europea di estendere una parte delle norme fondamentali del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti "atipici".

Sul versante della tutela dei disabili è grave la previsione di consentire l'assunzione del rapporto a termine o temporaneo per soddisfare le quote obbligatorie di assunzione, a cui si aggiunge la non esclusione dal blocco delle assunzioni delle categorie protette nella legge finanziaria.

La delega prevede, infine, l'estensione del lavoro temporaneo anche in agricoltura.

9) Certificazione del rapporto

In ordine alla "certificazione" della natura del rapporto, di cui si è parlato, nella relazione di accompagnamento ci si è affrettati a rispondere alle critiche al Libro bianco sul punto, affermando che il Governo è consapevole che la Corte costituzionale e la Cassazione non consentono "la disponibilità ad opera delle parti del tipo negoziale".

In realtà la Corte costituzionale (sentenze nn. 121/93 e 115/94) esclude che lo stesso legislatore possa "negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alla garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato".

Quindi la "certificazione" dovrebbe servire solo "a dare alle parti ausilio nella più precisa definizione del testo contrattuale" e in caso di controversia il giudice dovrà tenere conto "anche del comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione".

Lo scopo della delega è tuttavia chiaramente rivolta a "ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro", e quindi per poter raggiungere tale risultato la "certificazione" dovrebbe avere un peso, se non decisivo, comunque molto rilevante sulla qualificazione.

Già oggi la giurisprudenza dà un notevole peso al nomen iuris usato dalle parti (e molti giudici di merito gli danno ormai un peso esclusivo) e sempre più afferma che molte attività possono essere svolte indifferentemente con la forma del rapporto autonomo o subordinato in base alle scelte delle parti.

E facile quindi immaginare cosa succederà con l'approvazione di tale disposizione.

Si tenderà a dare rilievo esclusivo alla "certificazione", a cui il lavoratore difficilmente potrà sottrarsi all'inizio del rapporto (per lavorare spesso si accetta qualsiasi condizione), mentre la formula della procedura ed anche lo stesso termine usato "certificazione", che dà un connotato quasi "legale" all'accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell'ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate nella "certificazione".

Mi sembra quindi che dietro questa proposta si annidino seri rischi di sfruttamento del lavoratore.

10) Licenziamento

La delega prevede in via sperimentale, per quattro anni prorogabili, la deroga alla sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo nei casi di riemersione dal "lavoro nero", trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, crescita dimensionale delle imprese minori.

Sul punto si è detto e scritto molto ed io mi limiterò solo ad alcune osservazioni.

Va notato in primo luogo che anche in questo caso il Governo mostra il suo volto autoritario, proponendo di modificare la disciplina sull'art. 18 in senso contrario alla volontà popolare espressa solo pochi anni fa con il referendum.

L'aspetto più grave è, peraltro, la mistificazione in ordine alle vere ragioni della modifica proposta. Si fa passare cioè questa proposta come una misura non a favore dei datori di lavoro, come dovrebbe essere evidente dalla compatta adesione sul punto di tutti gli imprenditori, ma a favore dei poveri disoccupati, che sarebbero finalmente assunti se non ci fosse tale vincolo, con un legame causa-effetto indimostrata e contestata tra gli economisti.

A fronte di un effetto quanto meno dubbio, la sospensione dell'art. 18 comporta un sicuro effetto di riduzione della tutela del lavoratore, che non si manifesta solo in occasione della cessazione del rapporto ma su tutte le garanzie del rapporto.

E' noto, infatti, che prima dell'introduzione dell'art. 18 erano pochissime le cause di lavoro introdotte durante il rapporto e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese con meno di 16 dipendenti.

Pertanto, senza lo scudo dell'art. 18, di fatto il lavoratore non fa valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, nel corso del rapporto per paura di essere licenziato ed è quindi soggetto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro, come avviene per tutti i rapporti precari o a termine.

Nella relazione di accompagnamento viene richiamata, come esempio da imitare, la disciplina degli altri Paesi europei, senza tuttavia considerare la particolare condizione italiana, dove i datori di lavoro non hanno certo brillato per il rispetto delle normative sul lavoro e dove le ampie sacche di povertà e sottosviluppo rendono i lavoratori più facilmente ricattabili.

Peraltro, a proposito dell'Europa, la delega proposta non appare compatibile con l'art. 30 della Carta di Nizza, che prevede la tutela del lavoratore contro ogni licenziamento ingiustificato.

Al riguardo va chiarito a livello interpretativo cosa si intende per tutela e se quindi è possibile "qualsiasi tutela" anche risarcitoria e anche in termini irrisori.

A mio avviso, se non può ritenersi esclusa dall'art. 30 la tutela solo risarcitoria, tuttavia la norma va coordinata con l'art. 52, che obbliga gli Stati a garantire il "contenuto essenziale" del diritto, che non può essere certamente riconosciuto in un risarcimento irrisorio, soprattutto tenendo conto di altre norme della Carta, come quella relativa alla protezione anche economica della famiglia.

Se ciò è vero la semplice "tutela obbligatoria" prevista dalla L. n. 604/66, che troverebbe applicazione nei casi di sospensione dell'art. 18 (la relazione è chiara nell'intento di applicare quella disciplina e non quindi forme maggiori di risarcimento), non può non essere considerata insufficiente, consentendo anche un risarcimento di sole due mensilità e mezzo, inferiori anche alle forme di risarcimento previste in altri Stati europei.

11) Arbitrato

Si è già detto della volontà di rendere marginale l'intervento del giudice nel mercato del lavoro.

Ciò si esprime nel disegno di legge con la proposta di un libero ricorso all'arbitrato senza i vincoli attualmente previsti a tutela dei lavoratori per evitare gli abusi che potrebbero derivare dalla rinunciabilità di diritti inderogabili.

La materia è già stata recentemente riformata, consentendo l'arbitrato, ma mantenendo alcune garanzie fondamentali, che possono riassumersi essenzialmente nella previsione delle procedure arbitrali nei contratti collettivi e nella impugnabilità del lodo per violazione di disposizioni inderogabili di legge e per difetto assoluto di motivazione.

Ebbene la delega in esame elimina proprio tali garanzie, consentendo l'arbitrato anche se non previsto dai contratti collettivi e prevedendo il lodo secondo equità, con impugnabilità in corte d'appello solo per vizi procedimentali.

Il primo assunto non è espressamente enunciato nella delega, ma lo si chiarisce nella relazione di accompagnamento (pag. 30 lett.a: "anche nel caso tale facoltà non sia prevista dalla contrattazione collettiva nazionale applicabile"), con conseguente marginalizzazione nella materia non solo della giurisdizione, ma anche della funzione di garanzia delle associazioni sindacali e quindi con un'ulteriore spinta verso l'omologazione del rapporto di lavoro ad un normale rapporto commerciale.

La previsione di un arbitrato non previsto dalla contrattazione collettiva potrebbe essere accettabile solo nel caso in cui la legge prevedesse già sufficienti garanzie, come appunto l'obbligo di rispettare le norme inderogabili di legge e di contratto collettivo e la possibilità di impugnare il lodo per qualsiasi vizio non solo procedurale, come proposto dalla Commissione Foglia.

La delega al contrario prevede il giudizio di equità sottratto all'obbligo di rispettare le norme inderogabili di legge, il che, d'altra parte, è conseguenza dell'impugnabilità solo per vizi procedimentali e non più quindi per violazione di disposizioni inderogabili di legge, ma neppure per difetto assoluto di motivazione come è previsto attualmente.

Fra l'altro l'impugnabilità solo per vizi procedimentali esclude qualsiasi rilievo al limite contenuto nella delega del "rispetto dei principi generali dell'ordinamento", che potrebbero essere violati dagli arbitri senza alcuna possibilità di impugnazione.

Un caso espressamente previsto di possibile "deroga" a disposizioni inderogabile di legge riguarda il licenziamento e si riferisce alla possibilità degli arbitri di scegliere, in caso di licenziamento illegittimo, tra reintegrazione e risarcimento, determinandone discrezionalmente l'ammontare.

La previsione è sovrabbondante e superflua, essendo consentito agli arbitri di "derogare" qualsiasi norma con il richiamo al principio di equità.

In sintesi la delega, pur rispettando formalmente il principio costituzionale della non obbligatorietà della soluzione arbitrale, prevedendone la "volontarietà", di fatto mette in grave pericolo l'intera struttura di garanzia del rapporto di lavoro.

E' evidente, infatti, che spesso il lavoratore, pur di essere assunto, sarà portato a sottoscrivere clausole compromissorie ad uso e consumo del datore di lavoro, senza alcuna garanzia, che potrebbe derivare dall'intervento dei sindacati ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero "terza" del collegio.

In teoria la scelta degli arbitri e le procedure istruttorie previste potrebbero essere rimesse interamente al datore di lavoro, se il lavoratore all'inizio del rapporto accetta "volontariamente" tali modalità.

E) Conclusioni

In conclusione le deleghe si pongono pienamente nel solco tracciato dal Libro bianco e rispettano la filosofia complessiva del progetto.

Manca l'affondo decisivo, che consentirà la derogabilità anche da parte del contratto individuale di gran parte delle norme di tutela del lavoratore e la limitazione dell'intervento statale a pochi generici principi, affondo per il quale occorre attendere la realizzazione della recente riforma "federale".

Ma le deleghe danno tuttavia un colpo violento al sistema, estendendo la precarietà del lavoro, eliminando "lacci e lacciuoli" e riducendo quindi gli attuali vincoli per il datore di lavoro posti a tutela del lavoratore, marginalizzando l'intervento del giudice allo scopo di ridurre i controlli sul "libero" esercizio dell'impresa.

Tutti gli interventi contenuti nelle deleghe vanno nella stessa direzione, verso la "liberazione" del datore di lavoro.

Il traguardo finale è di riportare pienamente il rapporto di lavoro nell'alveo dei normali rapporti commerciali, come se non esistesse più una posizione di disparità tra datore di lavoro e lavoratore che ha giustificato fino ad oggi l'esigenza di una tutela particolare della parte considerata più debole.

La nuova frontiera, quindi, non è più la tutela del lavoratore, ma la tutela del datore di lavoro.

Roma, 14.12.2001

*L'articolo riproduce la relazione introduttiva per l'assemblea pubblica e dibattito dal titolo "No al lavoro senza diritti" organizzato a Roma il 14.12.2001 da Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma) - Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti; Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, RdB, Avvocati Progressisti Italiani, Magistratura democratica romana.

Omissis aveva già pubblicato il 21 novembre un pezzo dello stesso autore sul "Libro bianco", il cui testo è inglobato con modifiche nel presente articolo, che comprende anche l'esame del disegno di legge delega.

 

 

 

 

 

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