ISONOMIA

ISONOMIA

Periodico di informazione giuridica

Anno III, n. 5

Giugno 2003

Direttore responsabile Lillo S. Bruccoleri. Condirettori Antonio Acquaroli e Oreste Flamminii Minuto. Redattore capo Giuseppe De Lutiis. Comitato di redazione: Leonardo Agueci, Michela Deflorian, Mario Fresa, Catia Livio, Mario Scialla. Mensile della Associazione culturale "Isonomia". Presidente Mario Almerighi. Consiglieri effettivi: Gianfranco Amendola, Antonio Fiorella, Franco Ionta, Ugo Longo (segretario), Gianni Melillo, Fabrizio Merluzzi, Tommaso S. Sciascia, Rosalba Turco (tesoriere). Consiglieri supplenti: Erminio Amelio, Anna Argento, Giovanna Corrias Lucente, Paola Di Nicola, Paolo Iorio, Mattia M. La Marra, Marcello Marinari, Laura Nissolino, Carlo Testori, Andrea Vardaro, Giuseppe Zupo. Registrazione trib. Roma n. 236 dell’8 giugno 2001. Sede: 00136 Roma, via Giovanni Gentile, 22. Numeri telefonici: 06 39735897, 06 39735051 (associazione); 06 39735052, 06 39735900, 06 39733192, fax 06 39735101, fax 06 39743333 (direzione e redazione). E-mail: isonomia60@libero.it (associazione), isopress@hotmail.com (redazione). Internet: http://digilander.iol.it/isonomia. La collaborazione è, di norma, gratuita. Testi e materiali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Spediz. in abb. post. 45 per cento ex art. 2, c. 20, lett. b), legge n. 662 del 1996. Stampa: Romaprint S.r.l., 00156 Roma, via di Scorticabove, 136, tel. 06 41217552, fax 06 41224001

ANELITO DI GIUSTIZIA

di Mario Almerighi

Il nostro sistema costituzionale considera la giustizia una funzione dello stato e non un contropotere, come in paesi di diritto anglosassone; uno strumento dello stato per lo stato, al servizio della collettività, con il compito di applicare la legge nei confronti di tutti. Ma oggi, ancor più di ieri, la legge non è uguale per tutti. Viviamo in un paese dove la criminalità organizzata manovra ogni anno centomila miliardi di lire; viviamo in un paese in cui il cittadino comune che lamenta lesioni dei suoi diritti non riesce più ad affermarli; in un paese dove l’imputato per sapere se è colpevole o è innocente deve attendere un tempo che si aggira tra i dieci e i quindici anni.

Le gravi carenze della pubblica amministrazione, l’assenza di controlli efficaci in prevenzione, l’espropriazione di vaste zone di territorio del paese da parte delle organizzazioni criminali hanno contribuito a sopravvalutare le potenzialità della giustizia. La conseguenza è che è aumentata sempre più la domanda di giustizia e che si sono create aspettative che inevitabilmente vengono deluse. Né potrebbe essere diversamente perché, come è noto, la funzione della magistratura nell’applicare la legge è quella di evidenziare una patologia, non di curarla. La cura delle patologie è compito della politica. L’assenza di queste cure determina un circolo vizioso, la cui risultante è un aumento vorticoso di sfiducia del cittadino nei confronti non solo della giustizia, ma anche dello stato: sfiducia che rischia di estendersi anche tra i magistrati e gli avvocati; sfiducia che mi sembra stia provocando il sorgere di uno strisciante fenomeno di burocratizzazione di tutte le funzioni giudiziarie.

Mi sembra che in una tale situazione i protagonisti del processo siano rimasti privi di punti di riferimento: il pubblico ministero ondeggia tra il ruolo di parte proprio della cultura anglosassone e il ruolo tradizionale della nostra civiltà giuridica che lo configura come organo dedito all'accertamento della verità e non esclusivamente all’accusa; l’avvocato soffre perché vorrebbe una parità di ruolo con il pubblico ministero; il giudice è a disagio per la strisciante delegittimazione della sua terzietà. Per modificare queste tendenze occorre riconquistare una comune cultura della legalità e della giurisdizione; non è più pensabile, nella situazione attuale, che si possa rimediare con logiche corporative, di chi mostra i muscoli più forti, per l’affermazione del potere di questa o quella parte. Senza dimenticare che l’interesse del cittadino appartiene non solo al cittadino ricco e potente, ma anche a quello povero, indifeso e debole.

La giustizia non può costituire un optional cui i potenti hanno diritto di rinunciare, neanche in nome del popolo italiano. Qualsiasi contributo alla soluzione di ogni problema, in qualsiasi settore, deve impegnare l’uomo nella sua interezza, con il coinvolgimento della sua anima e della sua ragione. Per quanto riguarda la giustizia, credo che ciascuno di noi, nell’approccio con i problemi che la riguardano, debba immedesimarsi con il suo cuore, nella sofferenza di chi, sia esso imputato o vittima del reato, non ha giustizia, e da qui arrivare a proporre soluzioni razionali, prive di qualsiasi condizionamento di altra natura.

Vorrei concludere con parole di Dionigi Tettamanzi: "L’eclissi di legalità è frutto di una eclissi della moralità; parlare di rischio del sistema paese significa che di fronte all’esigenza di essere attenti al bene di tutti vi è una accentuazione spesso esclusivista sull’interesse individuale, sull’interesse del gruppo o di una forza politica, che rimanda a un individualismo totalmente slegato dalla doverosa preoccupazione per l’intero paese. Ritengo che oggi uno dei rischi più forti sia quello di sostituire al criterio della ricerca della verità per recare un servizio agli altri quello dell’interesse proprio o del gruppo di appartenenza, svendendo a determinate forze tutto il patrimonio morale che abbiamo dentro. La cultura dominante si fonda sull’accettazione acritica dei mass media; il rischio è che noi ascoltiamo un’infinità di voci e non ascoltiamo quella voce di fronte alla quale non è possibile barare: la voce della nostra coscienza".

Il convegno di Isonomia sul tema: carriere separate, giustizia risanata?

NON SERVE MODIFICARE LA COSTITUZIONE

di Giovanni Conso

Non si risana la giustizia solo separando le carriere. Anzi il problema dell’efficienza è così enorme, difficilissimo, da essere bisognoso di idee verificate con calma; qui c’è invece un qualcosa che preme anche su un piano emotivo. Certo, non possiamo eludere il problema perché è in gioco la immagine e la credibilità della giustizia. Allora dobbiamo fissare alcuni paletti. Il 7 febbraio 2000 veniva depositata la sentenza della corte costituzionale n. 37, che riguardava l’ammissibilità di un referendum su alcune norme relative alla carriera dei magistrati. La conclusione era in questi termini: "La costituzione, pur considerando la magistratura come un unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico consiglio superiore, non contiene alcun principio che imponga, o al contrario precluda, la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti o a quelle requirenti, oppure non contiene nemmeno limitazioni o condizionamenti per il passaggio dello stesso magistrato dalle une alle altre funzioni". In sostanza, non ci sarebbe bisogno di riforme costituzionali e si potrebbe agire per legge ordinaria.

Questa sentenza ci aiuta anche da un altro punto di vista: se è pur vero che sembra dare via libera alle riforme con legge ordinaria (del resto i progetti sono una quindicina ed io temo forse di peccare per difetto), però afferma che "un ordinamento caratterizzato da una vera e propria separazione delle carriere dei magistrati addetti alle funzioni giudicanti ed a quelle requirenti è un obiettivo che richiederebbe una nuova, organica disciplina, suscettibile di essere introdotta solo attraverso una complessa operazione legislativa".

Insomma, riforme così delicate e importanti vanno meditate con oculatezza, perché i riflessi di una separazione delle carriere sono tantissimi.

Chiudo con un’altra considerazione che riguarda l’ultima trovata che è quella dei concorsi separati, che poi vorrebbe dire carriere separate. Ma quando avrà mai effetto tutto questo? Voglio assumere per un attimo la qualità di consulente: non sposo la vostra causa, ma vi do dei suggerimenti. A parte che bisognerebbe bandire i concorsi, dettare le regole da stabilire con la legge, eccetera; dopo ci saranno i candidati che vinceranno il concorso A e il concorso B. Ma, prima che questi assumano le funzioni, vadano avanti nella carriera, diventino presidenti del tribunale o diventino procuratori della repubblica, chissà quanto tempo ci vorrebbe.

In conclusione, un suggerimento: limitiamoci a lavorare sulla separazione delle funzioni, nel senso di una alternanza tra esse, perché il pericolo può essere il fossilizzarsi in una stessa funzione e questo, soprattutto per il pubblico ministero, può essere pericoloso.

D’altra parte, se questo passa di colpo alla funzione giudicante, magari nello stesso ambiente, la gente non può altro che sospettare: la moglie di Cesare ancora una volta ci insegna molto. Il problema è sicuramente delicato e di non facile soluzione, ma sceverare il grano dal loglio credo che possa essere ancora e sempre cosa utile.

Unico ordine per giudici e pubblici ministeri

INCOSTITUZIONALE LA SEPARAZIONE

di Leopoldo Elia

Con la sentenza n. 37 del 7 febbraio 2000 la corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sulla separazione delle carriere. Il referendum non sarebbe esaustivo, perché un ordinamento caratterizzato da una vera e propria separazione delle carriere dei magistrati è un obiettivo che richiederebbe una nuova organica disciplina suscettibile di essere introdotta solo attraverso una complessa operazione legislativa e non attraverso la semplice abrogazione di alcune disposizioni vigenti. Infatti, quando si parla di possibili carriere separate, si deve premettere che la costituzione – pur considerando la magistratura come un unico ordine soggetto ai poteri di un unico consiglio superiore – contiene delle limitazioni immanenti perché, se si esce fuori dalla posizione di operatore di giustizia e si aderisce alla figura di persecutore e accusatore, ci sarebbe di che riflettere, anche dopo la sentenza n. 37.

Se veramente si portasse il pubblico ministero fuori dall’unico ordine, si sarebbe fuori anche dall’attuale costituzione e bisognerebbe, se si volesse procedere oltre, modificare la costituzione; se si rimane dentro l’ordine, si rimane dentro l’attuale costituzione; se si esce dall’ordine, si esce anche dall’attuale costituzione. Questo è un punto fondamentale che deve essere ribadito, perché la separazione delle carriere portata oltre un certo limite, o come premessa rispetto a ulteriori passaggi, pone effettivamente problemi di politica costituzionale di grande rilevanza.

La questione mi interessa personalmente, perché sento sempre un po’ il bisogno di giustificare un mio atteggiamento assunto in commissione bicamerale, quando ribellandomi alla disciplina di partito mi astenni sulla divisione del consiglio superiore della magistratura in due sezioni: sezione per la magistratura giudicante e sezione per la magistratura requirente. Mi opposi perché ritenevo che un apparente rafforzamento della magistratura requirente avrebbe richiesto poi interventi di controllo in nome della responsabilità che avrebbero messo in dubbio l’indipendenza e la stessa obbligatorietà dell’azione penale: dunque un salto che in base alla nostra cultura giuridica ci rifiutiamo di compiere.

Certamente nella vita giudiziaria ci sono delle difficoltà che secondo me sono strutturali e non puramente congiunturali, perché il giudice non è sotto l’influenza o il condizionamento del pubblico ministero. Il presidente del tribunale di Roma ha detto molto bene che è portato a credere, almeno come presunzione di prima apparenza, che il pubblico ministero non abbia quei vincoli che derivano dal legame tra avvocato e cliente e che il pubblico ministero non sia vincolato verso l’imputato da quei doveri che ha invece l’avvocato difensore.

IL SALUTO DI ALBERTO GAMBINO

Un saluto da parte del "Circolo Giustizia". Nel salutare tutti i presenti, cittadini e autorità, e in particolare il presidente Scàlfaro, ringrazio a nome del "Circolo Giustizia" Mario Almerighi per averci accomunato con l’associazione "Isonomia" in questa iniziativa; il "Circolo Giustizia" è un laboratorio di riflessione e di idee che vede riuniti assieme avvocati, magistrati, docenti universitari di materie giuridiche, consapevoli di poter offrire non solo un apporto di competenza e professionalità, ma anche tanta passione civile. È proprio questa la consapevolezza che ciascuno di noi – per quanto immerso, e talvolta sommerso, nelle attività professionali quotidiane – non può esimersi dallo svolgere fino in fondo il proprio ruolo di cittadino, che altro non è che quello di mettere al servizio della comunità la propria intelligenza, la propria volontà, la propria passione, perché la politica si ricordi delle ragioni che la ispirano. È per questo che sin dal titolo del convegno, "Funzioni separate: giustizia risanata?", ci è sembrato opportuno riaffermare quale sia l’orizzonte entro il quale deve muoversi qualunque riforma legislativa: l’interesse del cittadino. Per molti è un principio fondamentale e scontato, ma talvolta si perde, annacquandosi in politiche normative contaminate da altri interessi, pur legittimi, ma che non rappresentano il fine ultimo dell’azione politica. Con questo spirito partecipiamo con fiducia e interesse al convegno di oggi.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

OSCAR LUIGI SCALFARO. L'UMANITA' E' SEMPRE LA STESSA

Vorrei fare una brevissima sottolineatura, cercando di ridurre il più possibile al silenzio la mia interpretazione di presiedere: non possiamo non prendere atto che siamo in un momento in cui il tema della magistratura viene discusso su un terreno di polemica eccezionale, mi permetto di dire fastidiosa.

Credo di essere sufficientemente sereno nel sottolineare che la parte più accesa nella polemica non mi pare sia quella della magistratura. E devo anche aggiungere che da fasi precedenti in cui la polemica politica aveva dei bersagli abbastanza individuati e individuabili, lamentando a torto o a ragione taluni comportamenti, le più recenti dichiarazioni del presidente del consiglio sono state rivolte nei confronti della magistratura in quanto tale; non si può negare che c’è stato un alzamento non di tono, ma di sostanza.

Senza dare alcuna valutazione tragica, mi pare di essere sereno in questa constatazione, perché questo è un punto di partenza, di valutazione politica, nel senso di ciò che avviene nella "polis". Questa non è una precisazione che vuole invitare i partecipi a chissà quale serenità di giudizio (non mi permetterei mai di fare questa considerazione), ma vuole soltanto ricordare un punto, che è stato sottolineato soprattutto da chi ha parlato in nome dell’avvocatura, e di questo ringrazio, perché personalmente mi ha toccato profondamente e mi è parso particolarmente oggettivo e, devo dire, particolarmente bello.

Devo aggiungere una seconda considerazione, che nasce da una esperienza politica che mi vede in questo ambiente, in questo mondo, con responsabilità varie, da cinquantasette anni. Ho in mente un caso che per me è stato particolare: la polemica che è stata condotta per passare dal sistema elettorale che ci vide dall’assemblea costituente, quando iniziava per la prima volta il voto universale, in particolare alle donne, il sistema proporzionale, al sistema maggioritario; chi ha tempo di andare a rileggere articoli di fondo di firme eccezionalmente importanti, anche oggettivamente importanti per cultura, per preparazione professionale, può notare quanti hanno scritto che il passaggio da un sistema all’altro voleva dire la chiusura di ogni modo di sbagliare, di ogni sistema di errore, di ogni sistema di tangentopoli; insomma era commisurato a una visione religiosa, una specie di battesimo, di purificazione assoluta.

In realtà l’esperienza ci ha insegnato che ogni sistema, poco alla volta, risente dell’uso, delle miserie di ciascuno di noi, che quel sistema viviamo, fino a giungere anche a forme gravi di corruzione. Presentare una legge elettorale come la purificazione assoluta è un discorso che, se è consapevole, non so quanto sia di buona fede.

Così è stato, così mi pare che sia – l’uomo non è diventato perfetto – nella discussione su carriere distinte, carriere divise, funzioni distinte. Devo dire che quello che mi dispiace è che si dia a queste proposte una interpretazione eguale: cambierà il mondo, il processo diventerà più rapido, la situazione sarà totalmente diversa.

Non riuscirò a credere mai a questa interpretazione, che sa di delitto passionale e che, però, riesce a creare stati d’animo di consenso: forse perché anche nello scenario politico parlamentare il numero dei tecnicamente competenti è di minoranza assoluta.

Il numero di quelli che sono consapevoli di dover ascoltare i colleghi competenti è un numero buono; ma non è piccolo il numero di quelli che sento incompetenti e sono convinti, avendo letto tre pagine in più, e soprattutto essendo stati imputati in qualche circostanza, di sentirsi per ciò stesso docenti universitari di prima fascia. E questo è un fatto di una certa gravità che determina logicamente talune conseguenze.

LUIGI SCOTTI. IL GIUDICE

Ha ragione l’avvocato Flamminii Minuto quando dice che la rissosità sull’argomento magistratura e giustizia è un po’ fuorviante per tutti. Avremmo bisogno invece di una pacatezza di dialogo, di scambio di idee, con tutta l’umiltà da parte nostra, professionisti della giustizia, e con tutto il rispetto nei confronti della politica, del parlamento che fa le leggi. Però a scorrere certe interviste, quando leggo che si scomoda Verre, con la porcilaia finale in cui bisognerebbe mandare alcuni magistrati; quando si dice che basterebbe un paio di schiaffoni per mettere le cose a posto oppure che un gruppo di magistrati dovrebbe essere mandato ai lavori forzati, mi viene la voglia di fare dignitosamente un passo indietro e lasciare ad altri la rissa.

Durante i lavori all’assemblea costituente, all’onorevole Leone che proponeva che il pubblico ministero divenisse organo dell’esecutivo, con tutte le conseguenze, l’onorevole Calamandrei rispondeva: "Ad un certo stato corrisponde un certo pubblico ministero e, dato un certo pubblico ministero, avremo un certo esercizio della giurisdizione". Che cosa voleva dire Calamandrei, che poi si batté contro la tesi sostenuta dall’onorevole Leone e da altri? Voleva esprimere tutto un percorso culturale che aveva attraversato il secolo precedente e che aveva visto divisi alcuni, i quali volevano appunto che il pubblico ministero fosse un organo dell’esecutivo, consapevole anche della ragion di stato, in certi casi, e che potesse essere controllato, pur nel proponimento all’azione penale, in determinate circostanze, e che avesse alle sue spalle un governo, un assetto dello stato fortemente accentrato, con un esecutivo centralistico, al centro dei rapporti istituzionali; mentre c’era, d’altro canto, una visione liberal-democratica che individuava nel pubblico ministero – un appartenente all’ordine giudiziario, caratterizzato dalla cultura della giurisdizione, sia pure come parte di accusa – la sua funzione fondamentale. La figura del pubblico ministero nel secolo precedente aveva avuto questa trasformazione, non sempre lineare; non mi attarderò su questa evoluzione; ne voglio soltanto indicare i tratti salienti.

Con l’unificazione d’Italia, il primo ordinamento giudiziario del 1865 lo caratterizzava come organo del potere esecutivo; poi c’era stata una evoluzione successiva e la scomparsa, per esempio, nella legge Oviglio, della dizione "organo dell’esecutivo". L’ordinamento del 1941 anzi gli dette una giurisdizionalizzazione perché il codice del 1930 gli assegnava alcuni poteri giurisdizionali: il potere di archiviazione e soprattutto l’istruzione sommaria; quindi c’era questa ambiguità, ma era fortemente controllata addirittura attraverso delle circolari che gli imponevano determinate cose. Già nel decreto luogotenenziale del 1946 alcune cose cambiano e il pubblico ministero viene riportato nell’ordine giudiziario. L’assemblea costituente delinea le caratteristiche fondamentali del pubblico ministero: appartiene all’ordine giudiziario che nel suo complesso, quindi comprendendo anche il pubblico ministero, è un ordine indipendente e autonomo rispetto a tutti gli altri poteri dello stato. Come gli altri magistrati è inamovibile: e questo è un portato fondamentale, perché prima invece poteva essere trasferito, dispensato dalle funzioni, addirittura licenziato dal ministro della giustizia o, per i gradi superiori, dal consiglio dei ministri o dal re con decreto. Adesso è inamovibile e nella propria cosiddetta gerarchia si distingue dagli altri magistrati dell’ordine giudiziario soltanto per funzioni, perché l’articolo 107 della costituzione si riferisce anche ai pubblici ministeri.

Molti autori, molti commentatori, anche successivi, hanno detto: abbiamo una figura che è caratteristica del sistema italiano, diverso dagli altri sistemi. Che cosa ha voluto dire la costituzione con queste caratterizzazioni del pubblico ministero? In primo luogo, che fa parte dell’ordine giudiziario: quindi partecipa in tutto e per tutto all’ordine giudiziario e ne ha tutte le caratteristiche fondamentali. In secondo luogo, che partecipa culturalmente, che ha la cultura della giurisdizione, che è la cultura della neutralità, dell’imparzialità intesa come imparzialità nella ricerca degli elementi di prova di accusa, imparzialità come neutralità; cultura della giurisdizione significa rispetto verso le parti del giudizio, quindi anche verso la sua controparte, che è l’avvocatura. Significa cioè un giurista, oltre che un accusatore, non un persecutore; non deve essere una parte nel senso partigiano del termine, né deve essere un rappresentante dello stato, in quanto poi ha in via monopolistica l’esercizio dell’azione penale, che per lui è obbligatoria. Escludendo la discrezionalità dell’azione penale, si rispetta il principio dell’articolo 3, fondamentale: sono tutti uguali dinanzi alla legge, quale che sia la loro collocazione, non soltanto come cittadini ma anche per il ruolo che essi svolgono nella comunità.

Se tutto questo è vero, in relazione ad alcune proposte che sono state prospettate, mi permetto di fare, da magistrato, un confronto con l’avvocatura, ma anche con i colleghi del pubblico ministero. Concorsi separati: mi domando a che serve il concorso separato. Se serve a caratterizzare ulteriormente la funzione di accusa per dare ad essa quelle specificità, allora ho l’impressione che si voglia abbandonare la cultura della giurisdizione per l’intero ordine giudiziario, cioè anche per i pubblici ministeri, ossia per trasformare il pubblico ministero da magistrato accusatore, ma con la sua cultura della giurisdizione che significa quello che mi sono permesso di sottolineare prima, in un persecutore a oltranza che sia controparte rispetto all’avvocato. E qua ho le mie prime perplessità: una cosa è essere accusatore e altra cosa è essere persecutore. Se poi significa semplicemente specializzazione, dargli cioè quel bagaglio non soltanto culturale ma anche strumentale affinché svolga bene la funzione di accusatore, questo, in realtà, già lo stiamo facendo; lo fa il consiglio superiore della magistratura nei vari stages che organizza per il pubblico ministero: e su questo possiamo senz’altro intenderci.

Non vorrei invece che il concorso separato significasse che il pubblico ministero debba uscire fuori, dal punto di vista culturale, dall’ordine giudiziario. Quale sarà allora la sua sorte? Il collega Ionta avverte: in questo modo avrà ancora più potere. Io invece ho un timore diverso: che un pubblico ministero, che non si saprà nemmeno più se chiamare magistrato, diviso, senza neppure più questa colleganza culturale, sarà sempre più indebolito; forse diventerà l’avvocato della polizia giudiziaria, forse gli avvocati a questo punto non si troveranno più un pubblico ministero magistrato, qualche volta fantasioso, qualche volta ribelle rispetto al suo stesso capo, qualche volta troppo protagonista, qualche volta eccessivo, qualche volta ignorante, qualche volta schizofrenico, qualche volta persecutore, ma si troveranno l’armata del ministero dell’interno con i propri avvocati, che saranno i pubblici ministeri.

Se poi addirittura si passa dalle carriere separate ai ruoli separati, la mia preoccupazione è ancora maggiore. Si abbia il coraggio di dire: vogliamo un pubblico ministero collegato all’esecutivo che si renda conto della ragion di stato. La ragion di stato implica necessariamente la discrezionalità dell’azione penale. Il pubblico ministero dovrebbe allora avere una visione anche politica della struttura dello stato e ragionare in maniera omologa all’indirizzo politico generale: proprio quello cioè che l’assemblea costituente non aveva voluto. Non so, poi, quanto una scelta di questo genere possa contribuire alla snellezza, alla rapidità dei processi, cioè a dare delle risposte di giustizia quotidiana.

Un altro aspetto: quanto incide oggi il pubblico ministero, così come è strutturato, sul magistrato giudicante? Ho sempre esercitato la funzione giudicante, ma non mi sono mai sentito condizionato, né vedo i colleghi condizionati; ho tantissimi amici avvocati, li ho avuti sempre, e non mi sono mai sentito condizionato, né dagli amici avvocati che trattavano le cause con me, né dai colleghi pubblici ministeri; e vedo nella mia esperienza quotidiana, anche mediante la vigilanza che esercito, che neppure i colleghi magistrati sono condizionati. Vediamo cosa accade in udienza preliminare. Se guardo le statistiche del mio ufficio, abbiamo ormai un filtro da parte della sezione gip-gup che ha quasi raggiunto il 75 per cento. Ciò significa che su cento indagini attivate dal pubblico ministero settantacinque cadono addirittura nella prima fase innanzi al gup; significa che il gup non subisce condizionamenti di alcun genere da parte del pubblico ministero. Secondo la logica di coloro che vorrebbero la separazione delle carriere si dovrebbe dedurre che semmai subisce condizionamenti da parte degli avvocati; ma le loro carriere sono già separate.

Per quanto riguarda il dibattimento, devo dire, per la verità, che mi risulta che talvolta sia qualche avvocato ad assumere atteggiamenti arroganti nei confronti dei giudici e non certo i pubblici ministeri. Sappiamo tutti che se un bravo e aggressivo avvocato decide che un processo non s’ha da fare è difficilissimo fare quel processo e che, se invece un bravo pubblico ministero è deciso a portare a termine un processo in breve tempo, ben difficilmente raggiunge il suo scopo. Voglio dire che l’incidenza della personalità dell’avvocatura – in termini fisiologici qualche volta e qualche volta in termini patologici – è maggiore di quella della pubblica accusa, cioè del collega pubblico ministero. Rimane il fatto, comunque, che anche sul piano statistico, anche in dibattimento il numero delle assoluzioni è maggiore del numero delle condanne.

Ultimo aspetto: la interscambiabilità delle funzioni. Qua ci sono colpe della magistratura e ritardi da parte del mondo politico. Di colpe anche noi magistrati ne abbiamo tante. Non è vero che la magistratura è una specie di cittadella assediata; che noi siamo circondati dai nemici; che tutti ci attaccano e ci vogliono male; che noi invece siamo immuni da colpe. Abbiamo sbagliato in un eccesso di personalizzazione dei pubblici ministeri; nel pretendere quella personalizzazione delle funzioni tipica della magistratura giudicante anche nell’ufficio requirente; probabilmente degerarchizzare in tutto e per tutto l’ufficio del pubblico ministero è stato un errore: bisognava fermarsi a mezza strada.

La magistratura con umiltà e consapevolezza è disponibilissima. Se però viene schiaffeggiata e offesa continuamente, è ovvio che si tiri indietro e rifiuti il dialogo. Ma per favore: che il mondo politico ci proponga delle cose che poi diano un risultato reale ed effettivo all’utenza, alla giustizia quotidiana.

Questo è ciò che i cittadini chiedono ai magistrati: giustizia quotidiana. Se poi dall’altra parte si chiede che i magistrati, pubblici ministeri e giudici, diventino dei semplici funzionari della giustizia graditi all’esecutivo, allora sì che autonomia e indipendenza diverrebbero soltanto degli orpelli e lo stesso consiglio superiore diventerebbe pressoché una cosa inutile rispetto a una massa di novemila impiegati della giustizia.

Ma qua mi rivolgo agli avvocati, ai parlamentari, agli uomini di cultura, interrogandoli su quale può essere la controazione criminale di novemila magistrati, frustrati impiegati dello stato, continuamente offesi e svillaneggiati, la cui voce non viene neppure ascoltata pur essendo una voce che viene dall’esperienza concreta. Siamo disponibilissimi a riconoscere le nostre colpe così come abbiamo rivisto ed aumentato negli ultimi tempi anche la produttività.

Sarà perché siamo circondati da queste critiche, sarà per i primi effetti della legge Pinto, sarà per uno scatto di orgoglio o perché vogliamo partecipare non soltanto al dibattito ma al miglioramento di efficienza del servizio giustizia che contribuiremo ad una società migliore nell’interesse della collettività.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

FRANCO IONTA. IL PUBBLICO MINISTERO

Intanto voglio veramente ringraziare le persone che sono qui presenti, perché la loro presenza così numerosa, così autorevole, dà la migliore dimostrazione che il tema che è stato proposto in questo convegno sia rilevante e di assoluta e strettissima attualità. Nel contempo questa attenzione rende maggiore la responsabilità di chi è chiamato a esprimere le proprie opinioni, specialmente quando – come chi vi parla – ha una veste istituzionale, ha un ruolo di operatore tecnico della giustizia, e ha un incarico specifico di pubblico ministero, e dunque di far parte di quella struttura complessiva su cui il dibattito si incentra prevalentemente, e con toni e con accenti forse anche al di sopra delle righe.

Ammetto subito che ho più volte provato a immaginare quale potesse essere il taglio di questo breve intervento che volevo fare e sono stato, devo dire, in difficoltà, perché ogni giorno che mi predisponevo a buttare giù una scaletta di questo intervento vedevo modificare sotto gli occhi tutte le varie prese di posizione che si susseguivano da un giorno all’altro: nuove iniziative, nuove indicazioni, nuove proposte, nuove scelte di campo, una trasversalità abbastanza difficile da ricostruire all’interno delle stesse forze politiche; e dunque mi sono domandato a che cosa bisognasse parametrarsi per cercare di avere una opinione che fosse per lo meno riferibile o riferita a un testo, a una proposta che fosse in qualche modo possibile commentare. Alla fine mi sono detto e ho pensato che l’unico approccio possibile, l’unica possibilità per dire qualche parola, qualche osservazione che avesse un minimo di coerenza fosse quella di affrontare il problema della separazione delle carriere o delle funzioni partendo da considerazioni di carattere generale e tenendo conto della proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario, che è quella recata dal disegno di legge governativo n. 1296, che rappresentando l’indirizzo del ministro della giustizia potesse significare l’ossatura portante di quello che si pensa in punto di giurisdizione, con cui appunto fare i conti.

Intanto consentitemi una notazione preliminare, che mi è particolarmente consueta: nella nostra società – e tutti ne siamo in parte vittime e in parte artefici – vi è un forte condizionamento che deriva dall’uso delle parole e dal tipo di parole che vengono utilizzate per rappresentare una situazione; e questo si verifica soprattutto quando queste parole assumono la valenza di una previsione creatrice, in un sistema volutamente semplificato di comunicazione. Credo – e anche questa è un’altra delle mie ricorrenti osservazioni – che la semplificazione sia un valore se rappresenta la scomposizione positiva ai fini della soluzione di un problema da affrontare e che invece divenga una negatività se si pone come sinonimo di approccio superficiale. Ebbene, credo che fissare all’ordine del giorno del dibattito sulla giustizia, così come sostanzialmente in questi ultimi mesi è stato fatto, la separazione delle carriere e rapportare questo ordine del giorno all’efficacia dell’apparato giudiziario significhi quasi inevitabilmente porre in stretta relazione la durata ragionevole del processo con la separazione tra magistrature requirente e giudicante, quasi che l’una, cioè la durata ragionevole del processo, dipenda dall’altra, cioè dalla separazione o meno delle carriere, quasi intendendo che separando carriere tra magistrature requirente e giudicante si arrivi automaticamente a far durare di meno il processo.

Alle persone che mi stanno cortesemente ascoltando credo che sia inutile dire che per chi frequenta i palazzi di giustizia, la trincea, come diceva Flamminii un attimo fa, è invece di tutta evidenza che sono altre le ragioni che determinano la lentezza delle procedure e che la separazione su esse non ha alcuna incidenza. Sappiamo bene che in Italia, nel nostro sistema, c’è troppo penale; sappiamo che ci sono troppe garanzie soltanto apparenti; sappiamo che in sostanza ci sono troppi ostacoli al proseguire del procedimento e da ultimo – come notava l’avvocato Flamminii, e io sono d’accordo – c’è anche una sopravvalutazione della possibilità dell’utilizzo del giudice monocratico, perché anche quella probabilmente è stata in qualche modo introdotta pensando più in termini di quantità, e dunque di efficientismo, piuttosto che di qualità di resa di giustizia.

Se quello che sto cercando di dire è corretto, cioè che non c’è relazione tra durata ragionevole del processo e separazione delle carriere, a me pare che il tema della separazione vada sganciato da quello della durata del processo e ricondotto all’alveo più specifico e più proprio: quello dell’assetto istituzionale complessivo, cioè quale collocazione si vuole dare nel nostro ordinamento alla figura e alla struttura dell’ufficio del pubblico ministero. Dico subito che se pensassi, e non lo penso, in termini di puro potere, in una prospettiva appunto che definirei di potere, potrei dire che la separazione delle carriere comporta in modo praticamente automatico che il pubblico ministero, restando distinto dal giudice ma autonomo e indipendente, diventerebbe, sotto il presidio costituzionale dell’obbligo dell’azione penale e rimanendo comunque capo della polizia giudiziaria, con la capacità ovviamente di andare a ricercare la notitia criminis, ancor più rappresentante di un potere ai limiti della insindacabilità.

Forse su questo non si è riflettuto abbastanza, perché credo che non se ne siano valutati i rischi e la pericolosità; sganciare, dunque separare la struttura del pubblico ministero ne comporterebbe un aumento del potere, in quanto sarebbe autonomo rispetto al giudice, indipendente rispetto alle strutture, capo della polizia giudiziaria, con l’obbligo dell’azione penale definito per costituzione, e in più probabilmente autonomo nella propria configurazione di funzionamento. Se si vuole questo, certamente un intervento legislativo, forse anche di livello costituzionale, non lo definirei eversivo; un intervento legislativo volto a separare le carriere si può fare: non credo che vi siano dei segnali di eversione dell’ordine costituzionale; e tuttavia credo che sia inconferente rispetto al problema dell’efficacia giudiziaria, ma anche costitutivo di un ulteriore potere. Quindi mi domando se questo tipo di situazione, in prospettiva, in fieri, non sia foriero della necessità che a quel punto si avvertirebbe l’esigenza di controllare l’attività della struttura del pubblico ministero, così divenuta ancor più potente rispetto a quella che oggi conosciamo.

Separazione delle funzioni. Forse qualche intervento su questo punto si potrebbe fare con costi minori rispetto a quelli che ho cercato di delineare per la separazione delle carriere, con la prospettiva di rendere più effettivo il principio di recente introdotto dall’articolo 111 della costituzione sul "giusto processo"; ciò, però, a una condizione ineludibile, e cioè che le modifiche che si possono apportare in punto di separazione di funzioni non abbiano il sapore o, forse peggio, non tradiscano una volontà punitiva verso l’attività delle procure. Voglio solo richiamare alcuni segnali che colgo nel disegno di legge n. 1296 di cui parlavo.

Quando, per esempio, in caso di mutamento di funzioni si obbliga al mutamento del distretto, si enuncia, credo, un pregiudizio e si dimentica che il codice già attualmente prevede la incompatibilità assoluta di un soggetto che abbia svolto investigazioni, indagini preliminari, una volta modificato il suo ruolo e divenuto giudice, di occuparsi di quelle stesse questioni. Oppure quando si dà per necessaria l’idoneità della scuola della magistratura soltanto per il settore penale e invece non si valuta la professionalità o il vaglio di professionalità, per esempio, per il passaggio dal settore penale a quello civile. Francamente, se dovessi passare a fare il giudice civile, avrei enormi difficoltà, molte di più che non a fare un passaggio al giudice penale. E allora mi domando se non fosse possibile immaginare una cosa tutto sommato abbastanza più semplice: definire, per esempio, la possibilità di un solo passaggio da giudicante a requirente, o viceversa, non penalizzando questa scelta con la inevitabilità del trasferimento fuori distretto; al limite, pensare a un secondo possibile passaggio dall’una all’altra delle funzioni, questa volta sì, cambiando distretto, per evitare quello che nei piccoli centri si potrebbe verificare: un passaggio di piano dopo pochi anni.

Mi avvio alla conclusione. Ma prima di chiudere vorrei ancora rimarcare come anche l’amico, l’ottimo Mario Almerighi, nel presentare questo convegno, ha utilizzato la locuzione "servizio giustizia"; all’inizio parlavo del peso delle parole, parlavo della importanza delle parole che si usano; a me pare che anche questa locuzione sarebbe il caso di abbandonarla, perché penso, e lo penso da tempo, che la giustizia non è un servizio; anche se l’aggettiviamo come servizio pubblico, la giustizia non è un servizio. Secondo me, ma credo secondo tutti, la giustizia ha un unico vero ruolo ed è quello di esplicare la legalità Chi fa questo lavoro credo che non debba rispondere in termini di servizio, quasi che l’imputato o la persona offesa fosse un cliente o un utente della giustizia; le parole secondo me sono molto importanti e quindi proporrei che da oggi in poi, quando si parla di giustizia, si parli di giustizia e non di "servizio giustizia".

Non dovremmo alla fine farci prendere da quello che alcuni analisti, in particolare americani, che si interessano delle innovazioni anche di tipo tecnologico, chiamano il cyber space stupor, "stupore cibernetico". Che cosa vuol dire? Probabilmente abbiamo un po’ di timori nell’affrontare quello che in qualche modo si presenta come sconosciuto e facciamo fatica a non riconoscere ciò che di nuovo può essere ipotizzato, immaginato, per la soluzione di un problema; stiamo parlando di separazione di carriere, di funzioni, e stiamo parlando in sostanza di ordinamento giudiziario. Credo che dovremmo ribaltare il problema; credo che la struttura dell’ordinamento giudiziario debba essere calibrata sulla base delle aree di intervento che si individuano.

Voglio dire che l’organizzazione giudiziaria, come qualunque altro tipo di organizzazione, deve essere funzionale rispetto alle materie specifiche che si vogliono regolamentare. Voglio fare solo un caso particolare: quello che riguarda la minaccia eversiva e terroristica, sia nel nostro che negli altri paesi. Di fronte a questa minaccia, credo che si possa pensare a una struttura di procura nazionale antiterrorismo con compiti operativi, che serva dunque a risolvere questo problema o quanto meno ad affrontarlo. Credo che in questi termini le norme dell’ordinamento giudiziario debbano essere piegate a questa esigenza, e non viceversa: quando c’è un problema si affronta il problema, poi si crea l’organizzazione per affrontare il problema, e non viceversa. Se non ci facciamo prendere da questo stupore cibernetico, forse si potrebbe ribaltare la situazione e pensare al problema e poi alla sua soluzione piuttosto che, come mi pare si stia facendo, alla soluzione eliminando o comunque trascurando il vero problema.

ORESTE FLAMMINII MINUTO. L'AVVOCATO

Premetto che il tema del quale siamo chiamati a discutere mi ricorda alcuni precedenti storici utili per meglio comprendere il mio pensiero: il "processo", antico, a Luigi Capeto e quello, più recente, di Norimberga. Visti con gli occhi di oggi questi due processi non furono certo processi "garantiti". Il re, secondo Saint-Just e Robespierre, doveva morire per "il fatto stesso di essere re"; ed il processo sarebbe stato una inutile formalità. E tuttavia il processo vi fu, dovette esserci, ivi compreso il "pentito di turno" (il fabbro Gamin) che recò le prove della colpevolezza dell’imputato. Il processo di Norimberga ugualmente dovette esserci, ancorché vi fosse stato chi aveva teorizzato (il premier inglese Winston Churchill forte di un parere giuridico del suo ministro Lord Simon) la giustezza di una eliminazione fisica degli imputati senza alcun processo. Vigeva, infatti, come ricordato recentemente da Richard Overy nel suo libro Interrogatori, la presunzione di colpevolezza degli imputati e non quella contraria sancita oggi nella nostra costituzione.

Ciò ricordato, e passando ai nostri giorni, non posso esimermi dal segnalare che nella democratica America (Usa) si sta discutendo in questi giorni sulla necessità di introdurre nell’ordinamento di quel paese una norma che legittimi l’uso della tortura nei confronti di prigionieri, politici e cittadini non americani, sospettati di terrorismo, mentre nello stato di Israele esiste già una norma che prevede il cosiddetto "diritto di scuotimento" in base al quale chi è sospettato di avere notizie su attività di carattere criminale può essere "scosso" fino a quando non fornisca le notizie delle quali è in possesso.

Tutto questo brevissimo excursus storico mi serve adesso per dire una cosa, sulla quale voglio essere chiaro perché non vi siano equivoci sul mio pensiero. Oggi, in questo momento storico, nel nostro paese, esiste un furibondo attacco alla indipendenza della magistratura e solo chi è in malafede potrebbe negare questa evidenza storica. E in questo quadro mi sembra evidente che un tema, nobile e di studio teorico e dialettico, quale quello della separazione delle funzioni o delle carriere venga agitato come una clava da parte di chi ha interessi diversi e serva a condizionare grandemente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Ma siamo sicuri che il problema della separazione delle carriere sia soltanto un attacco alla magistratura? E siamo sicuri che, invece, non vi sia un problema reale che dipende anche dalla magistratura stessa?

Quando ho parlato del cosiddetto "diritto di scuotimento" mi è venuto in mente il 41 bis . E qui dobbiamo essere onesti fino in fondo. Esiste, a mio giudizio, il fondato sospetto che quella norma, quella misura carceraria, non serva alla difesa della società, ma sia finalizzata al pentimento di alcune persone (alcuni "personaggi") che sono sottoposte a quel particolare vincolo carcerario. E noi avvocati siamo certi che questa norma altro non è che l’esatto pendant del cosiddetto "diritto di scuotimento" E se la magistratura, non tutta ovviamente ma in alcune sue componenti importanti, ha invocato questa introduzione vuol dire che la sua "terzietà" è posta in seria discussione. Ed è ugualmente posta in seria discussione quella parte della magistratura che non ha ritenuto di intervenire e protestare nei confronti dell’introduzione del giudice monocratico (vero e proprio esempio di negazione di garanzie di serenità) che ha sostituito la collegialità del giudizio e che di fatto si "appiattisce" sempre più sulle posizioni del "collega pm", così come è censurabile l’atteggiamento di chi in nome dell’efficienza e della riduzione dei tempi processuali auspica (o comunque non ha nulla da ridire) l’eliminazione di un grado di giurisdizione.

Il problema allora che si pone, a mio giudizio (e per fortuna questa mia opinione non è isolata), non è tanto se le carriere dei pm o le loro funzioni debbano essere separate normativamente o regolamentarmente (bruttissimi neologismi) da quelle dei giudici: il vero problema è costituito dalla capacità di chi giudica di essere effettivamente terzo rispetto a chi accusa e a chi difende.

Questo è un serio problema di carattere eminentemente culturale che si potrà risolvere non solo e non tanto con provvedimenti legislativi, ma soprattutto con la riacquisizione da parte dell’intera magistratura giudicante del suo ruolo di controllo. Non è un caso isolato l’atteggiamento da sempre tenuto da chi giudica quando si è trattato di valutare le contrapposte credibilità del cittadino o del pubblico ufficiale: è sempre quest’ultimo a ottenere "ascolto" per una sorta di presunzione culturale (o burocratica) di sincerità che va a tutto scapito della presunzione (costituzionale) di non colpevolezza.

Sono, dunque, pessimista sull’esito positivo che avrebbe una eventuale separazione delle carriere che non solo non risolverebbe il problema della effettiva terzietà del giudice lasciando immutata la situazione attuale, ma (forse) potrebbe aggravarla e ciò fino a quando non si sarà compreso che l’effettiva terzietà di chi giudica è il presupposto e la garanzia di effettiva indipendenza e autonomia della magistratura. Tutta intera.

 

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

GIOVANNI VERDE. INIZIARE RISPETTANDO LA COSTITUZIONE

Da qualche tempo mi chiedo perché, nei sondaggi che spesso si fanno nel nostro paese e che hanno per oggetto la fiducia dei cittadini nella giustizia, questa fiducia sia vertiginosamente in calo. Il dato mi preoccupa, come credo debba preoccupare tutti, perché qualsiasi democrazia ha come pilastro irrinunciabile la comune fiducia nella giustizia. Se infatti si comincia ad avere sfiducia nella giustizia, questa sfiducia in poco tempo si estende alla capacità delle istituzioni di reggere adeguatamente il sistema e quindi alla stessa democrazia.

Non molti anni fa l’atteggiamento della pubblica opinione nei riguardi delle nostre istituzioni di giustizia era completamente diverso. Perché questo radicale mutamento? Individuo soprattutto due ragioni. In primo luogo, è innegabile, perché ce lo dicono le statistiche, che il nostro sistema giudiziario non è in grado di dare in tempi ragionevoli risposte alle domande di giustizia. Si tratta di un problema che riguarda principalmente l’efficienza della nostra macchina giudiziaria. In secondo luogo, è da sottolineare la componente relativa alla credibilità delle decisioni giudiziarie e al maggiore o minore consenso che le accompagnano. Questo è un dato opinabile e introduce un discorso delicato, che non poggia su dati oggettivi, quali sono quelli numerici, ma è influenzato da valutazioni soggettive, spesso condizionate dalla maniera in cui è resa e talvolta manipolata l’informazione. Se infatti per un addetto ai lavori la valutazione di un provvedimento o di una decisione giudiziaria spesso avviene sulla base dei propri pregiudizi ideologici (quando, meno nobilmente, non è influenzata da meri calcoli di interesse), il comune cittadino finisce per formarsi la sua convinzione sulla base di ciò che gli viene riferito (e tutti noi sappiamo come nella attuale società mediatica esistano forme di persuasione assai suggestive).

Il tema di cui oggi ci occupiamo riguarda poco il problema dell’efficienza e investe molto di più la credibilità della giustizia e quindi il modo secondo cui la nostra macchina giudiziaria finisce con il renderla. Per carità, non vorrei compiere l’errore culturale di ritenere che i due aspetti non siano fortemente intrecciati tra loro; però, sicuramente, qui in primo piano è in gioco la credibilità dell’attività posta in essere dagli organi giudiziari. Vorrei allora fissare questo primo punto: quando parliamo di separazione delle carriere e di risanamento della giustizia (è il titolo dell’odierno dibattito), siamo nell’area dell’opinabile, perché si tratta di un tema fortemente influenzato dalle scelte di valore di ciascuno.

Potremmo sbizzarrirci nell’indicare le soluzioni possibili. Nella sostanza, queste soluzioni, pur con molte varianti, si riducono a due: o si fa del pubblico ministero un organo di giustizia o lo si rende un mero ausiliario tecnico di cui lo stato si avvale per esercitare la funzione dell’accusa nel processo. Noi, nel momento in cui ci siamo dati la costituzione repubblicana, abbiamo scelto la prima soluzione, come ci ha poc’anzi ampiamente illustrato il presidente Scotti. Siamo stati indirizzati verso questa scelta anche dal peso della tradizione a sua volta influenzata dal modello napoleonico. Si tratta di una soluzione che costituisce quasi un unicum e che, a quanto ne so, non ha molti riscontri altrove. Il modello a noi più vicino è probabilmente quello francese, dal quale peraltro differisce per molti aspetti. Altrove, invece, si è preferito configurare il pubblico ministero – ma forse è preferibile parlare genericamente di rappresentante dell’accusa – come l’ausiliario tecnico della funzione dell’accusa. Ma, dove si è fatta questa scelta, la stessa ha poggiato su alcune premesse, che costituiscono delle costanti. Si tratta della discrezionalità dell’azione penale, del potere autonomo d’indagine degli organi di polizia, della dipendenza dall’esecutivo o del coordinamento con l’esecutivo del rappresentante dell’accusa.

A mio avviso, se vogliamo cambiare sistema e allinearci con i sistemi praticati nella maggior parte degli altri paesi, dovremmo abbandonare ogni ambiguità ed essere assolutamente chiari e dovremmo, in primo luogo, porre il quesito ai cittadini, perché si tratta di una scelta fondamentale che non può essere imposta a colpi di maggioranza. Ma nel chiedere ai cittadini se intendono passare al nuovo sistema dovremmo anche spiegare loro che il cambiamento non sarebbe soltanto organizzativo; ossia che non si tratterebbe soltanto di espungere i pubblici ministeri dal ruolo in cui sono inquadrati insieme con i giudici, ma che in questo modo si dovrebbe abbandonare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e soprattutto si dovrebbe in qualche modo coordinare il pubblico ministero con il ministro, così mutando la garanzia di indipendenza e autonomia, che oggi li assiste in maniera forte, in una garanzia necessariamente indebolita.

Confesso che, per quanto il nostro sistema costituisca un unicum e sia abbastanza singolare, a me lo stesso sembra preferibile. Esso inoltre è stato sufficientemente da noi metabolizzato, per cui non nego di essere alquanto spaventato da quello che potrebbe essere davvero un salto nel buio. Ma con eguale chiarezza devo dire che, volendo tenere ferma la soluzione ordinamentale oggi esistente ed alla quale un potenziamento della separazione delle funzioni non porterebbe un gran cambiamento, sarebbe un chiudere gli occhi se non ci rendessimo conto che sono emersi molti inconvenienti assai seri.

Prima di esaminare questi inconvenienti dobbiamo sgombrare il campo da una pregiudiziale che anche questa mattina è stata posta dall’avvocatura. Si è detto poc’anzi, anche con eleganza, che gli avvocati penalisti vogliono una separazione effettiva, reale, perché temono che i giudici, e non già i pubblici ministeri, subiscano un condizionamento culturale nel momento in cui sentono di appartenere a un unico gruppo. Questo condizionamento li allarma, in quanto alimenta il sospetto che il giudice, e non il pubblico ministero, nel momento in cui svolge la sua funzione, non sia del tutto imparziale, riconoscendosi e rispecchiandosi nella posizione di chi esercita l’accusa.

Diamo per scontato che ciò sia vero. Anche se i magistrati lo escludono, come ci ha testimoniato poco fa il presidente Scotti, a mio avviso il dubbio manifestato dagli avvocati è legittimo e merita attenzione. Ma anche se ciò che si teme dovesse tradursi in un accadimento reale, dobbiamo valutare quale sarebbe il prezzo che si verrebbe a pagare ove si realizzasse la netta separazione, anche culturale, della magistratura giudicante rispetto alla magistratura inquirente. Il prezzo che si pagherebbe sarebbe di costruire una magistratura inquirente priva di quella che noi chiamiamo la "cultura della giurisdizione"; cioè una magistratura inquirente che sarebbe soltanto ed esclusivamente costruita in funzione dell’accusa, così perdendo i connotati propri di un organo di giustizia, quali furono voluti dai costituenti. A me sembra di rilevare nei colleghi penalisti una contraddizione. Essi hanno da sempre reclamato che le garanzie del processo si estendano anche nella fase preprocessuale, perché sanno bene che gli accertamenti compiuti nei primi momenti dell’indagine sono quasi sempre quelli decisivi e danno vita a situazioni quasi sempre processualmente irreversibili e che il successivo dibattimento subisce inevitabilmente il condizionamento di ciò che è avvenuto prima del processo. Ma, se così è, essi dovrebbero essere molto preoccupati se l’attività di indagine fosse affidata alla responsabilità esclusiva dei soggetti che non hanno la cultura della giurisdizione.

Insomma, dovremmo tutti convenire sul fatto che non esiste una situazione a perfetta tenuta e che pertanto bisogna cercare di costruire un sistema che crei i minori inconvenienti. Se siamo d’accordo su questa impostazione, possiamo utilmente passare alla domanda ulteriore: è preferibile il rischio, sia pure eventuale, che una comune cultura della giurisdizione possa in qualche modo pregiudicare il magistrato giudicante o il rischio che una netta separazione delle due culture possa invece pregiudicare la formazione garantistica del pubblico ministero? Qualora, come io credo, questo rischio fosse ritenuto superiore, dovremmo optare per il mantenimento dello stato attuale.

Se, allora, depurando la questione da eccessi polemici spesso strumentali, riusciamo a superare quello che ho definito come una pregiudiziale culturale, posta soprattutto dall’avvocatura, possiamo davvero esaminare serenamente e razionalmente quali sono i correttivi che, nell’attuale situazione, possono essere suggeriti al fine di una migliore organizzazione del sistema. In questa prospettiva la stessa separazione delle funzioni quale oggi viene prospettata (e ce lo hanno detto chiaramente sia il presidente Scotti che il dottor Ionta) non può andare oltre determinati limiti, perché se si andasse oltre varrebbe la pena di scavalcare il fosso e di accettare il diverso sistema adottato altrove. Entro i limiti compatibili con l’attuale sistema, è possibile studiare alcuni accorgimenti che secondo me riguardano lo status del pubblico ministero, il regime della responsabilità per i suoi atti e i suoi rapporti con la polizia giudiziaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

Prima di indicarli, devo fare una premessa. Credo che la costituzione abbia costruito un modello di organizzazione del sistema giudiziario che poggia su equilibri complessi e delicati. Ciò comporta che ogni mutamento può alterare tali equilibri e alla lunga scompensare il sistema. I mutamenti però possono avvenire anche attraverso un’opera di lenta erosione posta in essere con leggi ordinarie e con prassi applicative che in qualche modo tradiscano il disegno originario. Faccio qualche esempio. L’articolo 106 della costituzione stabilisce il principio che le nomine dei magistrati ordinari avvengono per concorso e che eccezioni a tale principio possono essere ammesse e quindi può essere consentita una nomina anche elettiva dei magistrati per funzioni attribuite a giudici singoli. A me pare che il costituente, avendo presente un sistema ordinamentale che riservava al giudice collegiale una cospicua parte di competenze, abbia fissato per implicito una forte riserva di collegialità, tale che le funzioni attribuite a giudici singoli siano da ritenere residuali e di minore rilievo; l’evoluzione normativa attuale invece ha ridotto ad un’area residuale, specialmente nel campo del processo civile, l’area riservata alla collegialità. La conseguenza è che, in questo modo, si è resa possibile la nomina non concorsuale di un numero di magistrati che ormai supera quello dei magistrati nominati per concorso. Ancora: l’articolo 103 della costituzione ha conservato il consiglio di stato come giudice degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. Anche in questo caso, i costituenti avevano presente un ordinamento nel quale i casi di giurisdizione cosiddetta esclusiva erano pochi e tipici. Nel 1998 e poi nel 2000 il legislatore ordinario ha trasferito al giudice amministrativo interi blocchi di materie, nel cui ambito spesso non è facile riscontrare la presenza di interessi legittimi.

Siamo di fronte a fenomeni di erosione del principio costituzionale, se non di un suo tradimento. Le cose non stanno diversamente per quanto riguarda l’articolo 112 della costituzione e quindi il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. A me sembra evidente che in tanto si può parlare di attività obbligatoria in quanto si tratti di attività sollecitata da un terzo. Se invece chi è tenuto ad esercitare l’azione ha anche la possibilità di creare le premesse perché la stessa sia esercitata, l’attività finisce con l’essere inevitabilmente non più obbligatoria ma discrezionale.

Voglio dire che, se il pubblico ministero è autorizzato ad andare alla ricerca delle notizie di reato e a coltivare ipotesi di indagine, inevitabilmente è anche autorizzato a scegliere ciò che vale la pena di perseguire penalmente. In questo modo l’azione penale finisce con l’essere discrezionale, e non obbligatoria, non solo e non tanto perché per l’enorme numero di denunzie si finisce con l’accantonarne alcune e coltivarne altre anche a costo che le prime cadano sotto la mannaia della prescrizione, ma anche e soprattutto perché il pubblico ministero è abilitato dall’articolo 330 del codice di procedura penale a prendere notizia dei reati di propria iniziativa. Proprio il rispetto del dettato costituzionale sembra imporre una diversa disciplina del rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nell’attività di indagine tesa a stabilire se si è di fronte a una notizia di reato che merita essere coltivata. Lo stesso articolo 112 affida l’esercizio dell’azione penale al pubblico ministero. A me sembra che questa attribuzione riguardi l’ufficio e non la singola persona, in quanto investe una responsabilità dell’intero ufficio e non della singola persona. Una diversa lettura può portare a una gestione anarchica degli uffici, specialmente in un momento in cui, per l’effetto della soppressione delle preture, si sono create alcune megaprocure, non facilmente gestibili secondo una linea omogenea e coerente. La prassi, avallata da poche ed equivoche disposizioni di legge, tende invece a personalizzare l’esercizio dell’azione penale, laddove sarebbe necessario tener fermo il principio gerarchico, temperandolo con una nomina temporanea dei capi degli uffici di procura.

L’articolo 107, ultimo comma, della costituzione opportunamente non equipara lo status del pubblico ministero a quello del giudice, ma si limita a prevedere che la legge sull’ordinamento giudiziario stabilisce di quali garanzie debba godere. Anche qui leggi ordinarie e prassi hanno proceduto verso una integrale assimilazione. Penso invece che sarebbe opportuno porre differenze per quanto attiene la carriera e per quanto attiene la responsabilità. Sotto il primo profilo, nella progressione in carriera – o, meglio, nelle valutazioni di idoneità cui sono collegati avanzamenti stipendiali – non si può non tenere conto del rapporto tra iniziative intraprese e risultati ottenuti. Infatti un indice molto basso di accoglimento delle azioni penali iniziate non può non essere considerato sintomo di scarsa professionalità o di non sufficiente attitudine al ruolo. Sotto il secondo profilo, ho sempre pensato che uno scudo protettivo rispetto ad azioni di responsabilità temerarie o scriteriate sia indispensabile per chi giudica e che, se questo mancasse o non fosse sufficiente, ne risulterebbe compromessa la stessa funzione del giudicare; ma ho anche pensato che ciò non vale per chi non è chiamato a giudicare, ma ad agire in giudizio. Per costui il regime della responsabilità non dovrebbe essere lontano da quello di un qualsiasi funzionario o professionista.

Se si cominciasse ad operare in questo modo, movendosi nell’ottica di chi rispetta la costituzione e le dà attuazione, forse alcuni inconvenienti sarebbero eliminati e il problema della separazione delle carriere sarebbe affrontato nella giusta prospettiva. Aggiungo che oggi il tema è reso incandescente per il difficile rapporto tra il potere politico e la magistratura, soprattutto la magistratura inquirente. È questa la ragione per la quale mi sono permesso di segnalare che dopo le modificazioni apportate nel 1993 agli articoli 68 e 79 della costituzione il sistema si è squilibrato e che oggi ne stiamo pagando le conseguenze. Ho ricevuto molte critiche. Mi consola un pensiero, se volete presuntuoso: non poche volte, da avvocato, ho prospettato tesi che sul momento non hanno avuto successo e che successivamente sono state accolte. Ho la speranza che quando la tempesta sollevata dalle passioni di questo momento si sarà calmata si ritorni a riflettere su questi problemi con freddezza e razionalità. E forse mi si darà qualche ragione.

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"Isonomia" è l’organo ufficiale della prima associazione che ha unito magistrati ed avvocati, insieme con altri operatori del diritto (tra cui periti e interpreti), nel comune sforzo di confrontare opinioni ed esperienze al servizio della giustizia e di rivolgersi ai cittadini per favorirne la conoscenza del mondo giudiziario con il quale le circostanze della vita possono metterli a contatto.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

CARLO FEDERICO GROSSO. NO LEGGI DI REGIME

Come avvocato, ho avuto molte volte occasione di scontrarmi, ovviamente in termini dialettici, con gli uffici del pubblico ministero; e sapete quali sono i pubblici ministeri che più mi preoccupano e che mi hanno talvolta più preoccupato? Sono quei pubblici ministeri – ovviamente senza generalizzare – che hanno condotto tutta la loro carriera nelle funzioni di accusatori; quelli mi fanno paura perché una persona che per tutta la vita indaga e accusa rischia di perdere di vista l’insieme; rischia di omogeneizzare il suo cervello alla funzione che ha esercitato per troppo tempo; rischia di diventare – come ha detto il presidente Scotti – un persecutore. Ciò che dovrebbe essere introdotto nel nostro sistema non è la separazione delle carriere o delle funzioni, ma l’obbligo della rotazione all’interno dell’ordine giudiziario. Occorre muoversi in una direzione del tutto opposta a quella della separazione delle carriere. Per una equilibrata gestione della giustizia, sarebbe opportuno introdurre il divieto che un magistrato svolga tutta la sua carriera all’interno dell’ufficio di pubblico ministero.

Detto questo, voi potete facilmente comprendere il mio giudizio in ordine al problema della separazione delle carriere. È un giudizio pesantemente negativo, perché la separazione delle carriere verrebbe a cristallizzare in dato normativo questa realtà di uomini che svolgono per tutta la vita la funzione inquisitoria (perché oggi le indagini preliminari sono inquisizione, non sono certo espressione di funzione accusatoria), che svolgono funzioni d’accusa e quindi saranno sempre più portati a operare nell’ambito della giustizia come parte che tende comunque a colpire il più fortemente possibile l’imputato. Mi si dirà: questa visione ormai è superata dalla nostra carta costituzionale. Però la nostra carta costituzionale nell’articolo 111, secondo comma, ha introdotto il principio del giusto processo, centrato sul contraddittorio tra le parti e su una valutazione fatta da un giudice imparziale. Ma non credo affatto che un sistema imperniato su una unità ordinamentale dei magistrati – che peraltro nelle loro funzioni specifiche sono diversi per funzioni, nel momento in cui esercitano le diverse funzioni – contrasti con la regola del giusto processo.

Si era detto che la separazione delle carriere nulla ha a che vedere con il principio del risanamento della giustizia: parole assolutamente sacrosante; non è certo separando le carriere che rendiamo la giustizia più veloce. Vorrei peraltro soffermarmi ancora su alcuni concetti che, a mio avviso, sono fondamentali: qual è il rilievo che la separazione delle carriere potrebbe avere su quello che noi tutti consideriamo uno dei capisaldi della democrazia, e cioè l’indipendenza della magistratura? Fino a qualche anno fa ritenevo che teoricamente, separando le carriere o comunque separando le funzioni, in ogni caso la indipendenza del pubblico ministero avrebbe potuto essere garantita ugualmente. In realtà, i problemi vanno valutati sempre nei contesti in cui devono essere risolti e devono essere probabilmente valutati con riferimento ai contesti peggiori, del tipo di quello che stiamo vivendo in questo momento. Già, perché in questo momento abbiamo scoperto una cosa che forse pensavamo una decina di anni fa, ma che poi pian piano avevamo abbandonato. Perché? Perché qualcuno ha gettato la maschera e, forse preso da un impeto di rabbia per certe cose che sono accadute, ha usato, come si diceva prima, con la clava l’argomento della separazione delle carriere; guardate che però usare la clava da parte di persone che hanno responsabilità politiche di rilievo è un segno estremamente preoccupante di ciò che può accadere.

Quando mi si dice, per esempio: vogliamo carriere separate con pubblici ministeri a capo dei quali vengano messi dei magistrati scelti dal parlamento, dal procuratore federale o addirittura dai consigli regionali, dai procuratori regionali, a questo punto comincio a capire chiaramente dove si vuole concretamente arrivare. Si dice parlamento per dire potere politico esecutivo; si dice consiglio regionale per dire la stessa cosa. E allora ritorniamo – ma qui in termini di pericolosità concreta, legata al momento d’oggi – a quello che temevamo una volta, a quello che sta scritto nei vecchi testi, quando si diceva: separare le carriere è il primo passo per tornare a subordinare il pubblico ministero al potere politico. Oggi, di fronte a certi modi in cui vedo affrontare questo problema, il discorso ritorna di grande attualità e allora è molto grande la preoccupazione che la separazione delle carriere, nell’ottica dell’attuale maggioranza politica, non sia altro che il modo di sottoporre il pubblico ministero all’esecutivo e quindi al controllo della politica; di spaccare la magistratura e renderla quindi automaticamente più debole.

Se come temo questo è un obiettivo politico, non soltanto per ragioni culturali e tecniche (è stato ben detto che la cultura della giurisdizione deve essere diffusa fra tutti i magistrati, ma questo lo sappiamo tutti) ma anche – e oggi prima di tutto – per ragioni politiche ritengo che si debba dire no con forza, in questo momento storico, ad una separazione, perché politicamente sarebbe estremamente pericolosa e rischierebbe veramente di aggredire un bene fondamentale come l’indipendenza della magistratura.

Concludo auspicando che ciò che è parola lanciata non soltanto contro singoli magistrati o singole procure, ma ormai contro la magistratura nel suo insieme non si traduca in leggi di regime; nel momento in cui il pubblico ministero fosse assoggettato al potere politico davvero avremmo posto nel nostro paese la prima colonna di un regime, quel regime che purtroppo vedo già formarsi in modo strisciante con le leggi che sono state approvate. Mi auguro che si riesca ad arrestare questa strada. Quando sento dire che bisogna ripartire da ciò che era stato scritto in bicamerale mi preoccupo doppiamente, perché proprio nella bicamerale alcuni princìpi tendevano a spaccare e quindi a indebolire la magistratura nel suo insieme; si attaccava il consiglio superiore della magistratura e l’unitarietà dell’ordine giudiziario; si tendeva inevitabilmente a indebolire uno dei tre grandi poteri dello stato. Devo confessare che man mano che invecchio mi sento sempre più conservatore, sempre più contrario a innovazioni di questo tipo. Si facciano le riforme della giustizia, ma che siano altre riforme, quelle che veramente servono alla efficienza, non queste cose che servono soltanto a porre le premesse per potenziali pericolose avventure.

CESARE MIRABELLI. UN PO' DI DEONTOLOGIA

Vorrei richiamare l’attenzione su un documento, una risoluzione del parlamento europeo del 15 gennaio di quest’anno, sulla situazione dei diritti fondamentali nell’unione europea. Il parlamento europeo esprime preoccupazione per quanto riguarda il numero e la gravità delle violazioni constatate dalla corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento al funzionamento della giustizia nel nostro paese sotto il profilo del diritto ad un equo processo. Siamo inseriti nell’elenco dei paesi con la insufficienza, in compagnia della Finlandia e della Grecia. Ma dalla preoccupazione il parlamento europeo passa alla apprensione per il grandissimo numero di casi in cui la corte europea ha constatato la violazione da parte dell’Italia – e qui siamo isolati in questo primato – nel diritto a un termine ragionevole, cioè alla durata del processo. Il parlamento europeo ritiene che questa tendenza nuoccia alla fiducia nello stato di diritto e chiede all’Italia di adottare tutte le misure necessarie per garantire tempi più rapidi. Credo che questo debba essere uno degli impegni dominanti da parte di tutti, perché si tratta di diritti fondamentali.

Ci muoviamo su un campo che probabilmente è diverso da quello della separazione delle carriere, ma l’interrogativo che viene posto dal nostro esser qui oggi, "giustizia risanata", richiede anche di riflettere su questo. Devo segnalare – e ne do una anticipazione – che insieme ai colleghi della facoltà di economia stiamo facendo una ricerca per una analisi del rapporto tra la domanda di giustizia, limitata peraltro alla giustizia civile, e modelli organizzativi. Si è valutato come il corretto funzionamento della giustizia possa incidere sullo sviluppo del prodotto interno lordo in una misura che è prossima allo 0,5 per cento. L’ordine di grandezza è veramente enorme per quelli che possono essere gli effetti positivi di un corretto, adeguato, efficiente funzionamento della giustizia. La qualità è altra cosa, ma viene meno se non c’è anche l’efficienza nell’azione. Nella ricerca, abbiamo segnalato come sia possibile risalire la china con interventi concreti. Ad esempio, l’introduzione del giudice di pace ha avuto un qualche effetto positivo. Il 50 per cento della domanda di giustizia nel settore dei procedimenti civili ordinari è transitata alla competenza di questo giudice; però, in controtendenza, la durata dei procedimenti dinanzi a questo giudice dal 1996 al 2000 è passata da 165 a 348 giorni. Certi dati emersi dall’analisi possono essere utilizzati per capire ciò che occorre fare. È rilevante o non è rilevante sapere che le cause di lavoro sono il 13 per cento e quelle di assistenza e previdenza il 18 per cento, cioè un terzo del carico complessivo? E quando si spostano le competenze – penso al settore del pubblico impiego che dalla competenza del giudice amministrativo è passata a quella del giudice ordinario – è legittimo o no chiedersi se da questa decisione, culturalmente riferita a scelte, si ha poi una ricaduta organizzativa? E così, quando si istituisce in cassazione una competenza specifica in materia tributaria, si immagina l’effetto organizzativo che ne discende? Ho dato alcune indicazioni-coriandoli per quello che riguarda il settore civile; ma nel penale, sia pure con maggiore difficoltà, si potrebbe fare un analogo tipo di indagini e di valutazioni. Tutto questo non risolve il problema culturale di fondo della collocazione del pubblico ministero, ma ritengo che anche in quel settore forse occorrerebbe fare attenzione ad altri elementi: la formazione, e cioè la professionalità a tutto tondo; una gestione anche dei trasferimenti o delle assegnazioni di funzioni da parte del consiglio superiore della magistratura, che sia meno ancorata a elementi di garanzia formale (anzianità, valutazioni soggettive e personali degli interessi di chi esercita la funzione), ma adegui, misuri il giudizio sulla concreta idoneità ad occupare quel posto messo a concorso.

Mi chiedo se non ci debba essere un richiamo collettivo alla deontologia, termine forse desueto e che riguarda tanto gli avvocati quanto i magistrati. Mi chiedo se la magistratura o i singoli magistrati non debbano praticare un po’ di più la virtù del silenzio e non quella dell’annuncio; mi chiedo se gli avvocati non debbano praticare piuttosto vie processuali e non avere il dubbio nella loro coscienza o nella loro formale enunciazione, di fronte a un provvedimento, nello scegliere l’alternativa tra impugnarlo o denunciare il giudice che l’ha emesso. Anche su questo aspetto della deontologia professionale occorre che gli stessi ordini pongano una qualche attenzione. Per il resto, la cultura della giurisdizione dovrebbe pervadere tutti, avvocati, magistrati che esercitano le funzioni di giudicanti, magistrati del pubblico ministero. Talvolta con i piccoli e numerosi interventi si risolvono problemi grandi, non sulla base delle premesse ideologiche, ma sulla base di premesse ideali e di una analisi concreta delle situazioni.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

PIERO ALBERTO CAPOTOSTI. ASCOLTARE

Il mio ringraziamento agli organizzatori di questo convegno, che mi hanno consentito di partecipare a una tavola rotonda che vede riuniti tutti gli ex vice presidenti del consiglio superiore della magistratura. In questo modo mi si è reso possibile testimoniare, naturalmente pro parte, il grande impegno, l’assoluta dedizione che ogni consiglio superiore, a prescindere dalla composizione, ha sempre dedicato alle garanzie dell’autonomia e della indipendenza della magistratura. Questo è un problema tormentato, che affonda le sue radici nel principio di tripartizione dei poteri, ma che oggi nelle società comunicative aperte, nelle società cioè dominate dai mass media, assume connotazioni a mio avviso sempre più inquietanti e sempre più preoccupanti, tanto da porre qualche volta in dubbio lo stesso ruolo e la stessa funzione della giurisdizione nelle odierne società. Non è tanto la vexata quaestio dei rapporti tra politica e magistratura quanto soprattutto il fatto che assistiamo molto spesso alla delega – e adopero questa parola nel significato suo proprio – che il potere legislativo affida al giudice e alla sua discrezionalità interpretativa, proiettandolo all’interno dei conflitti sociali, in una situazione impropria. Ma questa è la realtà, perché talvolta il potere legislativo non riesce a risolvere con la legge questi conflitti o anche perché attraverso la previsione astratta ma per ciò stesso rigida della legge non si riesce a risolverli. Questo comporta naturalmente problemi di sovraesposizione del giudice e della giustizia. Ho sempre ritenuto che quando le prime pagine dei giornali contengono riferimenti a problemi giudiziari sia un fatto patologico.

Ciò detto, il titolo di questo convegno sta a porre l’interrogativo se un diverso modo di organizzazione della magistratura potrebbe ovviare al problema della crisi della giustizia oggi. La risoluzione di questo interrogativo, che è di grande momento, determina inevitabilmente la necessità di confrontarci con l’assetto che la costituzione ha prefigurato e con i valori che la costituzione ha indicato in tema di giustizia e di organizzazione della magistratura. Se così è, appare possibile, forse addirittura probabile, che questo problema, che è incorporato in un progetto di legge, possa pervenire prima o poi alla cognizione della corte costituzionale; e, siccome in questo momento ricopro l’incarico di giudice della corte, mi sembra doveroso, come del resto fa ogni buon giudice, autolimitarmi e astenermi dall’esprimere ogni opinione al riguardo. Questa è la ragione per la quale ho chiesto cortesemente al presidente di poter parlare per primo e per la quale chiedo cortesemente al presidente e ai colleghi di autorizzarmi – quasi per evidenziare anche fisicamente la mia doverosa posizione di terzietà – a lasciare questa tavola rotonda e a tornare tra il pubblico ad ascoltare – questo sì che è un dovere del giudice – questo interessantissimo dibattito.

GIUSEPPE AYALA. UNA CORPORAZIONE

Il tema dell’assetto istituzionale e costituzionale del pubblico ministero ha più o meno la mia età, quindi oltre cinquant’anni. Allora, scendendo dai massimi sistemi e andando al contesto della vita politica e istituzionale di questo momento, forse riusciamo a cogliere alcuni spunti che ci aiutano a riflettere sul problema. Il contesto, lo stato della giustizia penale italiana in questo momento: un disastro. La diagnostica c’è tutta, la terapia è difficile da individuare; quello che è sicuro è che siamo di fronte a un malato non dico terminale, per carità, non voglio usare toni apocalittici, ma certamente grave, che è il processo penale italiano. Cause della malattia: una serie di interventi normativi, succedutisi negli ultimi anni, assolutamente scoordinati tra loro, figli di un padre che non c’era, cioè un disegno riformatore organico. che si sono accavallati provocando una trasformazione dell’impianto originario del processo penale attraverso una sorta di corsa ad ostacoli, caratterizzata da una ipertrofia garantista, a fronte di altre garanzie invece sostanziali e non formali. Tutto questo ha creato di fatto il terreno di coltura di ogni tentazione ostruzionistica da parte dei difensori, con il risultato di appesantire ulteriormente il corso del processo. Tutti gli interventi riformatori che si sono succeduti dovevano avere il fine di contenere la lentezza: paradossalmente, l’hanno aggravata. Questo è il contesto nel quale ci muoviamo. Questa è la mia diagnosi.

Per quanto riguarda le terapie, ho letto recentemente con grande attenzione la relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del procuratore generale Favara; lì sono indicati alcuni possibili interventi destinati a recuperare, se non proprio una efficienza con la "e" maiuscola, certamente una minor lentezza del nostro processo.

Circa l’analisi del contesto, un breve riferimento alle leggi approvate di recente. Io vivo in parlamento e vi assicuro che, essendo quello il mio lavoro, sono quasi sempre presente. Si tratta di riforme annunciate nei talk show e sui giornali. Se però dallo scenario mass-mediatico ci trasferiamo in uno scenario istituzionale, c’è ben poco; credo che l’unico disegno di legge di riforma di questo governo sia quello che riguarda l’ordinamento giudiziario. Per il resto, i risultati normativi del grande disegno riformatore annunciato da questo governo sono le leggi note come falso in bilancio, rogatorie e Cirami. Prendo spunto dalla Cirami. Come sapete, si trattava di una legge fatta ad hoc per spostare il noto processo da Milano. Le sezioni unite della corte di cassazione, che hanno ritenuto che il processo potesse restare a Milano, sono state definite un covo di eversori politicizzati, nelle cui mani non può essere lasciata ulteriormente la tenuta democratica di questo paese. Subito dopo si è alzata e brandita la clava della separazione delle carriere: io faccio una legge perché voglio questo risultato; tu in base, a quella legge, mi dici no; e sai che faccio io? Ti separo le carriere. Questo è il contesto.

Vi renderete conto che, in questo contesto, confrontarsi e discutere è molto difficile. Del resto, proprio in occasione del dibattito sulla Cirami, e visto che noi conoscevamo già le circostanze dedotte dai difensori degli imputati per ottenere il trasferimento del processo, ho detto in parlamento che secondo me la corte di cassazione non avrebbe mai potuto accogliere quel ricorso, come poi i fatti hanno confermato. Mi venne quindi da dire che il presidente Berluscon ha ragione ad avere timori di tipo giudiziario con riferimento a Milano, ma sbaglia la fonte dei suoi timori. Lui ritiene di individuarla nei giudici e invece il suo problema sono i suoi avvocati: li ha portati in parlamento e gli fanno la legge sulle rogatorie, che dimentica l’articolo 696 del codice di procedura penale, per cui è di fatto inapplicabile. La stessa cosa si è verificata con la Cirami.

Poiché tutto si lega, questi possono anche commettere una sciocchezza in tema di separazione delle carriere; però dico: è mai possibile che brandendo una clava per indebolire l’ordine giudiziario nel suo complesso, e il pubblico ministero in particolare, si scelga quella che invece è la soluzione più pericolosa? Perché se tu, come mi dici, non vuoi toccare l’autonomia e l’indipendenza, e meno che mai la obbligatorietà dell’azione penale, perché mi crei una corporazione composta da poco più di mille persone, di fatto dotata di un potere eccezionale, che è l’esercizio dell’azione penale, ma che non risponde a nessuno se non a se stessa? Questa riforma, se si farà, durerà quindici giorni, dopo di che si dirà: impossibile, bisogna mettere il pubblico ministero alle dipendenze dell’esecutivo.

Credo che il contesto attuale debba indurci tutti ad adoperarci, ciascuno per le responsabilità istituzionali che ha, per evitare che questo accada, perché è facile capire ciò che accadrà dopo. Mai come in questo momento invece è importante conservare l’attuale assetto istituzionale del pubblico ministero. Ho sempre pensato che prima di esercitare le funzioni del pubblico ministero il magistrato debba esercitare obbligatoriamente, per un certo periodo, le funzioni giudicanti. Non dimentichiamo che il pubblico ministero, per come è previsto dal nostro ordinamento, ha l’obbligo di cercare gli elementi di prova anche a favore dell’imputato e che quindi è una parte sui generis. E allora ne consegue che tanta più cultura della giurisdizione ha, tanto più è idoneo a esercitare quelle funzioni. Nell’altro modo è chiaro che si alza un telefono: questa azione penale non s’ha da esercitare. Possiamo capire, per esempio, nei confronti di chi quell’azione andrebbe impedita.

GIOVANNI GALLONI. PIU' FONDI PER LA GIUSTIZIA

Nel suo intervento il giudice costituzionale Capotosti ha qualificato il significato di questo nostro incontro. Non possiamo infatti non renderci conto che una riforma della giustizia che andasse in direzione di una separazione delle carriere fra magistrati sarebbe in evidente contrasto con il nostro sistema costituzionale. Le ragioni storiche ce le ha spiegate il presidente Scotti. Non sto qui a ripeterle. L’unico dubbio che ci potrebbe venire è se tale riforma sia attuabile secondo l’articolo 138 della costituzione o se, come io ritengo, si tratterebbe di una riforma che scardina uno dei princìpi fondamentali del nostro sistema costituzionale e quindi non potrebbe essere approvata neppure con le procedure indicate dall’articolo 138 della costituzione. In ogni caso, ciò su cui non ho dubbi è che la separazione delle carriere non risolve in alcun modo il problema della crisi della giustizia di cui oggi si parla.

Nella esperienza avuta al Csm, e soprattutto nella commissione riforma di quel consiglio negli anni 1990-1994, individuammo le riforme da fare attraverso una nuova legge sull’ordinamento giudiziario, quella indicata dall’articolo VII delle norme di attuazione della costituzione, ritenuta necessaria per adeguare la vecchia legge del 1941 sull’ordinamento giudiziario ai princìpi della costituzione e alla mutata realtà del paese. Da questa inattuazione legislativa, durata da più di un cinquantennio, è nata la crisi della giustizia, crisi che non può essere superata, ma sarebbe aggravata da una separazione delle carriere. Data la ristrettezza del tempo mi soffermerò solo sull’aspetto culturale.

La separazione delle carriere comporta infatti una separazione di formazione culturale non solo fra magistrati, ma anche fra magistrati ed esercenti le professioni legali (avvocati e notai). È questo un discorso da fare dunque anche agli avvocati; il vero problema per gli avvocati è quello di promuovere e di avere una cultura unitaria con i magistrati e con i notai. Se non c’è cultura unitaria, un vero dialogo non è possibile tra chi discute attorno ad una determinata fattispecie. Come deve esserci la stessa cultura tra un avvocato che nel processo penale eserciti la funzione di difesa e la parte civile o, nel processo civile, fra attore e convenuto, bisogna dire che devono avere la stessa base culturale anche i giudici e i pubblici ministeri.

Di questa esigenza mi sono accorto in modo particolare quando, dopo l’esperienza nel Csm, tornato alla mia attività di professore ordinario, ho constatato alcune analogie tra la pubblica istruzione e la giustizia. Un insegnante nella sua aula quando svolge la lezione è in sé libero come il giudice quando fa la sentenza o come il procuratore della repubblica quando chiede il rinvio a giudizio o nel processo svolge la sua attività di accusa. In ogni caso sia il professore sia il magistrato sono liberi in quanto esercitano l’autonomia consentita loro dalla costituzione, ma devono rispettare i princìpi e le regole imposte dalla legge (legum servi sumus, come diceva Cicerone, per poter essere liberi). Qui sono d’accordo soprattutto con quello che ha detto il professor Verde. Bisognerebbe discutere, in sede di revisione della legge sull’ordinamento giudiziario, se si tratta di una autonomia – quella che si invoca – del singolo sostituto procuratore o se invece l’autonomia deve essere dell’ufficio della procura nel suo complesso. Secondo me risponde meglio quest’ultimo concetto di autonomia che consente di evitare gli errori che nel passato sono stati compiuti e a cui si riferiva il presidente Scotti. Infatti, mentre per il giudice l’autonomia deve essere assicurata nel momento in cui deve giudicare ed è personale, l’autonomia che deve essere riconosciuta per la pubblica accusa è quella dell’ufficio. Ricordo a questo proposito una sentenza della corte costituzionale la quale disse a suo tempo che la vera autonomia del potere giudiziario non risiede nell’ordinamento giudiziario, ma sta proprio nel singolo giudice. Dicono sciocchezze quei politici che non conoscendo i problemi considerano l’ordine giudiziario come una corporazione. Allora – e concludo – autonomia sul piano culturale vuol dire che probabilmente dovremmo affrontare questi problemi non solo a livello della organizzazione della giustizia, ma anche a livello della formazione di tutte le professioni legali.

Nella facoltà di giurisprudenza in cui sono stato chiamato dopo il Csm questo problema è stato affrontato quando abbiamo detto che forse bisognerebbe cambiare l’ordinamento della facoltà in maniera diversa da come è stato progettato recentemente dal ministero. Non mi convince l’idea di una facoltà di giurisprudenza di tre anni cui seguano due anni di specializzazione. Sarebbe utile una laurea di tre anni per coloro che non hanno intenzione di dedicarsi a professioni forensi perché per fare un concorso in una amministrazione dello stato o essere, come oggi si dice, avvocati di impresa probabilmente bastano tre anni di giurisprudenza più una preparazione specialistica per il ministero per il quale si prepara il concorso. Ma per una professione forense occorrono non meno di quattro anni in cui sono insegnati i princìpi ed è stato approfondito il metodo nei corsi monografici; dopo di che sono necessari altri due anni di specializzazione pratica con un metodo casistico. Hanno ragione gli avvocati quando, riferendosi alla preparazione nelle nostre facoltà di giurisprudenza, rilevano che esse danno una impostazione troppo generale di princìpi e metodi ma non danno una preparazione specifica per l’attività professionale. Ci vogliono almeno altri due anni di preparazione per una attività professionale con una scuola da seguire prima del concorso come uditore, come avvocato o come notaio. Ma allora, una volta vinto il concorso da uditore, ci vuole una ulteriore formazione. L’articolo 107, terzo comma, della nostra costituzione dice che i magistrati si distinguono fra loro per diversità di funzioni. Questo ci suggerisce in realtà che, nella nuova legge sull’ordinamento giudiziario, la distinzione delle funzioni va preparata dal Csm in maniera adeguata dopo la vincita del concorso secondo diverse specializzazioni. E queste specializzazioni non sono solamente quelle del pubblico ministero e del giudice, ma anche, per esempio, quella del giudice di famiglia, del giudice di sorveglianza eccetera. Questa formazione specializzata deve essere continua e da essa devono trarsi elementi per giudicare l’avanzamento delle carriere dei magistrati, che non può essere più realizzata solo per anzianità senza demerito; d’altra parte non può nemmeno realizzarsi con un ritorno all’antico attraverso un esame di sentenze valutate secondo un criterio tradizionale.

In conclusione, non può farsi una riforma della giustizia senza un miglioramento che sia non solo qualitativo (formazione, scelte adeguate e temporaneità delle funzioni direttive) ma anche quantitativo (adeguamento dei tribunali alle realtà territoriali e al numero degli abitanti che la giustizia deve servire, adeguato accrescimento dei funzionari ausiliari eccetera). E pertanto il bilancio della giustizia deve essere adeguato a quello esistente nella media dei paesi europei, attestata sul 2 per cento del bilancio statale.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

ANNA FINOCCHIARO. UN'ALTRA GIUSTIZIA

Il ringraziamento che faccio agli organizzatori di questa giornata di lavoro e di riflessione non è formale per la ragione che sempre più raramente, ormai in maniera quasi essenzialmente episodica, è possibile trovare una sede di ragionamento su una questione così importante, seria e complessa come la separazione delle carriere, sede nella quale lo svolgersi degli argomenti – anche contrastanti – non degeneri in una rissa e in una sorta di necessità di approssimazione e semplificazione dei termini del confronto tali da lasciare certamente insoddisfatto, se non confuso, chi sta ad ascoltare. Allora avere poco tempo, ma una atmosfera di mutua affidabilità circa l’uso di argomenti fondati sulla ragionevolezza – anche se ovviamente parziale per chi l’adopera – è già un ottimo rasserenante inizio. Stamattina Luigi Scotti ricordava un passaggio di un intervento di Piero Calamandrei alla costituente, passaggio in replica ad una osservazione dell’onorevole Leone, che riguardava la necessità, prima di ragionare di separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, di interrogarsi su quale modello di stato si stava intendendo fondare, se una democrazia liberal-democratica ovvero uno stato centralista, cioè uno stato più fortemente connotato da poteri centralizzati e da un modello autoritario. Mi chiedo perché in questo paese non sia possibile, ragionando del medesimo tema, replicare la stessa domanda, e magari replicarla di fronte alla grande questione che, a mio avviso, questa sottende, e cioè quella dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura nel suo complesso. Mi chiedo come non si faccia riferimento alla necessità di considerare che questo paese sta attraversando una fase di riforma istituzionale, in parte già scritta con la legge elettorale, che è quella che accompagna il passaggio da un sistema proporzionale a un sistema maggioritario bipolare. È ovvio che un sistema maggioritario bipolare radica in capo all’esecutivo un potere assai più incidente di quanto non potesse accadere e non accadesse nel momento in cui il governo era il frutto, talvolta occasionale, di un raggruppamento di forze che non necessariamente facevano riferimento ad una coalizione cementata dallo stesso programma. Ed è ovvio che questo ponga la questione della ricerca di un inedito equilibrio tra i poteri dello stato.

L’attenzione che i costituenti ebbero per quel sistema di checks and balances che ha governato la separazione dei poteri nel nostro assetto costituzionale pare oggi un argomento assolutamente trascurabile, di nessun pregio, nel ragionare di un tema così delicato come la separazione delle carriere. Vi dico come la penso: ritengo che con l’avvento del sistema maggioritario bipolare la necessità democratica di una magistratura indipendente ed autonoma, dell’obbligatorietà dell’azione penale, dell’unicità delle carriere di pubblico ministero e giudice si confermi, non arretri. Si conferma perché è ovvio che un sistema maggioritario bipolare introduce una alterazione nel regime delle garanzie: le garanzie delle opposizioni, certamente, ma non soltanto. Il rapporto tra stato e cittadino, e più ancora tra stato e libertà del cittadino, tra monopolio della forza esercitato dallo stato e garanzie del cittadino, assume una tale rilevanza democratica che la difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, l’unicità delle carriere tra pubblico ministero e giudice poggiano su una rinnovata necessità democratica, peraltro inedita nelle sue ragioni rispetto alla previsione costituzionale. Difendere oggi questo complesso di princìpi non significa difendere nostalgicamente l’assetto che nel quarantotto i costituenti disegnarono; significa oggi interrogarsi su questo modello di paese e di stato e chiedersi quali debbano essere le proposte perché il sistema sia equilibrato. È questa la prima ragione di sistema per la quale ho sempre manifestato la mia forte contrarietà alla separazione delle carriere.

Il tema rimanderebbe poi ad altri contesti di valutazione, altrettanto interessanti, altrettanto ricchi di interrogativi: quale sistema penale per questo paese, quale ruolo e quale ambito della giurisdizione penale? La questione è qui davanti a noi ed è ineludibile il confronto sulle posizioni di chi invece sostiene fortemente la separazione delle carriere (ed ovviamente c’è chi la sostiene per ragioni del tutto legittime e apprezzabili). Ma la mia preoccupazione è dovuta alla esibizione di forza di quanti sostengono la separazione delle carriere per arrivare dritto filato ad una sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo: le loro ragioni non mi convincono in nessun modo. Quali soluzioni? L’ordinamento giudiziario è in discussione alla commissione giustizia del senato con un testo, quello del governo, che probabilmente non rappresenta nemmeno la posizione ufficiale del governo e della maggioranza. Dichiarazioni contrastanti di autorevolissimi esponenti del governo e della maggioranza ci confondono. Si discute di un emendamento del governo, non ancora depositato, che prevede il concorso separato per pubblici ministeri e giudici. La mia opinione, anche in questo caso, è contraria, così come lo era alla soluzione adottata alla bicamerale dopo l’accoglimento di un emendamento proposto dal centro-destra. Sono contraria per una ragione quasi elementare ed è la stessa ragione che qui stamattina ho sentito echeggiare più volte: se oggi proponessimo ai giovani laureati italiani in giurisprudenza due concorsi separati, uno per pubblico ministero e l’altro per giudice, ciò che accadrebbe di fatto è che la carriera dei pubblici ministeri verrebbe interpretata come una carriera destinata a reclutare – lasciatemi passare un’espressione forte – teste di cuoio della giustizia, i persecutori di cui parlava oggi Gigi Scotti. Il paese non ha bisogno di questo e mi chiedo come non se ne rendano conto coloro i quali prevedono i concorsi separati per arginare lo strapotere della giurisdizione. Creerebbero una falange armata insensibile a ogni richiamo alla cultura della giurisdizione, alla stessa cultura della valutazione della prova, quella che si acquisisce esercitando nei primi anni della carriera le funzioni giudicanti collegiali.

Vorrei un’altra giustizia, non una giustizia feroce; non voglio i persecutori al posto dei pubblici ministeri. Sono della stessa opinione di Luigi Scotti e se la mia opinione avesse un "mercato" nel dibattito parlamentare odierno vorrei un pubblico ministero che arrivi a fare il pubblico ministero dopo cinque anni di collegio giudicante, in modo che la cultura della giurisdizione e quella della valutazione della prova diventino la cifra dell’agire giurisdizionale fondato sul principio della uguaglianza dei cittadini e dell’uguale trattamento nell’applicazione della legge. Sono queste le ragioni per le quali non mi convinceva la soluzione della bicamerale. Ma anche su questo, è possibile che non si riesca mai a spendere una parola serena e oggettiva? La bicamerale aveva fatto un passo molto significativo sul punto della giurisdizione unica, con attributi di indipendenza e di autonomia estesi a tutte le magistrature, organi di autogoverno veri per tutte le magistrature. Credo che fosse il passaggio di maggiore modernità dei lavori della bicamerale. Questo non significa che io condivida tutte le soluzioni della bicamerale; e non condivido quella che riguarda i concorsi separati. Noi abbiamo avanzato una proposta organica rispetto a tutta l’impostazione della riforma dell’ordinamento giudiziario; la relazione scritta dal senatore Fassone, anche dal punto di vista storico e scientifico, è una ricostruzione molto interessante dell’ordinamento giudiziario. La soluzione che adottiamo è quella di un concorso unico, con una scelta successiva del candidato per le funzioni di pubblico ministero o per quelle di giudice, una successiva valutazione attitudinale e un tirocinio di formazione specifico gestito da una scuola superiore che dipenda dal consiglio superiore della magistratura, non certamente dalla corte di cassazione; alla fine di questo periodo sarebbe conferito l’esercizio delle funzioni. Nel caso in cui si volesse cambiare funzione occorrerebbe frequentare un altro corso di formazione e sottoporsi ad un’altra valutazione. Peraltro la valutazione continua della professionalità dei magistrati sulla base di criteri come la laboriosità, l’impegno, l’attitudine alle funzioni direttive, e via dicendo, è una costante della nostra proposta. Il cambiamento di funzioni comporta lo spostamento ad un altro circondario e non è necessario cambiare regione. Questo perché abbiamo un problema: la magistratura italiana è poco mobile, mentre è esattamente la mobilità tra le funzioni diverse che assicura quello spessore della cultura della giurisdizione che può essere così utile all’esercizio della funzione di magistrato.

Riusciremo a difendere questa posizione? Non lo so. So però che abbiamo bisogno di parlarci senza fraintendimenti e senza pregiudizi e abbiamo soprattutto il dovere di far comprendere, anche nelle discussioni che non si svolgono tra un pubblico colto di addetti ai lavori, che ciò che è in gioco non è soltanto il futuro della magistratura italiana, ma è un modello democratico; e la qualità del modello non soltanto ha una strettissima attinenza con la vita e con i diritti del cittadino che si rivolge alla giustizia, o che è imputato o parte offesa, ma è uno di quei tratti distintivi della democrazia di un paese che alla fine dà senso allo svolgersi normale della vita di relazione in un paese.

Non so se riusciremo a recuperare un clima possibile in parlamento su questo; non credo neanche ad appelli, per quanto autorevoli, all’unità, alla riflessione comune, perché, purtroppo, essi ogni giorno si scontrano con atti o affermazioni di segno assolutamente opposto.

Credo però che abbiamo la necessità di fare almeno questo lavoro: quello di far comprendere che ciò di cui stiamo ragionando non è la sorte dei pubblici ministeri, ma è la qualità della vita democratica in questo paese, la qualità del rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, quello che i costituenti ebbero tanto a cuore e che oggi invece mi pare che molti abbiano in tanto dispregio, pur ricoprendo cariche istituzionali di altissima responsabilità.

NANDO DALLA CHIESA. TRE OBIETTIVI

La tessitura del nuovo ordinamento giudiziario comporta rischi che vanno oltre quello di un pubblico ministero dipendente dall’esecutivo. È anche vero però che, nella discussione che stiamo facendo al senato sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, alcuni passi indietro il governo li ha fatti, sia per quello che riguarda la titolarità della funzione formativa – la scuola è presso il Csm o presso la corte di cassazione – sia per quello che riguarda la composizione della commissione che dovrà valutare le nuove domande di accesso alla cassazione. Quindi qualche passo indietro c’è stato, perché fortunatamente il disegno a un certo punto ha preso una sua plasticità ed è diventato il vero tema di discussione. Ha ragione Resta quando dice che è come l’argomento che viene proposto alla fine di un dibattito; in realtà questo viene proposto all’inizio, ma perché è l’ultimo: ha una funzione simbolica. Se ci facciamo caso, dopo ogni sentenza che politicamente sia sgradita, c’è la parola d’ordine "separazione delle carriere": slogan fine a se stesso che non si capisce che cosa voglia dire, che implicazioni reali abbia con la pretesa ingiustizia di una sentenza. Quindi non c’entra la separazione delle carriere con il tema che ogni volta viene indicato con una certa dose di indignazione all’opinione pubblica: questa sentenza è ingiusta, bisogna intervenire, dunque ci vuole la separazione delle carriere; non c’è alcun nesso logico tra la soluzione che viene auspicata e le ragioni effettive che hanno portato a questa o a quell’altra sentenza. Viviamo questa fase; forse è bene che manteniamo alto il piano della discussione, ma non dimentichiamo che la riforma in realtà, sotto qualsiasi forma si possa ottenere, è il condizionamento della magistratura.

La controriforma in atto si esprime anche nei manifestini e nei volantini sotto forma di wanted. Recentemente un magistrato di Varese è stato indicato come una specie di ricercato: anche questo è riforma, è riforma del senso comune, della cultura giuridica materiale. Nel momento in cui il ministro della giustizia – che appartiene allo stesso partito che stampa questi volantini – non sente il dovere di prendere le distanze da questo genere di attacchi e di sottolineare che al magistrato deve essere assicurata la maggiore serenità possibile nello svolgimento delle proprie funzioni, partecipa alla costruzione di una nuova cultura. Questa è la riforma in atto. Secondo me è sbagliato e poco realistico spostare continuamente il termine del confronto che dovrebbe incentrarsi su questo discorso di fondo.

Sulla separazione delle carriere qualcosa vorrei dire, perché che debba esserci unicità della carriera non è auspicio che nasca soltanto dalla volontà di tutelare l’indipendenza del pubblico ministero; l’unitarietà della cultura della giurisdizione è anche un fatto di garanzie nei confronti dell’imputato ed è singolare che coloro che hanno avviato la campagna per la separazione delle carriere – in nome dei torti veri o presunti subiti da imputati in questo o in quell’altro processo perché perseguitati, o perseguiti con accanimento, o consegnati all’opinione pubblica, fino al suicidio anche se innocenti – vadano ora nella direzione opposta. Essi non dovrebbero volere mai che il pubblico ministero diventi una parte ostile che si accanisce secondo il modello dei film di Perry Mason nei confronti dell’imputato. Non vorrei mai avere davanti un pubblico ministero che mi sia ostile per definizione, che cerchi di incastrarmi per definizione e che mi faccia perdere energie e immagine per anni, fino a sentirmi dire alla fine che sono innocente. Non lo voglio un pubblico ministero così, a prescindere dalla questione della dipendenza dal potere politico. Un pubblico ministero così è contro le garanzie dell’imputato, mentre una unitarietà della cultura della giurisdizione è un buon presidio del sistema delle garanzie.

Sul piano propositivo, credo che siano tre le cose che vanno tenute insieme: cultura della giurisdizione, sistema delle incompatibilità e specializzazione. È così impossibile immaginare che questi tre obiettivi vengano contemperati, equilibrati e garantiti insieme? Per quanto riguarda le incompatibilità, non condivido la tesi di chi sostiene che pubblici ministeri e giudici devono essere divisi perché altrimenti si contaminano, parlano tra loro, creano un ambiente unico. Abbiamo delle foto di gruppo in un interno che sono straordinariamente rappresentative dell’intimità che raggiungono tra loro pubblici ministeri, giudici, avvocati e leader politici. Allora mi sembra che le linee di demarcazione si pongano in relazione non alla funzione che viene esercitata, ma alla correttezza con la quale ciascuna funzione viene esercitata. Credo però che i magistrati sbaglino quando pensano che un sistema di incompatibilità non debba esserci. Credo che sia giusto, ad esempio, come avviene negli ambiti in cui si esercitano poteri delicati (penso alla polizia di Stato, penso ai carabinieri), che sia vietato che due persone della stessa famiglia ricoprano una funzione di vertice o di dirigente nella medesima città. Lo stesso problema si pone per il magistrato che entra in politica, rappresenta un partito politico e poi torna nella città di origine pretendendo di essere creduto al di sopra delle parti: questo è impensabile. Anche lui dovrebbe cambiare regione. Un sistema di incompatibilità, insomma, va pensato.

Infine la specializzazione. Credo che la formazione del magistrato debba essere più lunga di quanto non avvenga oggi. Al tempo stesso, credo che dentro i canali di formazione si debba pensare alla specializzazione; e qui c’è un grande problema pedagogico formativo. La specializzazione si costruisce soltanto sul lavoro, come teorizzano alcuni, on the job, o si costruisce anche dentro i processi formativi, al di fuori e prima del lavoro? Come ci si socializza al futuro ruolo professionale?

Mi pare allora che debbano prevedersi all’interno di una medesima scuola di formazione dei percorsi differenziati, perché la cultura investigativa non è una cosa che si inventa, a cui si può arrivare dopo aver fatto cinque anni di giudicante; richiede una strumentazione sempre più complessa, anche in termini di conoscenze tecnologiche, se non vogliamo che il magistrato che incomincia a svolgere una attività investigativa poi sia di fatto, in termini di ideazione e di organizzazione, subordinato all’autorità di polizia.

CARRIERE SEPARATE: GIUSTIZIA RISANATA?

Convegno tenutosi in Roma il 7 febbraio 2003

ANTONIO DE VITA. STRANE COINCIDENZE

Volevo dire tante cose. Poi sono passato davanti alla chiesa di san Camillo De Lellis, il protettore degli ammalati, e ho rivisto la storia del Cristo, che si è rivolto a san Camillo dicendogli: "Procedi sulla tua strada, perché è la mia strada, e sono io che attraverso te opero", e ho ricordato a me stesso che in fondo Cristo in croce è l’errore giudiziario assurto a fede, per chi non ci crede, ma sicuramente è un errore giudiziario; e quindi mi sono anche ricordato che Pilato in fondo è stato molto vituperato, ma Pilato è stato il primo che ha inventato in fondo il conflitto di competenza, perché ha rimandato a Erode e ha rimandato al sacerdote Cristo dicendo: "Non eravate competenti a decidere"; in fondo la Cirami già c’era, perché il legittimo sospetto mi sembra che sia stato quello che ha permesso proprio quei giudizi contro la mafia, perché venne creato proprio per poter spostare i processi di mafia dai luoghi dove si facevano nei luoghi dove poi vennero fatti; quelli di Napoli vennero celebrati a Viterbo, quelli di Palermo vennero celebrati a Milano; cioè era una questione di tipo diverso, ma poi ognuno porta una visione politica.

C’è chi vuole la separazione delle carriere e chi è contrario. Giustamente qui ci si è domandati perché si è favorevoli alla separazione delle carriere. Io domando: perché si è favorevoli al mantenimento della interscambiabilità fra le carriere?

È un rigirare la questione. Si è detto: molte volte i giudici non si lasciano influenzare dal pubblico ministero; per carità, però sono successe cose strane. Per esempio il tribunale del riesame ha rimesso in libertà una persona, la sentenza è stata depositata, ancorché emessa in camera di consiglio, dopo venti giorni; viene notificata al soggetto alle ore diciassette o alle ore diciotto; alle ore diciannove e dieci minuti gli viene notificato l’ordine di cattura. Si può pensare che il pubblico ministero e il gip abbiano operato in perfetta sintonia, che i provvedimenti siano stati depositati in modo da annullarsi fra loro; ma, siccome è successo molte volte, quando succede troppe volte statisticamente siamo fuori dalla possibilità che sia un caso. Diciamo che chi ha rispetto per la giurisdizione rispetta anche la funzione pubblica del suo collega e quindi pensa che, essendo la sua azione a fin di bene, vada supportata o difesa.

Viene garantito questo dalla separazione delle carriere? Sinceramente non lo so. Però è successo in un processo molto grave e difficile, conclusosi con un ergastolo, che il presidente della corte d’assise d’appello è diventato procuratore generale della corte d’appello e il procuratore capo che aveva gestito il processo è diventato presidente della corte d’appello; quando ci siamo trovati di fronte alla possibilità di un processo positivo, che aveva cambiato completamente lo scenario, è intervenuta proprio la corte d’appello con un appello della procura – per carità, ha impugnato l’avvocato generale, non il procuratore che era stato il presidente che aveva fatto la sentenza – e conseguentemente poi si sono sviluppati altri scenari. Questa forse è la preoccupazione che ha attivato coloro che sono all’interno del sistema giudiziario.

Si parlava di depurazione del linguaggio. Forse la cosa peggiore che c’è stata nello sviluppo delle situazioni è che ci si è allontanati dal vocabolario, dalla semantica corrente dei termini, per assegnare valenze diverse e suggestive provenienti da culture diverse; forse bisognerebbe ritornare a parlare l’italiano come italiano, con le etimologie e il lessico che viene dal latino, dal greco e, caso mai, dal sanscrito.

Ricordavo a me stesso che diritto, contrariamente a quello che si pensa, ius, dovrebbe derivare dal sanscrito iaus, che vuole dire "armonia": quindi il diritto dovrebbe riportare armonia. E vedo molto favorevolmente il giudice come un direttore d’orchestra che riporta l’armonia nelle diverse componenti affettive e nelle diverse componenti di interessi. Se andiamo nell’antico, dobbiamo ricordare che erano giudici anche quelli che hanno condannato Socrate. Questo non è che ci garantisca dall’errore giudiziario. Se guardiamo Aristofane, dei giudici dice quanto di peggio si possa immaginare, anche se con garbo. Non ripeto quello che dice perché è veramente vituperevole; ma lo dice con eleganza.

Il giudice è come l’arbitro di calcio. Che cosa chiede una squadra all’arbitro di calcio? Che arbitri una partita, non che partecipi per una squadra o per l’altra. Quindi tutto ciò che porta a questo è benvenuto. Però ho sentito dei sospetti, dei dubbi; si fanno questioni politiche; ci si lamenta in funzione di una sentenza; si dice che si agitano determinati spettri.

Ma quello che molte volte crea preoccupazione non è la sentenza per quello che dice, ma per come ci si è arrivati; è lo scenario che sta dietro. Si dice: il giudice può parlare o non può parlare? È un cittadino di serie B, come l’ufficiale e come il soldato che prima non potevano neanche iscriversi a un partito politico, o ha diritto di parlare?

Questo è il problema. Perché si arriva a certi punti, nella mia modesta opinione? Perché se ho un soldato o un poliziotto che ha la tessera di un partito e mi viene a fare una perquisizione, e io sono del partito opposto, posso avere il sospetto che sia la longa manus di una violenza istituzionale che mi viene fatta; e questa è la preoccupazione.

Si parlava dei giudici precedenti, si è fatta la storia dei pubblici ministeri ab antiquo; si è anche ricordato che in Francia il pubblico ministero dipendeva dall’esecutivo e quindi era in una situazione tremenda: Dreyfuss ne fa fede. Però pochi sanno, per esempio, che il presidente del tribunale militare fino a poco fa dipendeva disciplinarmente dal procuratore della repubblica. È terrificante solo a pensarci che possa esservi una subordinazione disciplinare del giudicante addirittura al procuratore della repubblica. È successo anche che qualcuno, condannato per atti impropri nell’ufficio, sia ritornato dopo cinque anni a ricoprire la stessa carica nello stesso ufficio. Sono cose preoccupanti.

Sono auspicabili risposte charificatrici e tranquillizzanti sul piano sostanziale e anche su quello formale, affinando nella forma aspetti positivi che già ci sono nella sostanza. E questo non dovrebbe poi essere troppo difficile.

ALFREDO GALASSO. OTTIMISMO

La crisi dei rapporti tra magistratura, potere politico e settori ampi del mondo delle professioni è nata nel 1980-81, nel momento in cui due magistrati casualmente, come accade nel corretto esercizio della giurisdizione, scoprirono gli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi presso Licio Gelli; è nata da lì la reazione, la risposta del potere politico, dei governanti, delle maggioranze. Non dimentichiamo che, nel dibattito del primo governo Spadolini del luglio del 1981, Craxi, Longo e Piccoli fecero un durissimo attacco alla magistratura: non un attacco a un pubblico ministero, ma a un tribunale che si era permesso di condannare Roberto Calvi durante lo svolgimento di un regolare processo. È da lì che nacque l’idea di imboccare la strada della sottoposizione dei pubblici ministeri al governo del paese. Questa idea non è più scomparsa dall’orizzonte politico e si è riproposta di volta in volta, con tanta più forza quanto più debole è stata l’opposizione.

Non nascondiamoci dietro un dito: la questione della separazione delle carriere è stata messa all’ordine del giorno perché è sicuramente l’anticamera di un processo di sottoposizione graduale dei pubblici ministeri all’esecutivo.

La ragione sta nel fatto che per un lungo periodo di tempo, ma diciamo pure per una tradizione del nostro paese, la magistratura requirente e giudicante è stata omologa al sistema di potere costituito, economico, politico. Solo negli ultimi decenni le più giovani generazioni della magistratura hanno cominciato a sganciarsi da questo conformismo e da questa dipendenza da un sistema di potere costituito. Ciò che si reclama nella sostanza sul piano politico ancora oggi è l’impunità dei poteri forti.

Tra le forze politiche c’è chi ritiene che comunque il potere debba giovarsi della impunità – e talora questa idea è trasversale e passa da destra fino a sinistra – e chi ritiene invece che l’esercizio dei poteri economici, politici, le funzioni istituzionali debbano essere sottoposte ad un vaglio, a un controllo di legalità da parte di un giudice autonomo e indipendente.

Vorrei dire qualcosa sul versante culturale, che è quello che mi preme di più. Sulla base della mia esperienza di avvocato – e su questo sono d’accordo con Scotti e Grosso – posso dire che non esiste il fenomeno del giudice prono alla volontà del pubblico ministero. Ho visto invece – ha ragione ancora una volta Grosso – pubblici ministeri che per avere fatto soltanto e sempre i pubblici ministeri hanno perso per strada il senso della giurisdizione. Ho visto anche magistrati che hanno fatto carriera stando sempre nello stesso distretto e che sono rimasti imbrigliati, impicciati; spesso – diciamo pure la parola – corrotti da un ambiente. E allora all’ordine del giorno dell’agenda politica, dell’agenda della stessa opinione pubblica, forse andrebbe messa questa proposta: la circolarità della funzione. Anch’io sono completamente d’accordo che prima di fare il pubblico ministero il magistrato debba esercitare per almeno cinque anni funzioni giudicanti.

Un’ultima cosa vorrei dire a proposito del versante culturale, che mi pare essenziale. Sono convinto che il recupero di una cultura della giurisdizione degna di un paese civile possa essere realizzato non con le separazioni ma al contrario con l’unità. Ma sul punto non c’è nulla né nell’agenda del governo né in quella della maggioranza parlamentare; purtroppo neppure in quella dell’opposizione.

Le giovani generazioni che si sono affacciate in questi anni agli studi universitari e poi alle scuole di specializzazione esprimono una grande fragilità, ma anche una straordinaria attenzione verso il recupero di alcuni princìpi ed alcuni valori fondamentali; la spinta e la sollecitazione che può venire da qui è che questi princìpi e questi valori – come diceva Alberto Gambino – possano essere offerti a loro come contributo e stimolo. È questa la ragione per la quale credo che possiamo continuare a procedere in questa direzione; ed il mio è un cauto ottimismo.

ELIGIO RESTA. I DIRITTI FONDAMENTALI

Bisogna dire subito sulla formazione dei magistrati che non sono tutte rose e fiori. Si tratta di un esperimento interessante soprattutto rispetto a quanto si va profilando circa l’idea di una scuola della magistratura alle dirette dipendenze del ministero, costruita intorno a valori gerarchici in cui tutto viene controllato da un ipotetico occhio del governante. Nel corso di un dibattito ho avuto modo di ricordare all’attuale ministro della giustizia che il modello a cui, di certo involontariamente, questa maggioranza si sta ispirando è il cosiddetto "modello napoleonico di giustizia". Quel modello è ispirato al principio per cui le leggi devono essere fatte, così come raccomandava Giustiniano prima di Napoleone, perché vengano soltanto applicate, mai interpretate dai giudici. È noto che, quando Napoleone vide il suo codice che andava in pasto ai giuristi e agli interpreti, affermò: "Il mio codice è perduto". C’è questo sogno napoleonico di costruirsi la cultura giudiziaria a immagine e somiglianza; di chi, di che cosa?

Ritengo che in uno stato liberale e democratico si debba compiere uno sforzo per sottrarre fin quando è possibile le questioni fondamentali della giustizia, dove sono in gioco i diritti fondamentali, alle logiche della disponibilità di una maggioranza. Mi piacerebbe che trovassimo un sistema per rendere indisponibili alla maggioranza, finché è possibile, alcuni princìpi fondamentali in materia di giustizia.

Mi piacerebbe che si ricominciasse a parlare con la tecnica della depurazione del linguaggio. Per esempio mi piacerebbe chiedere a chi ne parla che cosa intende per "far politica"; e, quando si depura il linguaggio, si chiede subito qual è il contrario di far politica, visto che è una delle accuse che vengono rivolte ai magistrati; per esempio potrebbe essere "fare etica". Ma il contrario del "far politica" potrebbe essere "fare affari"; ed è bene che facciano politica, se il contrario di "far politica" è "fare affari". La cosa che mi spaventa è che, a fronte delle enormi questioni che bisogna affrontare con la testa fredda e con studio puntuale e preciso, vengano fuori invenzioni superficiali ispirate a logiche medievali. La logica medievale ci racconta che quando il discorso è retorico – e siamo in una condizione di discorso retorico – l’ultimo argomento nel senso temporale è sempre il più debole, il meno vero. Oggi l’ultimo argomento è la separazione delle carriere e non so che cosa succederà domani. Penso invece che vadano prese alcune contromisure; queste contromisure sono di questo tipo: bisogna far finta che non siano soltanto questi gli interlocutori; bisogna riconoscere che un potere può essere irresponsabile quando viene esercitato in una maniera non consona alle regole della legalità; bisogna cominciare a pensare quali possono essere i rimedi per ridurre poteri che possono anche essere illiberali. Dobbiamo considerare seriamente la situazione attuale e vedere come si possa reagire.

Oltre alla questione della formazione, c’è il delicatissimo problema della valutazione della professionalità dei pubblici ministeri. Intanto anch’io son d’accordo sul fatto che i pubblici ministeri debbano esercitare prima per un certo periodo le funzioni giudicanti. Certamente la questione della valutazione della professionalità non è una cosa che si possa risolvere con la mannaia e l’accetta. Si dice pubblico ministero, ma forse non si sa di che cosa si parla. Mi piacerebbe che la depurazione del linguaggio lavorasse anche là. Quando si parla di professionalità del pubblico ministero, di quale pubblico ministero si parla? C’è un pubblico ministero nel processo minorile; c’è un pubblico ministero che interviene in alcuni procedimenti che penali non sono; ci sono nel diritto penale tante ramificazioni che impongono professionalità diverse: la professionalità richiesta a un pubblico ministero che tratta un processo per omicidio non è la stessa di quella richiesta per i reati societari. Chi è, poi, il pubblico ministero che è degno di essere valutato positivamente nella progressione in carriera? È quello che vince e fa vincere la propria tesi accusatoria? Mi auguro di no. Quello che riesce a far confermare dal gup tutte le sue ipotesi accusatorie? Quello, tutto sommato, non è che sia tanto merito suo; c’è una forza dei fatti che parla, c’è una evidenza, evidence, bellissima parola inglese che significa "prova". Il pubblico ministero che è meritevole di essere valutato in maniera positiva è colui che esercita il proprio potere nei limiti della legalità e cioè dentro i confini che la legge prevede ai suoi poteri; un pubblico ministero che rispetti le garanzie dell’imputato; un pubblico ministero, insomma, che abbia il senso e la cultura della giurisdizione. Per avere un pubblico ministero che abbia queste qualità, è bene che si formi insieme ai giudici e che faccia prima il giudice. Invece di concorsi separati occorre una formazione comune dei magistrati, degli avvocati e degli altri operatori del diritto, che cominci dall’università: questa deve essere, come diceva anche Galasso, la linea da seguire.

C’è poi il problema del reclutamento. Da quando ci sono i quiz risulta che il novanta per cento delle persone che superano la prova preselettiva e che vengono ammesse alla prova scritta sono in media soggetti che hanno soltanto una cultura scolastica e tendono a diventare dei burocrati del diritto. Dobbiamo ripensare seriamente ad un meccanismo di reclutamento in cui le scuole non servano a superare il concorso in magistratura, ma servano a formare.

Tempo fa, avevo lanciato un dibattito e l’ho chiamato "la storia del custode della costituzione". Quando una maggioranza esorbita dai suoi poteri e finisce per incidere sulle strutture costituzionali di uno stato, chi è il garante della costituzione? Abbiamo a disposizione due risposte: quella schmidtiana, tutta consegnata a un presidente ideale del Reich, e quella della corte costituzionale. Spero che ci sia un’altra risposta, che è quella silenziosa, composta, attenta alla democrazia, che viene dalla società civile.

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