ISONOMIA

Periodico di informazione giuridica

Anno II, n. 4

Luglio 2002

Direttore responsabile Lillo S. Bruccoleri. Condirettori Antonio Acquaroli e Oreste Flamminii Minuto. Redattore capo Giuseppe De Lutiis. Comitato di redazione: Leonardo Agueci, Antonino E. Cappelleri, Michela Deflorian, Mario Fresa, Catia Livio. Mensile della Associazione culturale "Isonomia". Presidente Mario Almerighi. Consiglieri effettivi: Gianfranco Amendola, Antonio Fiorella, Franco Ionta, Ugo Longo (segretario), Gianni Melillo, Fabrizio Merluzzi, Tommaso S. Sciascia, Rosalba Turco (tesoriere). Consiglieri supplenti: Erminio Amelio, Anna Argento, Giovanna Corrias Lucente, Paola Di Nicola, Paolo Iorio, Mattia M. La Marra, Marcello Marinari, Laura Nissolino, Carlo Testori, Andrea Vardaro, Giuseppe Zupo. Registrazione trib. Roma n. 236 dell’8 giugno 2001. Sede: 00136 Roma, via Giovanni Gentile, 22. Numeri telefonici: 06 39735897, 06 39735051 (associazione); 06 39735052, 06 39735900, 06 39733192, fax 06 39735101, fax 06 39743333 (direzione e redazione). E-mail: isonomia60@libero.it (associazione), isopress@hotmail.com (redazione). Internet: http://digilander.iol.it/isonomia. La collaborazione è, di norma, gratuita. Testi e materiali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Spediz. in abb. post. 45 % ex art. 2, c. 20, lett. b), legge n. 662 del 1996. Stampa: Romaprint S.r.l., 00156 Roma, via di Scorticabove, 136, tel. 06 41217552, fax 06 41224001

PAGINA UNO

LEGGE E RAGIONE

di Ugo Longo

 

Si agitano i temi della giustizia, che da tempo ormai – e non sempre per nobiltà di ispirazione – hanno conquistato l’onore delle cronache: in un paese dove le vicende processuali dell’ultima fin de siècle hanno sconfinato nel terreno proprio della storia. È innegabile, sotto questo profilo, che la evoluzione politica italiana è stata condizionata dagli sviluppi di iniziative inquisitorie che hanno spazzato via una intera classe dirigente e ridisegnato la nomenclatura dei partiti. Si è, in fine, giunti a un bipolarismo consolidatosi in termini di alternanza dopo le tornate elettorali che hanno segnato la vittoria ora dell’uno ora dell’altro schieramento: e qui si prospetta un allineamento istituzionale con le grandi democrazie europee e nordamericane di antica tradizione bipartitica.

I modelli anglosassoni, senza automatiche trasposizioni ma con forti suggestioni riformatrici, hanno influenzato le scelte legislative in materia processual-penalistica con particolare accentuazione degli elementi riferibili al sistema accusatorio e con la tendenziale esaltazione del ruolo paritario delle parti nel giudizio. Ma a questo punto, dovendosi definire la posizione del pubblico ministero e reclamandosi soprattutto dalla classe forense una più marcata distinzione rispetto ai giudici, è nata una contesa che investe non più soltanto il ruolo ma la situazione soggettiva dei magistrati che assolvano l’una o l’altra funzione.

La problematicità delle scelte supera le impostazioni corporative che pure sono presenti all’interno dell’ordine giudiziario per investire aspetti garantistici che riguardano tutt’intera la collettività nazionale. Rientra nell’interesse comune che la giustizia sia amministrata in modo imparziale e dunque che il giudice sia autonomo da possibili interferenze esterne. Nulla quaestio per il giudice, che per definizione è terzo e imparziale; non così per il pubblico ministero, che è certo espressione di un potere-dovere di indubbia appartenenza statale ma che nel processo è parte né più né meno di chi sostiene la difesa che, rispetto all’obbligo sancito per l’esercizio dell’azione penale dalla costituzione quando tratta dell’ordinamento della repubblica, esercita una funzione che la stessa costituzione, definendo prima i diritti e doveri dei cittadini, riconduce direttamente a un diritto inviolabile solennemente consacrato – per stare solo all’epoca contemporanea – fin dalla dichiarazione universale approvata nel quarantotto dall’assemblea generale delle nazioni unite.

Dal punto di vista del cittadino, la reciproca impermeabilità degli apparati predisposti per l’espletamento delle indagini e per l’accertamento delle responsabilità si pone come garanzia di imparzialità non meno di quanto la tutela dell’autonomia delle parti private si qualifichi come presidio di libertà sul piano operativo e dialettico.

Dal punto di vista degli avvocati, per i quali la parità tra le parti sarebbe meglio concepibile in termini assoluti, una netta demarcazione tra le due componenti della magistratura avrebbe comunque un effetto compensativo rispetto alla incommensurabile sproporzione di facoltà e risorse di cui la parte pubblica dispone rispetto alle più modeste possibilità su cui può contare la difesa, priva di qualsivoglia potestà autoritativa, nello svolgimento delle proprie attività ivi ricomprese quelle di natura investigativa.

Dal punto di vista dei giudici e dei pubblici ministeri, oggi omologati dalla comune appartenenza alla stessa carriera e dalla conseguente interscambialità dei ruoli, la difesa dell’assetto attuale viene collegata alla esigenza di garantire al massimo grado possibile la indipendenza nell’esercizio di una fondamentale funzione pubblica.

La legge detta le regole, la ragione le ispira. Occorre affrontare queste tematiche al di fuori di ogni logica di appartenenza ponendosi dal punto di vista dei cittadini. Solo così potranno superarsi le asprezze conflittuali del momento perseguendo disegni di più ampio respiro, alla cui realizzazione ciascuno secondo le proprie forze dia un fattivo contributo. In questa prospettiva, animati dallo spirito di chi vuole adoperarsi per favorire quegli approfondimenti che diano risultati positivi nell’irrinunciabile presupposto della onestà intellettuale di tutti i soggetti chiamati a fornire il proprio apporto critico, ci piace richiamare ancora una volta il nostro manifesto fondativo per ribadire e sottolineare la esigenza di un salto di qualità "che non può prescindere dal contributo dei vari operatori della giustizia, dei suoi utenti e degli addetti all’informazione: un confronto nel quale ciascuno possa offrire il bagaglio della sua specificità e delle sue esperienze, ma soprattutto del suo libero patrimonio intellettuale al fine di tutelare esclusivamente il servizio giustizia".

Nel convegno di Isonomia affrontato un tema essenziale

VERIFICARE I COSTI DELLA GIUSTIZIA

di Cesare Mirabelli

Proporre di riflettere sui costi della giustizia può apparire l’invito ad una divagazione, che consente di sfuggire dagli immani problemi organizzativi e funzionali che abbiamo dinanzi. Ma può anche, all’opposto, apparire la sollecitazione ad una valutazione puramente economica di un bene, la certezza e l’affermazione del proprio diritto, che non di rado ha un valore in sé e trascende comuni valutazioni patrimoniali. Eppure parlare dei costi della giustizia e sollecitare riflessioni in questa direzione è oggi essenziale. Le prospettive di ricerca sono molte e tutte devono convergere verso la necessità di assicurare una soddisfacente risposta alla domanda di giustizia: non solo per le attese che riguardano i contenuti delle decisioni, il loro essere "giuste" e percepite come tali, ma anche per i tempi e gli oneri che separano la decisione "giusta" dalla domanda di giustizia. Del resto le ripetute condanne del nostro paese da parte della corte di Strasburgo, per sanzionare la ingiustificata lunghezza dei processi in contrasto con il diritto ad una decisione entro un termine ragionevole, dimostrano quanto la necessità di rendere efficiente l’amministrazione della giustizia sia un problema reale. La esigenza di assicurare una "ragionevole durata" del processo si dimostra non solo una esigenza organizzativa, legata al buon andamento di qualunque apparato, ma un elemento essenziale per l’effettivo godimento dei diritti: tanto da trovare esplicita collocazione, con la recente modifica dell’articolo 111 della costituzione, tra le norme costituzionali sulla giurisdizione.

La giurisdizione non opera, tuttavia, fuori dal sistema. È difficile immaginare una amministrazione della giustizia capace di rispondere in maniera sollecita ed efficace alla domanda di giurisdizione, quale che ne sia l’ampiezza ed il contenuto ed indipendentemente dalla funzionalità del contesto complessivo.

Per accostarci ai problemi relativi ai costi della giustizia, probabilmente dobbiamo seguire due itinerari diversi e paralleli. Uno interno al sistema giustizia, uno esterno ad esso. Con il primo dovremmo giungere a valutare la funzionalità quantitativa e qualitativa del servizio che viene reso e la ricaduta economica dello stesso. Con il secondo dovremmo giungere ad apprezzare gli elementi esterni all’amministrazione della giustizia, che incidono sulla efficacia della stessa.

Qualche esempio può aiutare a capire. Esistono "macro-attori" del sistema giustizia che producono o orientano una grande quantità di domanda, con controversie di serie, spesso ripetitive: l’amministrazione finanziaria, gli enti previdenziali, i sindacati. Pur rispettando la identità e l’autonomia di ogni singola controversia, una amministrazione efficiente "organizza" la risposta a una domanda di massa. Questa è una risposta "interna" al sistema giustizia. Ma all’esterno di esso è proprio vero che i "macro-attori" non abbiano responsabilità? È certo più facile attendere una decisione in ciascun singolo caso, piuttosto che adeguarsi ad una soluzione giurisprudenziale non destinata a mutare ed assumere la responsabilità di transigere una lite o di riconoscere la fondatezza di una pretesa.

Certo, la platea dei problemi non è così schematica e semplice. Ecco perché, accogliendo la sollecitazione di Isonomia, vale la pena discutere ed esaminare in modo libero e nuovo vecchi problemi. Avendo anche presente che i "costi" della giustizia incidono sul funzionamento delle istituzioni e sulla economia, ma toccano anche direttamente e dolorosamente ogni individuo che nella domanda di giustizia ripone parte della sua vita.

Salvare i fondamenti della nostra democrazia

LA MAGISTRATURA PER I CITTADINI

’autonomia e l’indipendenza della magistratura erano state previste dalla nostra costituzione per garantire che il controllo della legalità del nostro paese non venisse gestito indirettamente dalle forze politiche di maggioranza attraverso il controllo del pubblico ministero, per garantire il principio di legalità ("la legge è uguale per tutti"), fondamento essenziale di uno Stato di diritto. La storia giudiziaria italiana è lì a dimostrare che non tutti i magistrati meritano l’indipendenza e l’autonomia di cui godono, ma il popolo italiano, i cittadini italiani, sì.

Alcuni magistrati sono come gli skipper delle barche a vela: orientano le vele a seconda del vento che proviene dalla direzione del potere. Altri hanno utilizzato la loro indipendenza per colludere col potere anche con fini di lucro. Ma vi sono anche tanti magistrati che invece di usare le vele hanno usato i remi seguendo esclusivamente la rotta dell’affermazione della legge nei confronti di chiunque senza guardare in faccia nessuno. Alcuni di costoro, fedeli interpreti dei valori costituzionali dell’indipendenza e dell’autonomia, sono stati prima isolati e poi barbaramente uccisi. Molti di costoro sono ancora vivi ed hanno vistosi calli sulle mani: essi, però, sono stati e sono tuttora sottoposti alle più squallide denigrazioni da parte di chi vive con fastidio, con intolleranza l’estensione del controllo di legalità al di là dei limiti graditi al potere politico, economico e finanziario del nostro paese.

La conflittualità tra potere politico e magistratura ha origini lontane fin da quando venne scoperto che i petrolieri compravano le leggi del parlamento pagando il 5 per cento dei vantaggi che quelle leggi gli procuravano. Essa è proseguita ai tempi di Craxi (discorso alla camera subito dopo l’arresto di Calvi) ed è esplosa con tangentopoli. Mai, però, fino agli anni novanta si ebbe l’impudenza di attaccare al cuore il sistema costituzionale nella collocazione all’interno di esso della posizione autonoma della magistratura. Il primo tentativo risale alla bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema. Per fortuna esso fallì.

Oggi. Alla tecnica controriformista che da qualche anno sta consentendo che il diritto di difesa nel processo possa trasformarsi (solo per i ricchi) in difesa dal processo (prescrizioni) si sta sostituendo una nuova tecnica legislativa che mira direttamente all’assoluzione degli imputati eccellenti attraverso riforme che oltre a ciò serviranno in futuro all’eliminazione di qualsiasi rischio connesso al solo inizio del processo. Mi riferisco a quegli interventi legislativi tendenti a proteggere quelli che una volta venivano chiamati delinquenti col colletto bianco (falso in bilancio, legge Lunari, legge sul rientro dei capitali esportati clandestinamente all’estero); interventi legislativi tendenti a proteggere imputati eccellenti in corso di giudizio ed in contrasto con l’obiettivo europeo di rafforzare la cooperazione internazionale nella lotta alla criminalità organizzata (legge sulle rogatorie internazionali); interventi ministeriali obiettivamente finalizzati all’azzeramento di processi in corso.

Attualmente: i disegni di legge pendenti tendono a compromettere princìpi cardine del nostro ordinamento, quei princìpi che garantiscono indipendenza e autonomia: 1) obbligatorietà dell’azione penale (fondamento del principio della legge uguale per tutti); 2) sottrazione al giudice del compito d’interpretare la legge: 3) sottrazione alla magistratura del controllo sull’attività investigativa per attribuirla al potere politico; 4) creazione nella corte di cassazione di un’oligarchia all’interno della magistratura; 5) previsione di un reato a carico del giudice che condanna ingiustamente, punito fino a diciotto anni di reclusione (nel disegno di legge nulla si dice in relazione alla ingiusta assoluzione). Ed altro ancora.

Dicevo prima che la magistratura non è un’isola felice al di fuori della cultura che purtroppo sta avvelenando il nostro paese in tutti i settori. Ma esistono ancora in Italia giudici degni di pronunciare sentenze in nome del popolo italiano. Li ho definiti prima "i rematori" per distinguerli dagli "skipper". Ebbene, la mia sensazione è che ai "rematori" si voglia togliere l’acqua perché essi si arenino sulla sabbia in fondo al mare. Ma togliere ad essi l’acqua significa eliminare la possibilità di applicare la legge nei confronti di tutti, dei potenti e dei ricchi e non solo dei poveri e degli inermi cittadini.

In un paese dove ogni anno la criminalità organizzata produce un reddito pari a circa trecentomila miliardi di vecchie lire, il controllo di legalità autonomo e indipendente assume un diretto rilievo in ordine alla qualità della vita di ciascun cittadino. Ridurre lo spazio di tale controllo significa, dunque, ridurre spazi di libertà ai cittadini.

È per difendere questo spazio che i magistrati sono scesi in sciopero. È questo spazio che i cittadini devono difendere.

Ciò che è messo in discussione, a questo punto, non sono i magistrati, che ovviamente possono sbagliare e talvolta sbagliano, ma i fondamenti della nostra democrazia: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la separazione dei poteri, l’indipendenza della magistratura.

Mario Almerighi

PAGINE DUE E TRE

LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE

Prospettive di nuovi scenari organizzativi

di Marcello Marinari

a qualche tempo la giustizia civile sta accrescendo progressivamente il suo peso, nel dibattito infinito e talvolta inconcludente sulla giustizia: un dibattito, mi sembra il caso di notare, quasi sempre condotto sulla base di pregiudizi e luoghi comuni e nel quale solo raramente la forza delle argomentazioni è sostenuta da quella dei dati. Nascono così slogan più o meno fortunati, come quello della "privatizzazione del processo", anche se in concreto gli unici due esempi di questa "privatizzazione" che sono stati richiamati, sia pure genericamente, sono quello dell’attribuzione ai difensori delle parti di compiti per così dire "istruttori" e quello del ricorso a forme di risoluzione alternativa delle controversie, comunemente definite con la formula Adr. Se ci riferiamo, in particolare, al primo dei due aspetti, si possono infatti ipotizzare scenari molto diversi, a seconda che si pensi ad un processo diviso in due o più fasi, di cui solo quella della decisione preveda la presenza del giudice e sia regolamentata per legge, oppure ad un processo in cui gli atti raccolti dalle parti abbiano o possano avere valore di prova, automaticamente o su accordo delle parti; ad un processo in cui esista o meno un intervento del giudice, necessario o ad istanza di parte, anche nella fase precedente la decisione, per risolvere contrasti procedurali o altri punti della controversia eccetera. Ugualmente, quanto all’Adr, se ne può parlare in termini di Adr pre ed extraprocessuale o come condizione di procedibilità, in termini di incremento ed allargamento delle ipotesi già esistenti di arbitrato privato o amministrato o di introduzione di una più vasta gamma di strumenti alternativi, eventualmente utilizzabili anche nel corso di svolgimento del processo. Dopo il disegno di legge governativo relativo alla cosiddetta miniriforma della procedura civile, che non contiene previsioni in materia di gestione di parte della discovery, anche se alcune delle sue previsioni possono certamente incidere sulla complessiva gestione del processo, si parla adesso di una prossima riforma procedurale di ampio respiro.

Penso che sia comunque utile, in merito al problema della gestione "privatizzata" della fase preparatoria e di quella istruttoria della causa, riflettere sulle esperienze straniere in qualche modo evocate, più che richiamate, dal riferimento alla "privatizzazione", per cercare di coglierne le più recenti tendenze, senza alcun pregiudizio e senza alcun tabù, ma anche senza ingenue quanto semplicistiche trasposizioni di modelli. In questa sede mi limiterò a qualche cenno sul primo dei due punti citati e solo in riferimento al processo di cognizione di primo grado, che rappresenta indubbiamente la fase cruciale, ai fini della durata complessiva, benché problemi di gestione, e di notevole rilievo, siano individuabili anche in relazione alle fasi di impugnazione e soprattutto di esecuzione.

Lasciando da parte l’esperienza francese, che pure conosce forme istruttorie differenziate e che rappresenta un punto di riferimento di grande rilievo, specie per l’utilizzazione su larga scala del modello sommario del refere, farò riferimento, in queste considerazioni, all’esperienza anglo-americana. Nella procedura civile di questi due paesi, sia pure in modi in parte diversi, il sistema della gestione di parte della fase precedente quella decisoria è tradizionalmente la regola. Bisogna ricordare, tuttavia, per contestualizzare questa affermazione (e mi riferisco anche agli altri paesi dell’area dell’ex Commonwealth), che in tali paesi, limitandoci alle regole generali, anche il processo civile ha una struttura articolata in due fasi: la fase pre-trial, nella quale si svolgono gli accertamenti sui fatti e si delineano le posizioni delle parti, e la fase del trial, il dibattimento, nella quale le parti si confrontano davanti al giudice presentando le loro prove. Negli Stati Uniti, poi, anche nel processo civile la presenza della giuria è la regola ed il giudice ha generalmente il ruolo, peraltro assolutamente importante e spesso decisivo, di dirigere il dibattimento e di decidere le istanze sulle prove ed in genere procedurali, pur essendo ammissibile in teoria anche il cosiddetto bench trial, vale a dire il processo in cui anche il dibattimento è diretto e deciso dal solo giudice, come avviene peraltro raramente e tenendo pur sempre presente che la maggior parte dei processi viene definita senza giungere al dibattimento, nella fase pre-trial, come si accennerà. In Inghilterra, invece, la presenza della giuria nelle cause civili è limitata a pochi casi ed il giudice professionale dirige e decide anche nella fase dibattimentale la stragrande maggioranza delle cause. In entrambi i sistemi, peraltro, il sistema bifasico continua ad essere in vigore, se pure articolato in modo diverso rispetto al passato, e nella prima fase sono gli avvocati delle parti (o le parti personalmente, nelle controversie di minor valore, in Inghilterra, dove non esiste l’obbligo dell’assistenza di un avvocato) a "saggiare" reciprocamente gli elementi di prova a sostegno delle rispettive ragioni, per usare un termine poco tecnico ma più chiaro. Questi accertamenti possono essere svolti in modo assolutamente informale, unilateralmente, o inserirsi in una vera e propria procedura, detta discovery (denominazione che in Inghilterra più recentemente, dopo l’unificazione procedurale attuata nel 1999, è stata modificata in quella di disclosure), amministrata dagli avvocati, e che consiste in una verifica incrociata dei rispettivi mezzi di prova documentali e talvolta testimoniali, per saggiarne, come detto, la forza e la resistenza, ai fini di valutare la convenienza di andare al confronto dibattimentale, oltre che per chiarire con maggiore precisione le rispettive posizioni procedurali e le proprie richieste, dato che gli atti scritti iniziali non devono necessariamente contenere una completa delineazione delle posizioni e delle domande delle parti (rinviandosi ad un momento successivo il vero e proprio pleading). Come si vede quindi – e penso che questo sia già un primo punto molto importante – non si tratta di una vera e propria istruttoria, perché gli atti di accertamento svolti dalle parti, spesso nei loro studi privati, non sono destinati, almeno in linea generale, ad essere conosciuti ed utilizzati dal giudice né tanto meno (nel sistema americano) dalla giuria nel corso del dibattimento.

Secondo le più recenti stime negli Stati Uniti in quasi il 50 per cento delle cause civili si svolgono atti di discovery. Questa attività era in passato prevalentemente libera tra le parti ed il giudice interveniva solamente per decidere eventuali incidenti, come in caso di rifiuto di una parte di rivelare il nome dei propri testimoni, o di esibire un documento, o di fornire precisazioni in relazione ad aspetti giuridici delle proprie domande eccetera. La realtà anglo-americana presenta storicamente, e da lungo tempo, una bassissima percentuale di cause che raggiungono la fase del dibattimento, anche nel settore civile, e forse, anzi, ancora più bassa di quella che si registra nel settore penale: si parla del 3-4 per cento di casi. La stragrande maggioranza dei casi si chiude con l’accordo delle parti o con decisioni semplificate da parte del giudice. In particolare – e si tratta di una procedura che sembra molto vicina, almeno esteriormente, a quella alla quale sembrano pensare i progetti sulla "privatizzazione" – le parti possono chiedere al giudice di procedere alla decisione sulla base dei soli atti raccolti durante la fase pre-trial, quando non vi siano contrasti sulle circostanze di fatto. Nel sistema degli Usa, in particolare, la giuria non avrebbe titolo per decidere, in un caso del genere, trattandosi di questioni di solo diritto, perché la sua competenza riguarda "il fatto" e non il diritto, che spetta al solo giudice valutare. Si tratta del cosiddetto summary judgment, una sentenza (molto sobriamente) motivata, emessa senza accedere alla fase del dibattimento, secondo un modello che potrebbe in qualche modo corrispondere, almeno per l’utilizzazione degli elementi raccolti dalle parti, a quello ipotizzato con il richiamo alla "privatizzazione".

In questo contesto si colloca l’esame del rapporto tra possibili riforme in qualche modo "privatizzatrici" e riduzione dei tempi del processo civile. Come ho ricordato, il sistema della gestione della fase predibattimentale da parte degli avvocati è tradizionale, nel diritto anglo-americano, e corrisponde a radici storico-politiche ben sedimentate. Malgrado ciò, tuttavia, la durata della fase precedente il dibattimento, nel recente passato, non solo non era particolarmente breve, ma anzi si era progressivamente allungata e del resto la riduzione di tale durata non rientrava affatto tra le finalità della discovery. In sostanza, se è certo che la discovery o comunque il confronto istruttorio tra gli avvocati talvolta si può rivelare molto utile per far capire meglio alle parti quale sia la posizione e la forza dell’avversario e permettere loro di determinarsi più consapevolmente (ed arrivare alla composizione della controversia o alla migliore delineazione o riduzione della materia del contendere), è molto più difficile individuarla come un fattore efficace ai fini della riduzione della durata del processo (se è questo l’obiettivo della progettata riforma) che è oggi il problema principale, anche se certo non l’unico, del processo civile italiano. A questo proposito è molto significativo, a mio giudizio, che negli ultimi venti anni in Usa – e più recentemente anche in Inghilterra con la riforma Woolf del 1999 – si sia affermata la tendenza ad un sempre maggiore intervento del giudice nella fase pre-trial, per regolamentare e limitare fortemente la discrezionalità degli avvocati nella scelta dei tempi e degli stessi strumenti da utilizzare nella discovery-disclosure. Si tenga anche presente che una maggiore durata della discovery ed un maggior ricorso ad interrogatories, depositions e disclosure of documents si traduce molto spesso in maggiori spese legali, che in Usa sono quasi sempre pagate dalla parte al proprio avvocato anche in caso di vittoria della lite (sebbene in alcuni casi sia possibile accordarsi per un pagamento basato su una percentuale di quanto ottenuto attraverso la causa).

Come dicevo, la più recente legislazione prevede un intervento in tempi brevi del giudice dopo l’iscrizione a ruolo della causa, per esaminare con gli avvocati i modi ed i tempi della fase pre-trial, dettando limiti anche rigidi di tempo e monitorando poi regolarmente l’adempimento di tali impegni. In Inghilterra, poi, per le cause di valore inferiore alle cinquemila sterline – le cosiddette small claims – si prevede in pratica un arbitrato svolto da un giudice della county court (in questi casi un district judge) e senza intervento di avvocati, sulla base di scambio di informazioni documentali e dichiarazioni testimoniali scritte, e lo svolgimento di un’unica udienza finale di decisione. Lo svolgimento di una preistruttoria testimoniale è del resto rara anche per quanto riguarda le cause che seguono la procedura del fast track o quella del multitrack. La regola è infatti costituita dalle informazioni sull’esistenza di documenti (nozione di discovery o disclosure del documento in senso stretto) e sulla loro eventuale messa a disposizione della controparte, mentre, quanto alle dichiarazioni di testimoni, si prevede lo scambio di statements o di affidavit aventi valore di examination in chief.

L’audizione personale di un testimone in questa fase, limitata alle controversie più complesse, è comunque prevista solo su autorizzazione del giudice o in caso di richiesta di cross examination. Contrariamente a quanto spesso si immagina però – ed è questo, in un certo senso, il rovescio della medaglia – sono previsti poteri molto incisivi del giudice, anche d’ufficio, per escludere la prosecuzione del processo fino alla fase del dibattimento, così come si prevede, quando l’oggetto della domanda lo consenta, l’automatico accoglimento della domanda in caso di mancata risposta del convenuto alla citazione (cosiddetto judgment by default). In alcuni casi, la legislazione, anche inglese, sia nelle cause alle quali si applica la disciplina del fast track che nelle altre, alle quali si applica quella del multitrack, prevede che il giudice possa anche imporre alle parti lo svolgimento di un tentativo di composizione della lite, talora attraverso un tentativo obbligatorio di conciliazione svolto presso la stessa corte, talora rivolgendosi a soggetti esterni alla corte. Mi sembra interessante notare, sul piano comparativistico, come il mondo anglo-americano, anche se per vie e motivi diversi dai nostri, si stia avvicinando al modello continentale, che privilegia l’intervento precoce del giudice nella controversia, e che quello continentale, reciprocamente, cominci a divenire consapevole dell’esigenza di "gestione del processo" intesa in senso molto diverso dalla semplice regolamentazione procedurale degli atti ed indirizzata ad una programmazione individualizzata del processo.

Sul piano dei risultati ottenuti in conseguenza dell’introduzione di questi nuovi strumenti di controllo, si deve senz’altro riconoscere che in Usa, con riferimento alla legislazione federale ed a quella degli Stati che hanno introdotto maggiori strumenti di case management, la durata del processo (riferendomi naturalmente anche ai casi, la stragrande maggioranza, che non si concludono con sentenza) è notevolmente calata (si possono registrare riduzioni dei tempi anche di due terzi in alcuni Stati, come la California) così come sembrano indicare i primi dati anche in Inghilterra, dove peraltro è stata sempre bassa (circa un anno di durata media in primo grado, almeno per i casi che non si concludono con il dibattimento). Limitandomi all’aspetto della gestione per così dire "privatistica" della fase istruttoria, ritengo senz’altro positiva una valorizzazione anche forte del ruolo degli avvocati nel processo ed in particolare nella fase istruttoria, sia per l’indubbia spinta alla responsabilizzazione nelle scelte processuali che ciò comporterebbe, sia ai fini di una maggiore conoscenza delle questioni controverse e di una limitazione dei punti in discussione. Un intervento innovatore di questo tipo potrebbe giovare molto anche al giudice, riducendo tendenzialmente le lacune istruttorie, così come le questioni pregiudiziali puramente dilatorie.

Senza entrare nel merito degli aspetti relativi all’attuale stato delle professioni legali ed alle conseguenze che l’organizzazione della professione può avere su una riforma come quella ipotizzata, mi pare molto più difficile invece che ciò possa ridurre sensibilmente la durata dei processi, almeno senza un corrispondente potere di controllo da parte del giudice. Inoltre è molto importante vedere se si stia pensando ad una fase preparatoria del processo esterna e precedente rispetto all’inizio della causa e se, dopo questa fase, le parti dovrebbero presentare le loro "carte" al giudice perché decida direttamente ed immediatamente la controversia, senza alcuna possibilità di ulteriore istruttoria, o se si pensi ad una gestione dell’istruttoria vera e propria del processo ad opera delle parti, vale a dire dopo l’iscrizione della causa, più o meno supervisionata dal giudice, o ancora ad un sistema misto. In particolare, e senza considerare in questa sede eventuali aspetti problematici di tali possibili innovazioni sul piano della legittimità costituzionale, credo che senza una considerazione complessiva dei problemi che determinano la durata del processo la sola "privatizzazione" della fase preparatoria del giudizio non influirebbe significativamente sulla sua durata, anche ammesso che ne possa guadagnare la produttività del giudice sul piano del numero delle sentenze.

Certo, almeno in astratto, un giudice che dovesse concentrarsi solo sulla decisione di controversie già completamente istruite potrebbe dedicare tutto il proprio tempo allo studio delle carte ed alla stesura delle sentenze, producendone di più. Tuttavia, senza delimitare la durata della fase preparatoria, non ci sarebbe alcuna garanzia che ad un accresciuto numero di sentenze corrisponda necessariamente una diminuzione della durata della causa, dato che non è affatto detto che le parti "istruiscano" la causa in tempi più rapidi rispetto a quelli attuali. Si tenga anche presente che uno dei punti deboli del processo attuale è proprio lo scarso controllo del giudice sulla fase preparatoria, in termini di conoscenza tempestiva della causa e dei temi in discussione, che richiederebbe la creazione di uno staff di assistenti che possano anche coadiuvare il giudice nello studio e nella preparazione della causa. Non contesto che lo svolgimento di compiti istruttori e l’attività di studio e di preparazione della causa, riducendo il tempo a disposizione del giudice, impongano limiti rigidi al numero di sentenze che ogni giudice può produrre. Ma, a parte che esisterà in ogni caso un limite al numero di sentenze che ogni giudice può produrre, un intervento precoce e consapevole nella causa potrebbe favorire un aumento dei casi di risoluzione della stessa senza giungere alla sentenza, o almeno alla sentenza ordinaria all’esito di un procedimento standard, che rappresenta oggi almeno il 40 per cento del totale dei casi nel nostro paese. D’altronde, come visto, i sistemi che si caratterizzano per una minore durata dei processi sono quelli con il minor numero di sentenze, e non con il maggiore.

La strada da percorrere passa pertanto, anche senza escludere affatto l’introduzione di forme di discovery, attraverso una gestione flessibile e individualizzata del caso, con l’utilizzazione degli strumenti già oggi esistenti o introducendone altri, in termini di articolazione dei modelli di decisione (sentenza ordinaria, sentenza orale, provvedimenti sommari eccetera). Ciò richiede indubbiamente la creazione di un supporto organizzativo all’attività del giudice civile, quasi totalmente assente nel panorama italiano, caratterizzato semmai da iniziative individuali di singoli giudici, che suppliscono con un impegno talvolta straordinario, e generalmente non conosciuto, alle carenze strutturali; mi riferisco ad un supporto organizzativo costituito da assistenti legali veri e propri e comunque, innanzitutto, da un sia pur minimo staff destinato ad occuparsi dell’attività giurisdizionale in senso stretto.

Quella di pensare che il processo civile possa funzionare bene e concludersi rapidamente, disegnando una elegante ed anche razionale architettura normativa di carattere procedurale senza curarsi della struttura che la deve attuare, è solo un’utopia, per quanto importanti possano essere gli interventi normativi. Il recente disegno di legge governativo al quale ho già accennato, e limitandoci alle norme che possono incidere sugli aspetti dei quali ho parlato, si muove sicuramente in senso semplificatorio rispetto alla struttura attuale del processo, facendo riferimento alla tendenziale unificazione delle attività attualmente oggetto degli articoli 180 e 183 del codice di procedura civile, e, in qualche punto, nel senso di rendere possibile una maggiore flessibilità del modello decisionale; mi riferisco in particolare alle norme in materia di provvedimenti cautelari e di ordinanze anticipatorie, che mi sembrano certamente positive, come ipotesi di lavoro, anche se è difficile prevedere quale ne potrà essere l’impatto concreto, trattandosi di strumenti comunque affidati alle scelte delle parti.

Le previsioni degli articoli 10 e 11 del disegno di legge, che toccano invece i meccanismi della precisazione delle conclusioni, non mi sembrano incidere, in senso stretto, sugli strumenti di flessibilità e semplificazione, al di là delle apparenze, ma semmai presuppongono una rigida programmazione del processo. L’introduzione di termini per il compimento di singoli atti, qualora non sia inquadrata in una gestione dei tempi complessivi del processo, infatti, non incide affatto, da sola, sulla durata del processo, ma determina solo, qualora sia impraticabile il suo rispetto, la ricerca di escamotages idonei al loro superamento, se non la sua pura e semplice elusione, come avviene, credo quasi sempre, per la norma dell’articolo 81, secondo comma, delle norme di attuazione del codice di procedura civile. Prevedere che il giudice fissi la precisazione delle conclusioni ad una distanza di non oltre venti giorni non risolve certo il problema, che pure esiste, ed è grave, dei lunghi rinvii per la precisazione delle conclusioni, ma, nell’attuale situazione degli uffici giudiziari, anche nella migliore delle ipotesi, sposta il ritardo sul termine di deposito delle sentenze.

Per cercare di rispettare una simile previsione, se verrà approvata dal parlamento, occorrerà programmare non solo la fase decisionale, ma anche le singole udienze nelle quali si dovrà articolare il processo, per poter prevedere i tempi della decisione e non arrivarvi casualmente, con le conseguenze che sono facilmente immaginabili, per i giudici, ma anche per gli avvocati, a meno di non immaginare un processo continuo dalla sua introduzione e sino alla fine, come nel trial anglo-americano, che ha però alle spalle una preparazione del tutto diversa. Questo porrà ancora di più un problema di gestione del processo, considerando l’incompatibilità con un simile sistema di un numero significativo di rinvii, come puntualmente riscontrabile nel dibattito avvenuto sul punto in ambito anglo-americano.

Gli effetti di una riforma procedurale di questo tipo, peraltro, per quanto interessanti possano essere, sono destinati a concretizzarsi nel medio-lungo periodo. Nell’attesa, non sarebbe male pensare a potenziare e per così dire "riconvertire" la macchina della giustizia civile con interventi di tipo organizzativo, come quello del cosiddetto processo telematico, il cui regolamento è in via di applicazione. Si tratta anche qui di una riforma che verosimilmente non potrà trovare un’applicazione immediata a "pieno regime" con la celebrazione di processi a distanza e la realizzazione di quell’aula elettronica nella quale il giudice e le parti interagiscono senza la necessità di un contatto fisico diretto, anche se, almeno inizialmente, per un numero ridotto di controversie. Ma il semplice fatto di poter trasmettere e poter consultare documenti via computer rappresenterebbe uno strumento di grande rilievo pratico per decongestionare il lavoro delle cancellerie e degli avvocati, oltre che per aumentare il tasso di trasparenza del sistema e rendere almeno potenzialmente più controllabile la macchina della giustizia. Si potrebbe assistere, anche nel nostro piccolo microcosmo, all’avvento di quella età dell’accesso di cui ci ha parlato recentemente Jeremy Rifkin.

Sempre facendo riferimento all’esperienza inglese, si deve segnalare, a questo proposito, la sperimentazione, nell’ambito del programma Mcc (modernising civil courts) del court service, di un progetto pilota denominato Money claim on line (Mco), che rende possibile a chiunque promuovere via internet un giudizio civile avente ad oggetto una somma di denaro determinata. L’ufficio ricevente comunica la citazione al convenuto, provvedendo poi a trasmettere il caso alla corte competente, in caso di sua costituzione. In caso di mancata costituzione, invece, l’attore potrà direttamente ottenere una sentenza by default or by admission, in caso di mancata contestazione, totale o parziale, del debito, ed anche un warrant of execution. Il sistema include strumenti di controllo di tipo, per così dire, interattivo, disponibili da parte dell’interessato.

Certamente è solo un primo passo verso quel complessivo processo di potenziamento e rinnovamento strutturale del sistema prefigurato con il White paper modernising civil courts, ma è pur sempre un modo, che ritengo intelligente anche sul piano della gradualità, di introdurre un meccanismo che, per quanto limitato ad alcune utilizzazioni, racchiude in sé tutti gli elementi di possibile innovazione. Come ho premesso, la tecnologia informatica può fare molto per il mondo della giustizia, liberandolo da adempimenti ripetitivi che appesantiscono il lavoro degli operatori e ne occupano una quota significativa di tempo. Speriamo che la pressione del mondo esterno possa accelerare i tempi della sua applicazione.

PAGINA TRE

I COSTI DELLA GIUSTIZIA

Convegno tenutosi in Roma il 22 marzo 2002

MARIA ROSARIA FERRARESE. SUPERARE L'IMMAGINE PANPENALISTICA DELLA GIUSTIZIA

Vorrei esordire citando il titolo di un libro tradotto ultimamente in italiano: I diritti costano. I due autori hanno voluto ricordare un fatto che può essere sgradevole da ricordare, che non riguarda però soltanto i diritti sociali, ma anche altri diritti (come il diritto di proprietà). Tutti i diritti costano perché contano sul servizio di una serie di istituzioni, dai pompieri che devono intervenire per salvare una proprietà che brucia fino alle corti che devono garantire in forme diverse ed in momenti diversi quei diritti. Parto da questo perché voglio arrivare a disegnare un tipo di costi sociali che mi sembra pesi sulla società italiana. Ora, se i diritti costano, questo tipo di costi è destinato ad aumentare enormemente nel nostro futuro, il quale ci annuncia una civiltà giuridica che è basata sull’importanza dei diritti. Con la globalizzazione, con i movimenti di merci, ma soprattutto di uomini, per il mondo, con l’incrocio tra diversità etniche diverse la materia dei diritti diventerà sempre più rilevante. La carta di Nizza in questo disegna un importante territorio a noi noto, ma è solo un pezzo della carta più complessa che in tutto il mondo si occupa di questo tema e che è destinato a riscuotere attenzione crescente.

Si tratta di una retorica che circola per il mondo come molti sostengono? Certamente anche, perché la materia dei diritti è stata sempre fortemente esposta all’insidia della retorica; credo però che insieme con la retorica si vada anche verso un futuro di crescente importanza e dunque anche esigibilità dei diritti. L’esigibilità dei diritti chiama in causa le corti, chiama in causa in generale quelli che a me piace chiamare i fori. Credo che il nostro futuro sarà pieno di corti intese non soltanto come corti statali, ma anche come un assetto di fori, di luoghi capaci di soddisfare le esigenze di conciliazione della diversità, di mediazione tra opposte esigenze ed esigibilità dei diritti.

Questo pone un primo problema per il nostro futuro: il problema dell’incongruenza tra un mondo che si appoggia troppo facilmente ai miti liberisti, in cui scompaiono i costi pubblici, quelli delle istituzioni come quelli della giustizia, ed invece un mondo che ne avrà sempre più bisogno, sia pure in forme diverse; parzialmente staccate dagli Stati: sovrannazionali, internazionali. Già la presenza dei tribunali internazionali ci annuncia in qualche modo, sia pure soltanto nella veste penalistica, questo bisogno nuovo che circola per il mondo. C’è da trasferire quelle che possiamo definire alcune delle risorse istituzionali del nostro occidente in un mondo più vasto. Non che questo debba significare un imperialismo istituzionale, ma certamente qui abbiamo un’attrezzatura che, con le piegature del caso, con gli adattamenti storici necessari, può funzionare per dare risposta appunto a questo bisogno di mettere in piedi una grammatica dei diritti che non abbia solo valore retorico, ma che sappia risolvere i problemi della società del nostro futuro.

Nell’assetto istituzionale della globalizzazione che si annuncia davanti a noi troviamo una particolare capacità delle istituzioni giudiziarie di adattarsi a questo futuro, perché in un mondo che si dice disegnato a rete le istituzioni giudiziarie hanno già questo tipo di conformazione, sono fatte a rete, sono disegnate in maniera pluralistica, sono capaci di comunicare, nonostante tutti i disastri organizzativi eccetera; però, dal punto di vista della dialettica giurisprudenziale, sono in grado di comunicare reciprocamente e questo anche a livello sovrannazionale. Questo secondo me dà un vantaggio strategico alle istituzioni giudiziarie rispetto a quelle più prettamente politiche che sono invece legate al territorio ed a specificità politiche del territorio.

Da questo punto di vista c’è un secondo vantaggio di cui fruisce l’organizzazione di tipo giudiziario ed è che si va verso un assetto di poteri pubblici, anche sovrannazionali, che è di tipo cheks and ballances, costruito su pesi e contrappesi, su capacità di reciproco bilanciamento. Si è affermato che la Comunità europea può somigliare ad un condominio – è proprio questa una delle tante definizioni che le si sono date – perché in realtà oggi viviamo molto di più, anche all’interno degli Stati, una situazione di tipo condominiale.

Possiamo chiederci: qual è nel nostro paese la situazione dei costi della giustizia male amministrata? Troviamo un’attrezzatura istituzionale capace di affrontare questi cambiamenti, che sono dietro l’uscio? Per trattare il tema dei costi sociali della giustizia occorre partire da una consapevolezza di fondo: questi costi non sono tutti necessariamente visibili, anzi buona parte di essi è invisibile. I costi visibili sono quelli più facili da calcolare, anche i più disperanti, perché, quando abbiamo delle chiarezze davanti a noi, è anche più problematico risalire la china; però l’invisibilità qualche volta ci nasconde anche la verità; comunque la realtà è che ci sono anche molti costi invisibili. I costi di natura economica sono i costi più visibili, anche i più calcolabili: questo significa che, sia pure con molte difficoltà, è possibile calcolare questi costi. Ad esempio, tangentopoli è scoppiata proprio perché c’erano ragioni di insostenibilità dei costi sia per la vita economica estremamente appesantita, sia per la vita politica che registrava una serie di storture che erano costi per il suo funzionamento.

Anche per il cittadino i danni per la mancata riscossione di un credito, per un pagamento non effettuato e così via sono immediatamente calcolabili. Che la giustizia sia una risorsa anche di natura economica è stato chiarito da varie ricerche: ad esempio esiste un filone di ricerca di natura economica detta neoistituzionalista. In particolare, un autore premio Nobel ha fatto approfondite ricerche dalle quali risulta che l’apparato istituzionale di un paese gioca un ruolo fondamentale nel determinare il successo economico di quel paese. Ed in particolare si può ascrivere in buona parte il successo economico degli Stati Uniti alle sue risorse istituzionali, cioè alla capacità di rispondere in maniera rapida, efficiente e ben collegata alle esigenze della vita economica. È stato ad esempio dimostrato che le stesse leggi messe in due paesi diversi funzionano in maniera diversa e la ragione sta nel fatto che ci sono diverse regole del gioco e quindi ci sono diversi modi di portare poi ad effettività quel funzionamento delle leggi. Che cosa è significativa nel portare ad effettività un apparato giudiziario? Il fatto che esso sia ben congegnato. Le corti americane hanno un’enorme importanza proprio sotto il profilo del successo economico perché riducono quelli che gli economisti chiamano i costi di transazione, che in questi casi sono enormemente ridotti dal fatto che diventano subito i sigilli dei diritti; quindi siamo di fronte ad un altro tema di diritti che diventano sigilli.

Ci sono altri tipi di costi, meno calcolabili, più difficili, ma egualmente importanti. È noto a tutti che i costi di natura psicologica, costi di natura umana, di identità, costi di rapporti familiari che si producono quando ci sono disfunzioni della giustizia, quando non si riesce a proteggere da forme di violenza, quando non si riesce a riparare ad alcuni torti subiti e così via, si rivelano poi a raggiera producendo conseguenze economiche ma anche di altro tipo. Questo ad esempio riguarda molto anche i rapporti tra uomo e donna, separazioni, divorzi, mobing, rapporti di lavoro e così via; chiamano in causa costi di natura economica ma anche di natura umana, emotiva. Tuttavia bisogna andare al di là di questo per capire l’entità dei costi. Per esempio, bisogna andare al di là delle valenze strettamente individualiste che poi si producono sulle persone realmente coinvolte in un processo. I risultati giudiziari di un singolo processo hanno rilevanza non soltanto per le persone coinvolte ma anche, più in generale, nello strutturare i futuri rapporti con la giustizia o nello strutturare i rapporti sociali. Il modo in cui una donna viene trattata nel processo per stupro influisce non soltanto nel condizionare i futuri processi che si svolgeranno nella stessa materia, ma anche sul modo in cui quella donna si rapporterà con altre persone.

C’è dunque una valenza educatrice, pedagogica della giustizia, sulla quale è il caso di richiamare l’attenzione. Questa è una valenza, se volete, appiccicata a tutte le istituzioni, che funzionano non soltanto per risolvere problemi ma anche per dare delle indicazioni su come dovrebbero funzionare le cose e quindi da questo punto di vista hanno un’implicita valenza. Vorrei richiamare l’attenzione su un problema che è tipico dell’Italia, e non soltanto. Le istituzioni in qualche modo producono situazioni e sviluppi che dipendono enormemente dalle valenze che riescono a portarsi dietro.

La cosiddetta litigation explosion negli Stati Uniti, questa enorme tendenza delle persone a ricorrere in giudizio per chiedere risarcimenti, tendenza criticata moltissimo ma che rispecchia una capacità notevole di quella macchina giudiziaria di rispondere, non avrebbe potuto aver luogo da qualche altra parte. È accaduta proprio lì – non unicamente perché, come molto semplicisticamente si dice, ci sono molti avvocati, che quindi fanno pressioni per incentivare la litigiosità, ma grazie alla tendenza maggiore nel vedere nelle corti un luogo in cui si difendono i diritti – perché ci sono meccanismi istituzionali come il patto di quota lite che lì è ammesso e qui no, secondo me del tutto ingiustamente, perché allargherebbe l’arco delle opportunità per le persone (qualora non si disponga di risorse economiche immediate) di esigere la riparazione di un diritto. Questo richiederebbe di accostarsi alla professione di avvocato con una forma più imprenditoriale; ora è un mestiere molto più protetto, in cui tabelle alla mano puoi chiedere la tua retribuzione, ma in America non è così. Questo evidentemente espone anche ad una serie di difetti, ad una litigiosità maggiore.

Ci sono molte altre ragioni istituzionali che hanno inciso in quel paese, ma la centralità delle corti mi sembra il primo aspetto. A proposito di questo vorrei tracciare quello che ritengo un costo della giustizia nel nostro paese che vorrei riassumere con la parola panpenalizzazione, per riferirmi alla tendenza che c’è da noi e in altri paesi europei a disegnare la giustizia in termini eminentemente penalistici. Per non essere fraintesa, non voglio dire che i processi penali non si debbano fare né che i mascalzoni non vadano perseguiti; ma nel disegnare il volto delle istituzioni si possono scegliere differenti ricette con dosi variabili. Come dice un grande sociologo, si possono preferire due profili possibili: incoraggiare la virtù o perseguire il vizio. Tutte le istituzioni partecipano di entrambe queste valenze e tuttavia dipende da come vengono coniugate insieme. A me sembra che avere tracciato un volto eminentemente penalistico alla nostra giustizia mal si concili con una modernizzazione dell’immagine della giustizia che deve essere incentrata soprattutto sui diritti, sugli aspetti civilistici. Non soltanto la nostra giustizia civile è stata mortificata con danni economici che avrebbero potuto avere una soddisfazione che non hanno ricevuto, con danni umani, psicologici eccetera in tutte quelle persone che si sono viste non riconosciuti dei diritti, ma questo ha disegnato un volto anche troppo statalista alla nostra istituzione giudiziaria, facendone una istituzione che non ha saputo collocarsi in quel difficile punto di confine tra Stato e società civile, ossia quel punto molto delicato degli equilibri istituzionali.

Spetta proprio alla magistratura muoversi su questo confine incerto che da una parte ha le libertà e dall’altra il potere, confine delicato e difficile. Su questo confine si possono fare due scelte diverse: l’una è quella di appartenere strettamente allo Stato e di porsi come pubblico potere che guarda dall’alto e partecipa di una vecchia idea di sovranità; l’altra è quella di porsi con un volto più domestico, più quotidiano che però è di soccorso alla gente negli affari di tutti i giorni: un’istituzione amica che può essere di aiuto per le persone che abbiano bisogno di vedere affermati i diritti.

Questo mi sembra che sia un problema che ha impoverito la nostra grammatica civile. Bisogna andare al di là dell’immagine panpenalistica della giustizia e della magistratura, lasciando crescere una diversa immagine che si concili con il nostro futuro che speriamo pieno di riconoscimenti per i diritti che non sono appannaggio di molta parte della gente nel mondo.

PAGINE QUATTRO, CINQUE, SEI E SETTE

I COSTI DELLA GIUSTIZIA

Convegno tenutosi in Roma il 22 marzo 2002

STEFANO ZAN. UN SISTEMA COSTRUITO A CANNE D'ORGANO

 

Negli ultimi anni l’organizzazione dei tribunali civili italiani è stata interessata da un profondo processo di informatizzazione che ha interessato tutte le procedure e coinvolto tutte le figure professionali presenti nel sistema, dai giudici ai cancellieri. Tale massiccio processo di innovazione tecnologica ha messo in luce potenzialità e limiti dell’efficacia di un cambiamento della giustizia civile basato esclusivamente sulla dotazione tecnica. In particolar modo l’informatizzazione di uffici e di procedure non ha ridotto i tempi dei processi e non ha sempre sostituito le tradizionali prassi operative burocratiche. Allo stesso tempo, sulla falsariga dell’innovazione, sono state sviluppate nuove esperienze di studio tese a sviluppare l’utilizzo dell’informatica non solo per la gestione delle pratiche e degli archivi ma soprattutto per realizzare il processo civile telematico, ovvero un nuovo sistema di gestione del contenzioso basato su nuove forme e strumenti di relazione fra i protagonisti del processo e nuovi servizi a favore di chi si avvale della giustizia civile. Il progetto di definizione e sperimentazione del processo civile telematico nasce con il dichiarato intento di aumentare significativamente l’efficacia e l’efficienza della gestione del contenzioso. Ciò significa in estrema sintesi ridurre i tempi di durata dei processi e ridurre i costi diretti ed indiretti connessi al sistema di erogazione dei servizi della giustizia. Perché questo possa realizzarsi occorre intervenire non solo a livello tecnologico ma anche a livello strutturale ed organizzativo. Per tale motivo all’analisi propriamente tecnica connessa alla realizzazione del processo telematico è stata associata una analisi organizzativa degli attuali sistemi di gestione della giustizia in uso presso i tribunali italiani, con l’obiettivo di individuare le criticità operative oggi connesse al sistema ed indicare quali percorsi di sviluppo occorre intraprendere a livello organizzativo e professionale a supporto del futuro processo telematico. L’indagine realizzata nel corso dell’ultimo semestre del 2000 ha avuto come oggetto di studio l’organizzazione di due tribunali italiani (Bologna e Rimini), ovvero l’analisi di dettaglio delle modalità operative e di azione dei servizi di cancelleria, dei giudici, degli ufficiali giudiziari, dei servizi di staff. In particolar modo si sono indagate due dimensioni chiave: l’organizzazione dei servizi ed uffici del tribunale civile e l’organizzazione del processo civile. Il sunto dei risultati che si presenta in questo documento sintetizza i risultati dell’analisi effettuata e le relative proposte di intervento.

L’organizzazione del tribunale, le criticità organizzative. I tribunali osservati evidenziano in termini di organizzazione del lavoro una straordinaria e quasi patologica frammentazione delle funzioni e dei compiti in una miriade di uffici ed unità operative che mediamente occupano non più di tre-quattro persone. Tali processi sono figli dell’esigenza di garantire presidio e specializzazione di una pluralità di obblighi di natura tecnica, normativa e funzionale. A fronte di un capillare processo di definizione di compiti e funzioni per ogni ufficio emerge chiaramente una assenza di visione d’insieme, di governo unitario dell’organizzazione, di integrazione dei diversi compiti e professionalità presenti nel sistema. I servizi in entrambi i tribunali osservati, e quindi tendenzialmente a prescindere da contingenze dimensionali, mostrano una attenzione organizzativa estrema a differenziare compiti e funzioni contemporaneamente per giudice, per fase dell’iter processuale, per tipo di attività svolta, per dipendenza dal centro o dai centri del sistema (ministero della giustizia, consiglio superiore della magistratura, altri ministeri), con risultati devastanti per l’ottimizzazione ed il governo delle risorse a livello generale di tribunale. A fronte di tale esasperata divisione dei compiti si osserva una carenza, se non totale assenza, di meccanismi di integrazione e di governo del sistema, di scarso o difficile utilizzo delle funzioni tipicamente di staff, quali la gestione delle risorse tecnologiche, la gestione del personale, la gestione delle strutture. Del tutto assente qualsiasi forma di gestione delle risorse economiche.

L’analisi in termini di differenziazione ed integrazione può essere efficacemente sintetizzata dalla seguente constatazione empirica: ad una straordinaria rigidità centralistica nella definizione delle norme, delle procedure e della allocazione di risorse fa riscontro una straordinaria elasticità adattiva a livello locale e periferico. In effetti ciascun tribunale (con particolare riferimento al lavoro delle cancellerie), così come ciascuna sottounità organizzativa all’interno del sistema, ha utilizzato tutti i possibili criteri di differenziazione dando vita ad una pluralità di microunità o microuffici diversi l’uno dall’altro, ma talmente micro che le operazioni che vi si compiono sono nella stragrande maggioranza dei casi operazioni oggettivamente povere (o banali) con due conseguenze immediate tanto gravi quanto forse non autoevidenti. La prima potremmo definirla come "impoverimento delle mansioni", in totale controtendenza con quanto avviene da anni nel mondo delle imprese, che ha effetti devastanti sulla professionalità, sulle motivazioni, sulla crescita, sulle gratificazioni dei singoli operatori. La seconda è che questo pluralismo dei meccanismi di differenziazione imporrebbe logicamente una maggiore attenzione ai meccanismi di integrazione che invece sono straordinariamente deboli. Non integra la gerarchia, non integra la tecnologia, non integra un management che non esiste, non integrano gli staff che anche quando esistono non riescono a trovare la loro corretta collocazione. L’unico reale strumento di integrazione operante all’interno dei tribunali è di fatto il singolo fascicolo processuale con tutti i limiti operativi che questo comporta. In assenza di altri princìpi di integrazione e sintesi dell’azione di un tribunale è a questo punto facile capire perché tutta l’organizzazione del lavoro sia prevalentemente tarata sulla gestione ottimale e sicura del fascicolo, sul suo presidio, sui suoi spostamenti. Il fascicolo, per gran parte dei protagonisti interni del sistema della giustizia italiana, è l’oggetto ed il fine del loro lavoro. Non il processo o i processi, ma il fascicolo e i fascicoli processuali.

Se guardiamo ai meccanismi di differenziazione nel macrosistema giustizia e non nel singolo tribunale abbiamo una classica struttura funzionale, tipica peraltro delle grandi burocrazie pubbliche: una struttura che comunemente viene definita a canne d’organo. Tutti coloro che a vario titolo svolgono la stessa funzione sono inquadrati all’interno della stessa unità organizzativa e rispondono ad un proprio superiore gerarchico. Le canne d’organo dell’attuale sistema sono assai numerose: ministero delle finanze, ministero della giustizia, consiglio superiore della magistratura, avvocatura. Ma all’interno del ministero della giustizia abbiamo le diverse direzioni generali, che a loro volta si scompongono in sottofunzioni quali: formazione, statistica, informatica, organizzazione eccetera, laddove funzioni originariamente e logicamente di staff diventano delle linee ministeriali. La cosa in sé non sarebbe particolarmente grave se non si basasse su due presupposti empiricamente infondati. Il primo presupposto è quello della buona sintonia e sincronia tra tutte le canne dell’organo. Basti pensare a come avviene il processo di allocazione delle risorse, la mobilità dei giudici, lo sviluppo dell’informatica, la formazione, l’imposizione di nuovi obblighi (fiscali e no), lo sviluppo della statistica, la logistica per rendersi conto del carattere asincrono di questi interventi anche quando, e non sempre avviene, ciascun singolo provvedimento è in sé "perfetto".

Il secondo presupposto è che il singolo tribunale (in metafora la Usl del sistema giustizia) non sia un’organizzazione in sé, ma il semplice accorpamento e riflesso delle macrofunzioni nazionali, che in quanto tale non abbisogna di un presidio gestionale che garantisca la coerenza del sistema a livello locale. Il tribunale quindi non è concepito come un’organizzazione, ma nemmeno come articolazione organizzativa del sistema, bensì al più come spazio fisico (una sorta di condominio) al cui interno abitano (operano) una pluralità di inquilini le cui risorse, prospettive, impegni, retribuzioni, carriera, modalità d’azione dipendono non da un capo di condominio ma da una pluralità di capi lontani che non sempre si parlano tra loro.

La letteratura organizzativa, da almeno cinquant’anni, ha dimostrato che l’idea di fondo sottesa a questa logica organizzativa, ovvero che se ciascuno fa bene il proprio lavoro tutto funziona alla perfezione, è infondata. Al contrario è certo che le grandi strutture funzionali: a) sono esposte alla subottimizzazione delle prestazioni in quanto nessuno è in grado di presidiare e garantire la coerenza orizzontale dell’organizzazione tra i diversi livelli (delle canne d’organo); b) sono strutture incapaci di correggersi in funzione dei propri errori; c) sono lente ed incapaci di apprendere; d) sono incapaci di adattarsi all’evoluzione dell’ambiente; e) sono incapaci di presidiare il risultato.

Ciò è tanto vero che le grandi burocrazie private, ma in alcuni casi anche quelle pubbliche, da tempo hanno optato per altri modelli organizzativi strutturalmente più efficienti ed efficaci come, ad esempio, i modelli divisionali.

I pochi meccanismi di integrazione che abbiamo visto all’opera nel sistema giustizia, tanto a livello macro che a livello micro, non sono in alcun modo in grado di garantire l’integrazione orizzontale, ammesso che garantiscano quella verticale, laddove i meccanismi di differenziazione tendono a parcellizzare, settorializzare, dividere in una pluralità di linee verticali e parallele ciascuna delle quali dotata di proprie logiche, prospettive, modalità di funzionamento.

L’analisi condotta ha peraltro messo in evidenza come l’attuale organizzazione del processo comporti molte diseconomie ed alcune parziali e locali economie. Tra le principali diseconomie ricordiamo: a) il sottoutilizzo delle competenze e delle professionalità che sul versante tanto dei giudici che dei cancellieri porta persone di alta qualificazione professionale ad occupare buona parte del loro tempo in cose futili che attengono molto più a lavori di ordinaria segreteria che non di elaborazione giuridica del processo; b) il plurispostamento fisico dei fascicoli che vengono continuamente archiviati, spostati, registrati, copiati, riarchiviati, riregistrati, rispostati, ricopiati in un continuo peregrinare fisico, materiale e corporeo tra le diverse unità organizzative del sistema, anche quando il valore aggiunto che ne viene al processo è del tutto marginale e richiederebbe solo poche informazioni essenziali; c) la farraginosità dei calcoli, tutti puntuali e mai forfetari o standardizzati, sempre per cifre comunque modeste, che caratterizzano il processo in tutte le sue fasi: dalla notifica all’iscrizione al ruolo, dal deposito delle memorie alla richiesta di copie. d) la scarsa professionalità di una parte non irrilevante degli operatori con particolare riferimento ai giovani di studio che si recano presso le cancellerie e che costringono queste ultime (ma spesso il discorso vale anche per i giudici) o a fornire informazioni elementari o a correggere numerose lacune o errori di forma, di calcolo, di presentazione.

Le economie che si realizzano nell’attuale organizzazione del processo sono il riflesso ed il frutto di quell’elasticità dell’adattamento localistico continuamente osservata. Fenomeni quali la straordinaria efficienza delle giornate di udienza e delle singole udienze, la redazione dei verbali da parte degli avvocati così come la raccolta delle prove testimoniali da parte degli stessi eccetera sono tutti modalità di ricerca immediata di microefficienze. Peccato che queste microefficienze localistiche non solo non risolvono il problema nella sua complessità, ma anzi ne coprono le disfunzioni più evidenti: più ci si adatta a qualcosa che di per sé non funziona, più si mantiene in vita il sistema stesso che in qualche modo e faticosamente sembra comunque funzionare soprattutto agli occhi di chi lo osserva da lontano.

Chi governa questo coacervo di individui, risorse, strutture, ruoli, tecnologie, problemi tanto a livello nazionale che a livello locale? La risposta, sulla carta, è molto semplice: la legge (il codice di procedura civile, i regolamenti, le circolari); il consiglio superiore della magistratura; il ministero della giustizia; il presidente del tribunale. Questa risposta è falsa, ma tutti si comportano come se fosse vera. E se anche fosse vera dovremmo concludere che grazie a questo sistema abbiamo la giustizia che tutti ben conosciamo. Da un lato tutto quanto deve essere fatto, ed il come deve essere fatto, è rigidamente prescritto dalle norme, così come l’allocazione delle risorse viene decisa centralmente dal vertice delle gerarchie; dall’altro lato i giudici, ma anche i cancellieri, i tribunali, gli ufficiali giudiziari, l’ufficio delle entrate, gli avvocati eccetera, godono di amplissima autonomia. Le gerarchie esistono sulla carta ma in molti casi sono gerarchie apparenti (vedi i presidenti di tribunale così come del resto i rettori delle università soprattutto prima dell’autonomia).

Il sistema, da un punto di vista strettamente organizzativo, è apparentemente composto da una pluralità di unità organizzative, i tribunali, caratterizzati da forte indipendenza e da autonomia relativa: indipendenza perché qualunque cosa succeda in un singolo tribunale non si riflette (se non alla lunga e indirettamente) sugli altri. autonomia perché, a fronte di una strettissima dipendenza dalle norme e dai vertici nazionali, nella realtà poi ciascun tribunale si "organizza" come meglio crede con una notevole capacità di invenzione di soluzioni localistiche. È un sistema al contempo centralistico e localistico: tutto viene deciso e progettato al centro, ma poi tutto deve essere gestito a livello locale sotto la responsabilità di figure che, se non casualmente, non hanno alcuna formazione ed esperienza gestionale, tanto è vero che continuano a fare i giudici. La divisione dei compiti al centro di tipo strettamente funzionale (ad esempio tra ministero della giustizia e ministero delle finanze o tra direzioni generali dello stesso ministero) è tale da indurre comportamenti a "compartimenti stagni" che in parallelo si riflettono direttamente sul territorio, sulla periferia, mancando qualsiasi livello intermedio di governo. Se stiamo alla letteratura consolidata probabilmente la definizione più congruente con l’attuale organizzazione della giustizia è quella di "anarchia organizzata".

L’organizzazione del processo: le criticità organizzative. La precisa sequenzialità logica prevista dal codice (citazione, iscrizione al ruolo, udienze, sentenza, registrazione) evidenzia al contempo elementi di eteronomia, separatezza, irrilevanza, isolamento ed automatismo. Per eteronomia intendiamo il fatto che momenti assai rilevanti dell’iter del processo, quali la nascita del contenzioso e la registrazione della sentenza, sono assolutamente fuori del controllo diretto del tribunale e più in generale dell’organizzazione giudiziaria che è organizzazione eteronoma proprio in quanto non governa i flussi in entrata ed in uscita, come vedremo meglio più avanti. Per separatezza intendiamo il fatto che ciascun momento dell’iter processuale (dall’iscrizione alla sentenza) è di fatto separato dagli altri tanto in termini di procedure, peraltro molto simili le une alle altre, quanto in termini temporali. Come ci diceva un giudice, "il fascicolo io lo vedo due volte all’anno" ed in questo lasso di tempo giudice ed avvocati perdono la "tensione" della causa e dei suoi contenuti (umani e sociali ma anche tecnico-giuridici) che diventa inevitabilmente qualcosa di scritto, cartaceo, burocratico e che innesca un circolo vizioso in cui si perde la rilevanza della dimensione dell’oralità e della presenza delle parti.

In questo quadro (flusso sequenziale di eventi) assistiamo da un lato all’isolamento dei singoli attori organizzativi (parti, avvocati, ufficiali giudiziari, cancellieri, giudici) rispetto al risultato fondamentale atteso in termini di "giustizia resa", dall’altro alla perdita del concetto di rilevanza del singolo momento procedurale rispetto all’assunzione della decisione. Tutti i momenti dell’iter del processo sono da questo punto di vista equivalenti e come tali condizionati dallo stesso iter procedurale e dalla stessa presenza del giudice che molte volte più che come giudice è chiamato a comportarsi come notaio, cioè come colui che verifica la correttezza della procedura indipendentemente dalla rilevanza che questa ha per l’assunzione della (sua) decisione. L’assunto di fondo, non scritto da nessuna parte ma che certamente era nell’animo del legislatore, è molto semplice: se le varie fasi del processo vengono pienamente rispettate e ciascuno fa il suo dovere tutto funziona automaticamente. A fronte della palese inefficacia del sistema giustizia le possibilità teoriche sono solamente due: o il legislatore si era sbagliato, oppure c’è qualcuno che non fa il proprio dovere. Sul primo versante vorremmo richiamare l’attenzione del lettore alla ricostruzione fatta nel rapporto di analisi sull’iter di un processo teorico ed astratto estremamente semplice, senza approfondimenti di indagine, senza richieste di rinvio, che rispetta alla perfezione i tempi minimi ed obbligatori previsti dal codice. Orbene, questo processo, che nella realtà non esiste, durerebbe comunque trecentoquarantasei giorni, ferie escluse.

Il problema vero è che il presunto automatismo sulla base del quale il pieno rispetto delle procedure e dei tempi di ciascuna fase porta inevitabilmente al buon (ragionevolmente rapido) esito è storicamente e analiticamente infondato. Se l’intero processo, e non solo le sue fasi formalmente scandite dal codice, non viene governato nella sua interezza, con particolare attenzione ai tempi di attraversamento e cioè a quei tempi duranti i quali la causa è "in transito" da una scadenza all’altra, e se non si comprende appieno il perché della durata dei tempi di attraversamento, la conseguenza è una sola, quella che conosciamo, e non potrà essere diversamente: la forte sequenzialità dell’iter processuale farà sì che a ciascuna scadenza formale si accumulerà un nuovo ritardo in una logica incrementale che è esattamente quella che oggi caratterizza il processo civile.

L’individuazione dei principali processi organizzativi che caratterizzano il contenzioso civile può essere fatta tanto a livello macro che a livello micro articolando i macroprocessi in un insieme di sottoprocessi. In questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni sul piano macrorganizzativo. I principali processi sui quali concentreremo la nostra attenzione sono: a) la costruzione del contenzioso; b) la gestione delle carte; c) i riti che portano alla decisione; d) la decisione; e) la gestione del tempo.

La costruzione del contenzioso. In molti casi si accede alla giustizia non perché si tratta di decidere chi ha ragione e chi ha torto ma semplicemente per fissare l’ammontare della cifra dovuta, oltretutto secondo parametri dati, o per ottenere l’esecuzione di un diritto già attestato. Per tutti questi casi che hanno un’incidenza quantitativa assai rilevante è veramente indispensabile il giudice classico e l’insieme delle procedure e dei riti ad esso connesso oppure sarebbero possibili altre soluzioni (riti alternativi) che mantenendo il principio di terzietà ed equità potessero essere più rapide, efficienti ed efficaci, liberando in questo modo il giudice da un carico di lavoro tanto impegnativo quanto poco significativo? Siamo pienamente consapevoli che ci siamo avviati su un terreno minato che facilmente presta il fianco ad accuse di superficialità, leggerezza, violazione dei più sacri princìpi del diritto da parte di giudici, avvocati, esperti. E non vogliamo, e non possiamo, entrare nel merito delle soluzioni. Ma un dato è certo da un punto di vista organizzativo: se non diminuisce la quantità di contenzioso che entra nel sistema giudiziario non c’è tecnologia, o riforma, o aumento degli organici che tenga: il sistema sarà sempre intasato. Il tribunale, come il carcere, come l’ospedale, è una di quelle organizzazioni che non devono fare marketing per aumentare il numero dei "clienti"; anzi, al contrario, devono scoraggiare tutti coloro che non ne hanno veramente bisogno dall’accedere alle loro strutture. Perché un ospedale possa curare al meglio i malati gravi è indispensabile che i malati lievi o i non malati non entrino in ospedale e vengano curati in altri luoghi, con altri metodi, da altre figure. Il primo problema è dunque quello della predisposizione di filtri organizzativi che riducano la quantità di contenzioso in entrata. Le strade praticabili sono fondamentalmente due, non alternative l’una all’altra: la prima è quella della individuazione di riti alternativi che collochino in altra sede, rispetto al tribunale, la soluzione delle dispute; la seconda è quella dell’individuazione all’interno del tribunale di percorsi alternativi, con l’apporto di figure professionali capaci di "sostituire" almeno in parte il giudice che in quei contesti, e solo in quelli, svolgerebbe una funzione di certificatore-garante piuttosto che di "produttore" in prima persona.

La gestione delle carte. A prescindere dal tipo di rito, dalla fase del processo, dalla natura della decisione, il processo civile (oggi) comporta una "gestione delle carte" davvero imponente che richiede l’impiego consistente di tempo e uomini tanto dentro il tribunale che fuori ed è causa continua di errori, ripetizioni, smarrimenti, come abbiamo già visto. Per gestione delle carte intendiamo quell’insieme assai vario ed articolato di momenti in cui la carte vengono prodotte, registrate, archiviate, copiate, inviate, rese pubbliche eccetera. Che si tratti di notifica, iscrizione a ruolo, presentazione di memorie, provvedimento, scarico di udienza, convocazione eccetera è in questa sede abbastanza irrilevante. ciò che conta è la materialità cartacea in cui si esprime un qualsiasi atto, materialità che impone una continua e reiterata manipolazione del fascicolo, come pure abbiamo visto.

I riti che portano alla decisione. Per riti che portano alla decisione intendiamo in termini organizzativi quelle scadenze formali, previste dal codice, che mettono il giudice a confronto diretto con gli avvocati e, occasionalmente, con le parti. Sono sostanzialmente identificabili con le udienze e con le loro numerazioni di gergo tratte dagli articoli del codice di procedura civile: 180, 183, 184. Anche se esistono differenze in alcuni casi sostanziali per tipologia di processo (lavoro, fallimentare, famiglia eccetera) alcune considerazioni di carattere generale possono essere fatte per tutti i tipi di processo.

Intanto tutto il meccanismo si basa su una sorta di paradosso di fondo. L’udienza dovrebbe essere, per definizione, il luogo dell’oralità, del confronto diretto, del rapporto faccia a faccia tra giudici, avvocati e parti. Ma tanto i giudici che gli avvocati dichiarano apertamente che il processo civile ormai è un processo scritto (normalmente senza la presenza delle parti). Se questo è vero non si capisce però a cosa servano le udienze o buona parte di esse. In molti casi, a detta degli stessi operatori, non sono altro che momenti rituali che servono a fare il punto della situazione, a tentare improbabili conciliazioni, a rinviare il processo ad altra data. In molti casi non servono in alcun modo a formare il convincimento del giudice che o ha già deciso prima dell’udienza sulla base delle memorie presentate oppure aspetterà di leggersi tutto il fascicolo quando sarà il momento di scriversi la sentenza. Perché in molti casi, come abbiamo avuto modo di constatare, tanto i giudici che gli avvocati si presentano impreparati all’udienza con gli avvocati che si gettano letteralmente sul fascicolo per rinfrescarsi la memoria? Perché tanto la preparazione non serve più di tanto: l’udienza è un rito che va comunque celebrato; il suo esito normale è il rinvio fino al momento in cui si assumerà la decisione finale. Attenzione, perché qui stanno le vere cause della lunghezza dei processi: il rinvio è legato alla agenda del giudice ed ogni rinvio è un’incombenza che costa tempo e va a sommarsi agli altri impegni del magistrato e pertanto il rinvio rimanda non a giorni o settimane ma a mesi ed anni. Il problema è davvero centrale e cruciale e ovviamente non può essere risolto dallo studioso di organizzazione che si limita a raccontare i fatti e le opinioni degli attori e a porre alcuni interrogativi, forse disarmanti nella loro banalità apparente, ma altrettanto rilevanti nelle implicazioni organizzative.

A cosa serve veramente rispetto al formarsi della determinazione del giudice la singola udienza? Ammesso che l’udienza serva come momento formale per il perfezionamento del processo è sempre indispensabile il giudice? È indispensabile un’udienza per far giurare i Ctu (che sono iscritti all’albo) e per porre loro i quesiti? I testimoni non potrebbero essere sentiti, almeno in alcuni casi, dal cancelliere (visto che già oggi sono sentiti dagli avvocati in assenza del giudice)? Le domande potrebbero continuare a lungo, ma la domanda di fondo resta sempre la stessa: a cosa servono questi riti, quale valore aggiunto creano rispetto alla soluzione del problema? Se servono alla costruzione della determinazione del giudice o comunque alla soluzione del conflitto tramite conciliazione ben vengano. Ma se così non è e quando non è così perché insistere e perseverare ben sapendo che qui si gioca in larghissima misura la durata dei processi? Anche se è vero, come ci diceva un giudice, che "esiste una gestione strategica del contenzioso che influenza pesantemente la gestione giudiziale dello stesso, per cui non è corretto misurare sulla seconda i tempi della prima", è altrettanto vero che la sequenzialità logica e cronologica dei riti comporta scadenze e rinvii che si sommano l’uno all’altro. Attenzione: l’osservazione delle udienze dimostra che l’udienza in sé, così come la giornata di udienze, ha ormai raggiunto tali livelli di efficienza (numero di udienze per mattinata e durata delle singole udienze) che non sono in alcun modo incrementabili a prescindere dalle innovazioni tecnologiche. Già oggi infatti c’è da chiedersi quanto cerimoniali così intensi, uno dietro l’altro, spesso caotici, in sé apparentemente efficienti, servano al giudice e più in generale all’efficienza dell’intero processo. Certamente non è la somma dell’efficienza delle singole udienze (ma anche dell’Unep, dell’iscrizione al ruolo, del lavoro delle cancellerie) che porta all’efficienza del processo. Non c’è dubbio che le grandi organizzazioni, in particolare quelle pubbliche, hanno bisogno di riti e cerimonie che ne confermino la sacralità; ma gli attuali riti e le attuali cerimonie, legate ad una logistica povera quando non miseranda, danno l’idea di tutto fuorché della sacralità del luogo e del momento. Su questo versante le tecnologie nulla possono: è un problema essenzialmente di codice di procedura e di rapporto giudici-avvocati; ma se non si cambia questa importante componente del processo civile tutto il resto rischia di servire a poco e di venire mortificato nelle sue potenzialità. In definitiva, i tempi dell’input (articolo 180 c.p.c.) sono inferiori ai dieci minuti. I tempi dell’output (sentenza), senza considerare tutto ciò che avviene tra input ed output, sono superiori alle tre ore: un rapporto di uno a diciotto. Se anziché di produzione di sentenze parlassimo di produzione di automobili, mantenendo lo stesso rapporto tra input ed output, i tempi per la costruzione di una singola vettura si attesterebbero nel medio periodo sui dieci anni.

La decisione. La decisione intesa in questa sede come sentenza è l’atto finale del processo, il suo output principale anche se non l’unico. La sentenza si compone di due parti: la decisione vera e propria e la registrazione e pubblicazione. In nessun modo vogliamo insegnare qualcosa ai giudici; ma non possiamo non rilevare che la redazione della sentenza in termini organizzativi costituisce un vero e proprio collo di bottiglia nel fluire del processo. Sarebbe estremamente importante se i giudici confrontandosi tra loro, perché solo loro possono affrontare questo problema, trovassero delle soluzioni per ridurre i tempi di redazione della sentenza: se infatti si raggiungesse per le sentenze la stessa efficienza che si è realizzata per le udienze, avremmo risolto una parte consistente dei problemi. Ma forse le due cose non sono slegate.

Il secondo momento topico è quello della registrazione della sentenza e del calcolo di quanto dovuto all’erario. Anche se in questa ricerca non ci siamo occupati direttamente della cosa valgono sempre i dati e le informazioni raccolte nelle ricerche precedenti. Qui il problema si fa delicato perché il fascicolo (fisicamente inteso) ed il problema passa da un’amministrazione dello Stato (la giustizia) ad un’altra (le finanze). Ed in questo passaggio registriamo spesso uno degli aggravi di tempo più pesanti. Com’era per molti versi naturale ed inevitabile, data l’organizzazione del lavoro e la divisione dei compiti, le finanze hanno proceduto e procedono alla razionalizzazione delle loro strutture, delle loro metodologie di lavoro, delle loro dotazioni tecnologiche in ragione dei loro obiettivi ed esigenze: fin qui niente di male; senonché non si sono preoccupati (ma se ne sono mai accorti?) che così facendo avranno anche ottimizzato la maggior parte delle loro procedure, ma di sicuro hanno reso un pessimo servizio all’amministrazione giudiziaria. Il problema, dal punto di vista organizzativo, è molto semplice e richiede soltanto una programmazione congiunta di quella (piccola) parte delle due amministrazioni le cui attività si sovrappongono e si intersecano. Certo, se ognuna procede per conto proprio e costringe l’altra ad adattarsi in qualche modo alle sue scelte la soluzione sarà ancora una volta subottimale. Di fronte a certe evidenti discrasie che hanno pur nella loro banalità enormi riflessi disfunzionali viene da chiedersi se ministri e ministeri diversi parlino mai tra loro.

La gestione del tempo. Dal punto di vista logico concettuale non avrebbe alcun senso considerare la gestione del tempo come un processo organizzativo a sé stante, in quanto la dimensione temporale accompagna e si intreccia naturalmente con ciascun singolo processo organizzativo analizzato. Nel caso della giustizia però la sequenzialità e la separatezza delle diverse fasi dell’iter processuale, unite alla evidenza empirica che la gestione sostanzialmente efficiente delle singole fasi non porta ad un risultato efficiente in termini di durata complessiva del processo, inducono a ritornare brevemente sulla questione tempo. In altra sede abbiamo distinto i tempi del processo in: tempi giuridici, cioè quei tempi minimi-massimi definiti dal codice di procedura; tempi tecnici, cioè quei tempi che sono tecnicamente necessari per perfezionare ogni singola operazione; tempi "politici", cioè quei tempi che utilizzano gli avvocati tra loro per "giocare" il loro ruolo; tempi di attraversamento, cioè quei tempi che intercorrono nel passaggio del fascicolo da una fase all’altra ed in cui non succede nulla; tempi "altrui", cioè quei tempi che, pur essendo rilevanti per la durata del processo, non dipendono minimamente dal giudice. Il dato più significativo sul quale riflettere è la natura di questi tempi e soprattutto il loro effetto sistemico. I tempi "altrui" condizionano il processo all’inizio ed alla fine dell’iter. Quali e quante cause vengono iscritte a ruolo e portate in prima udienza non dipende in alcun modo dal tribunale che si limita a redistribuire il numero delle cause sui magistrati esistenti in organico. La registrazione delle sentenze dipende, in termini temporali, dall’organizzazione e dal carico di lavoro della sede periferica dell’ufficio delle entrate. Su questo nulla può il tribunale. Bisogna allora concentrare l’attenzione sui tempi di attraversamento che sono legati da un lato alle richieste di rinvio che spesso le parti formulano e dall’altro, soprattutto, all’agenda del giudice.

Chi ritiene che la colpa della durata dei processi sia da attribuire alla scarsa produttività dei singoli giudici, così come chi ritiene che tutto si risolverebbe aumentando il numero dei giudici, forse non ha fatto bene i conti. Proviamo a farli noi procedendo per stime, forse grossolane, derivanti comunque dall’osservazione diretta e dal confronto con numerosi giudici. Supponiamo che un giudice parta da zero, o perché è appena stato assegnato a quel tribunale o perché, se donna, rientra dalla maternità. La settimana tipo prevede: tre mattine di udienza, di cui una mezza mattinata per le prime udienze e le altre per tutti gli altri tipi di udienza; un pomeriggio per attività di collegio o comunque per cose da fare in tribunale; il resto del tempo per scrivere sentenze. Nella prima settimana, nel giorno di prima udienza, il giudice si troverà di fronte un numero consistente di cause che, per comodità di ragionamento, fissiamo in venticinque (in realtà abbiamo osservato situazioni con dati molto superiori). Supponiamo che, rispettando tutti i tempi previsti dal codice, riesca a portare avanti in parallelo, utilizzando le altre due mattinate di udienza, le venticinque cause. La supposizione non è del tutto infondata anche se costringe ad udienze sempre molto veloci in cui non è possibile perdere tempo ed in caso di problemi si è costretti al rinvio per rispettare l’agenda di udienze prevista per ogni singola giornata.

Così facendo, a distanza di circa un anno (tempo minimo previsto dall’attuale normativa), il giudice avrà portato a termine l’iter delle venticinque cause iniziate nella sua prima settimana di lavoro. A quel punto deve scrivere le relative sentenze: diciamo venti perché in itinere cinque cause hanno trovato altra soluzione. Il tempo necessario per scrivere venti cause può ovviamente variare in base a tanti fattori ma comunque, anche solo come impegno "materiale", difficilmente scende sotto le tre-quattro ore. Con gli impegni che comunque continuano in tribunale diciamo che abbia a disposizione circa venti ore alla settimana per scrivere sentenze per un totale di cinque-sei sentenze. Se fino a questo momento era riuscito a mantenere in parallelo le venti cause, adesso è costretto a metterle in sequenza impiegando almeno quattro settimane per scrivere tutte le sentenze delle cause che avevano preso avvio nella sua prima settimana di lavoro. Ma nella seconda settimana avevano preso avvio altre venticinque cause, così come nella terza e nelle successive. Nella migliore delle ipotesi, se tutto fila liscio (e sappiamo che così non è), ad ogni nuova settimana di udienza si somma, strutturalmente, un mese di ritardo. Se a questo aggiungiamo le ferie, le malattie, l’aggiornamento professionale, la vita associativa eccetera, che sconvolgono da questo punto di vista l’agenda del magistrato e comportano ulteriori rinvii, si capiscono facilmente alcune cose: la lunga durata dei processi è strutturale, in quanto dipende dall’attuale struttura del processo civile tanto nelle sue componenti giuridiche che nelle sue componenti organizzative; l’innovazione tecnologica, di per sé, poco può fare per modificare la situazione; se si vuole risolvere il problema aumentando il numero di giudici bisogna avere la consapevolezza che, lasciando inalterate le altre condizioni, bisognerebbe disporre di un numero di giudici di quattro-cinque volte superiore all’attuale (e non del più 10 per cento attualmente previsto).

Il ruolo dell’informatica. L’informatizzazione della pubblica amministrazione in generale, e della giustizia in particolare, può rappresentare una svolta veramente epocale; non si tratta infatti di un semplice aggiornamento degli antichi strumenti di lavoro: si tratta di un’occasione unica per ripensare l’organizzazione (pubblica) con una maggiore attenzione al risultato. A questo punto è possibile e necessario puntare ad una informatizzazione integrale, accelerando gli interventi in termini di diffusione tanto orizzontale (territorio) che verticale (per fasi o tipologie del processo) per sfruttare al massimo quanto la tecnologia può dare. Per meglio comprendere queste potenzialità e per comprendere cosa cambierebbe (o non cambierebbe) rispetto alla situazione attuale utilizziamo la "prospettiva dell’alpinista" e immaginiamo quale potrebbe essere la situazione fra cinque-dieci anni a processo telematico realizzato.

Il fascicolo virtuale vive nei computer degli avvocati, dei giudici, del tribunale e, per quello che serve, degli ufficiali giudiziari e del ministero delle finanze; tutte le transazioni ed il passaggio di informazioni avvengono per via telematica; non c’è più bisogno di sportelli, code, archivi (fisici), mobilitazione continua e materiale dei fascicoli. Non solo non si perde rispetto ad oggi alcuna informazione, ma tutto è più facilmente disponibile per chi vi debba operare e si riducono enormemente i rischi di smarrimento. In termini di risorse umane verrebbero liberate tutte quelle persone che oggi debbono manipolare fisicamente il fascicolo senza apportarvi alcun valore aggiunto rispetto all’andamento del processo: dalle dattilografe ai commessi, agli uffici copie, al modulo 12, a buona parte del personale di cancelleria. È altresì vero che dovranno però aumentare gli addetti all’assistenza e consulenza del sistema.

I risparmi di tempo, uomini, spazi fisici e quindi, alla lunga, di denaro non sono facilmente quantificabili, anche perché nel breve devono scontare massicci investimenti in tecnologia e formazione, ma sono nel medio-lungo periodo certamente molto consistenti. Attenzione però: allo stato attuale delle cose il tempo che verrebbe risparmiato su una singola operazione del processo non avrebbe alcuna incidenza diretta sulla durata del processo. Già oggi infatti ufficiali giudiziari, iscrizione al ruolo, carico e scarico delle udienze eccetera avvengono normalmente rispettando i tempi previsti. Non è qui che sta la causa della lunghezza dei processi e non è accorciando questi tempi che si risolve il problema.

La riduzione della durata dei processi che potrebbe derivare indirettamente da una informatizzazione spinta è legata a tre dimensioni molto diverse tra loro che devono essere verificate empiricamente restando per ora allo stato di ipotesi: plausibili, ma pur sempre ipotesi. La prima dimensione è abbastanza evidente ed attiene ad un utilizzo diverso del personale che verrà liberato dalle incombenze di gestione delle carte. Buona parte di questo personale potrebbe essere utilizzato per supportare il giudice nella preparazione e nella gestione delle udienze nonché nella redazione delle sentenze, svolgendo un ruolo molto più ricco ed intelligente rispetto all’oggi. La seconda dimensione è più complessa: attiene alla sfera cognitiva ed ha una prospettiva temporale di più lungo respiro. L’ipotesi, peraltro già in parte avanzata e verificata in letteratura, è che scrivere al computer e comunicare attraverso il computer comporti non solo un modo fisicamente diverso di scrivere, ma anche l’utilizzo di nuove e diverse modalità di espressione. Se questo è già oggi evidente nella posta elettronica, nelle chat line, nei messaggi Sms, che stanno rapidamente semplificando e rendendo essenziale il linguaggio in conformità alla velocità del medium, forse è possibile ipotizzare che anche gli amanti delle argomentazioni barocche e sofisticate, quali sono per cultura gli operatori del diritto, almeno inconsapevolmente, saranno portati a ridurre all’essenziale le loro argomentazioni. Del resto, potendo avere il fascicolo sul loro schermo, possono giocare di taglia e incolla, di riferimenti rapidi a precedenti, a cose già richiamate in altra parte del testo virtuale e facilmente e rapidamente leggibili. Alla lunga questo potrebbe ridurre notevolmente la quantità di informazioni veicolate per arrivare alla redazione di sentenze molto più stringate ed essenziali di quanto non siano oggi. La terza dimensione, strettamente connessa alla seconda, è di carattere culturalee: la continua ma facile e rapida interazione telematica tra giudici ed avvocati attraverso l’utilizzo di un sistema intelligente che consente di consultare in tempo reale ed in parallelo sentenze, precedenti, richiami, orientamenti del giudice e del tribunale potrebbe consentire di ridurre al minimo la ricchezza spesso solo formale delle argomentazioni per concentrare l’attenzione degli operatori del diritto sulla sostanza dei problemi. Non si tratta quindi solo di nuovi linguaggi ma anche dello sviluppo di nuove culture organizzative che emergono più facilmente dalla fertilizzazione incrociata consentita dal medium.

I vantaggi che potrebbero derivare da una massiccia informatizzazione sono talmente tanti che, se anche non sono e non saranno risolutivi nel breve periodo, vanno perseguiti ad ogni costo con massicci e mirati investimenti. Utilizzando come riferimento un contenzioso ordinario di primo grado, se si calcolasse il tempo che tanto gli operatori che gli utenti (gli avvocati) sono costretti a perdere per fare i calcoli ed effettuare i pagamenti e si desse a questo tempo il suo giusto valore economico, probabilmente si scoprirebbe che un processo completamente gratuito (escluse ovviamente le implicazioni economiche delle sentenze) sarebbe alla fine meno costoso, per il sistema complessivo, di quanto non sia oggi.

PAGINA QUATTRO

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Collana Legale 2003

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PAGINA SEI

I COSTI DELLA GIUSTIZIA

Convegno tenutosi in Roma il 22 marzo 2002

PASQUALE LICCARDO. PROCESSO CIVILE: IL MODELLO ORGANIZZATIVISTA DI BOLOGNA

Un ripensamento organizzativista ha portato alla nascita di una nuova idea di processo in un campo in cui oggi i costi vengono sempre più definiti dai soggetti partecipi del processo come costi insostenibili. Ci sono studi della Bocconi sul processo esecutivo immobiliare in cui vengono evidenziati i costi. Vediamo il fattore tempo (studio di Capponi del 1993) Il processo esecutivo dura in media cinque anni e sei mesi in Italia, due anni e tre mesi in Olanda, un anno in Gran Bretagna, diciotto mesi in Germania eccetera. C’è una differenza di produttività del sistema per quanto riguarda il recupero dei crediti, che viene stimato in cinquecento milioni di lire annui. Se li moltiplicate per un’estensione temporale lunga di sofferenza del processo esecutivo, vedete che questo costo diventa estremamente pesante. Avevamo un modello di processo costruito su idee molto forti da parte del legislatore del 1942. È un modello forte (c’è l’udienza di prima comparizione, l’udienza di giuramento del Ctu, l’udienza della vendita con il sistema dell’incanto). È un modello che produce una dimensione temporale di estrema criticità dal punto di vista della sua gestione. Rende interlocutoria ogni attività decisionale posta in essere dal giudice.

Il sistema del processo esecutivo impatta fortemente con il mondo del mercato nel momento della vendita. La vendita con incanto è il momento in cui il giudice ordina che l’immobile abbia a trovare sul mercato la relazione, l’interessamento e quindi l’aggiudicazione. Eppure il sistema di vendite con incanto conosce solo una relazione episodica con il mercato. Il modello ereditato dal legislatore del 1942 prevede che il giudice determini il giorno, l’ora, il minuto in cui l’immobile incontrerà il mercato e ci si aspetta che il mercato risponda esattamente a quanto disposto nell’ordinanza di vendita. È un meccanismo falso. L’idea che il processo esecutivo abbia al suo interno la razionalità economica del mercato è contraddetta da due elementi.

Il primo riguarda il sistema informativo, il sistema delle fonti sulle quali si basa il processo esecutivo. Il processo esecutivo può giungere alla relazione con il mercato sulla base di fonti primarie che consistono nei registri di conservatoria e che sono ritenute sufficienti per determinare una relazione con il mercato. Sappiamo quanto è pesante e costoso acquisire queste informazioni, soprattutto se guardiamo a tutta l’evoluzione che c’è stata in relazione all’articolo 567 del codice di procedura civile. Ci sono voluti un sacco di decreti e leggi per riparare, per intervenire nel campo dell’acquisizione delle informazioni.

Nel nostro sistema di processo si può procedere alla vendita ex articoli 567 e 568 del codice di procedura civile sulla base della semplice acquisizione di informazioni di conservatoria e sulla base di un’operazione matematica (l’intervento di un esperto avviene solo in casi eccezionali, costituisce una deroga alla regola generale): moltiplicare la rendita catastale per un coefficiente determinato dal legislatore. Sulla base di tutto questo il legislatore prevede che il processo esecutivo incontri il mercato in quel giorno, in quell’ora, a quell’udienza che il giudice ha predeterminato, quasi ci fosse una sincronia tra tempi del processo e tempi del mercato. Ma questa costruzione crolla, si interrompe come modello quando inizia la crisi del nostro sistema di informazioni. Basti pensare al diritto di famiglia e a cosa significano dal punto di vista del diritto le risultanze della conservatoria. La comunione legale dei beni interrompe il carattere significativo univoco dell’informazione della conservatoria, ma soprattutto, dopo la legge n. 47 del 1985, le condizioni di concreta disponibilità dell’immobile.

A Bologna nel 1994-1995 abbiamo misurato il tempo della dimensione complessiva dello scambio, raffrontato con la vendita commerciale. La vendita commerciale è uno scambio anticipato: il preliminare ha sostituito la vendita e lo scambio successivo, la rogitazione finale. Le parti arrivano prima ad essere sicure dello scambio; la rogitazione non è altro che la consacrazione finale dell’imposizione tributaria, fiscale. Nella vendita coattiva invece la dimensione dello scambio è uscita completamente dal processo esecutivo: il giudice vende nello stato di fatto e di diritto in cui l’immobile si trova (questa dimensione né celeste né terrena in cui l’immobile si trova) non preoccupandosi di quella che potrebbe essere la dimensione effettiva, quando e come verrà assicurato lo scambio del prezzo con la casa. A Bologna per entrare in possesso dell’immobile una volta intervenuto il decreto di trasferimento in media ci volevano due anni e sei mesi. Il nostro modello di processo esecutivo è stato superato dalla dimensione complessiva della nostra economia; va ripensato con una razionalità che si faccia carico di governare e acquisire la qualità delle informazioni e cercare una relazione con il mercato non più episodica, non più predeterminata solo dal giudice, ma riorganizzata in ordine alle reali aspettative dell’utenza.

Come mai il processo esecutivo, che vede i migliori professionisti della nostra società che sono magistrati, avvocati, consulenti iscritti in particolari albi del tribunale, notai, nonostante ciò produce un’irragionevolezza temporale e anche economica? Ci vuole un ripensamento sul modello generale. La legge n. 302 del 1998, che ha permesso anche ai notai di partecipare a questo processo, non ha ripensato l’intero processo: ha effettuato un ripensamento solo in relazione al soggetto che lo attua e non in relazione alle funzioni che all’interno del processo vengono esercitate. Ecco perché a Bologna siamo partiti nel 1996 con il modello della vendita senza incanto. È diventato ora uno standard che in qualche modo si sta diffondendo sempre più nei tribunali da un punto di vista generale. È un processo che conosce non solo l’acquisizione della documentazione notarile, com’è d’uso, ma ex articolo 213 l’attivazione da parte del giudice su fonti informative estremamente qualificate, per cui si arriva ad un’udienza che non è il vuoto simulacro di un incontro ma il luogo in cui si definiscono conflitti, si elaborano informazioni qualificate in ordine alle condizioni di alienabilità degli immobili.

Il secondo elemento che contraddice l’idea che il processo esecutivo abbia al suo interno la razionalità economica del mercato è costituito dalla vendita con incanto che, essendo fissata ad un’udienza lontana per il carico dei ruoli, non incontra il mercato in quell’udienza ma solo al terzo, quarto esperimento d’asta, secondo la dimensione fisiologica dell’apertura del mercato. A Bologna il modello è cambiato a norma invariata: non abbiamo avuto nemmeno un’opposizione agli atti esecutivi nel passaggio dalla vendita con incanto alla vendita senza incanto proprio per la centralità del processo, intesa come luogo di definizione di conflitti e di acquisizione selettiva di informazioni che venivano in qualche modo ad essere esaltate anche dalla qualità dei risultati.

Sotto il profilo dei costi del processo, i due sistemi messi a confronto denunciano un calo dei costi sostenuti dal processo del 2 per cento, una riduzione importante dei tempi di esitazione degli immobili, che passano in media da quattro anni e sei mesi ad un anno e sei mesi, e soprattutto un incremento percentuale medio in cinque anni di quasi il 20 per cento rispetto al prezzo base d’asta, laddove la vendita con incanto registrava una perdita sul prezzo base d’asta di quasi il 10 per cento.

Dal punto di vista generale questo è il sistema che si riesce in qualche modo a definire come modello di processo. Possiamo pensare ad un processo esecutivo che assuma delle logiche di azione completamente diverse, rimanendo immutato il simulacro, la successione temporale di quelle udienze. Dobbiamo avere riguardo ad una tecnologia che ci consente di acquisire e di processare informazioni qualificate senza che ci sia la necessità di un’intermediazione non qualificata né tanto meno sostenibile dal punto di vista dei costi. Faccio soltanto un riferimento: non capisco perché l’autorità giudiziaria per conseguire informazioni presso un’altra amministrazione dello Stato debba, per inefficienza della conservatoria, acquisirle per il tramite di un soggetto qualificato e non possa invece acquisirle nell’immediatezza per il tramite telematico, per far sì che i tempi di acquisizione delle informazioni possano essere in qualche modo non più così lunghi ed elevati dal punto di vista generale e non più così costosi dal punto di vista della loro gestione. Dobbiamo acquisire altre informazioni perché non bastano più solo le informazioni della conservatoria. Gli archivi dei condoni edilizi dei comuni finiscono per essere un’informazione indispensabile da dover essere acquisita per poter giungere ad una vendita dell’immobile; così le informazioni relative all’occupazione degli immobili, proprio perché questo permette di raggiungere quella condizione di alienabilità dell’immobile che di fatto nelle nostre vendite con l’incanto non veniva garantita. Dobbiamo cercare nel processo esecutivo di interrompere il fenomeno di esternalizzazione acritica. Spesso riscontriamo che tutti i soggetti che partecipano a questo processo provvedono al loro compito senza farsi carico della funzione, della missione, del governo del processo medesimo. Il consulente, il notaio, il giudice, l’avvocato partecipano alla successione consequenziale delle loro attività senza avere visione della funzione complessiva. Un dato per tutti: il Ctu che stima l’immobile e si disinteressa della relazione con il mercato; ma proprio dalla stima più elevata che ha effettuato il Ctu emerge il carattere diseconomico della vendita coattiva come realizzato nella vecchia gestione.

Bisogna giungere alla rottura del sistema delle esternalizzazioni acritiche e all’apertura a un sistema di governo del processo, perché c’è uno spazio, ancora molto ampio, di recupero di efficienza e produttività del sistema. Questo può avvenire solo se ragione economica, ragione processuale, ragione tecnologica, ragione organizzativa ripensano il processo. Dobbiamo avere chiaro che i sistemi complessi non cambiano né per virtù né tanto meno per illuminismo: possono cambiare solo se a questi sistemi si guarda nella loro reale complessità e con la funzione di garantire i loro diritti e il contenuto sociale della loro azione.

PAGINA SETTE

I COSTI DELLA GIUSTIZIA

Convegno tenutosi in Roma il 22 marzo 2002

ALFREDO GALASSO. LA CENERENTOLA DEL BILANCIO

I costi della giustizia per lo Stato italiano rappresentano la cenerentola del bilancio; quando si è superato l’1 per cento del bilancio si è detto che si è raggiunto un risultato straordinariamente elevato. Pertanto questi costi nell’ambito di un bilancio complessivo non possono considerarsi elevati, mentre mi sembra che siano molto elevati i costi per gli utenti, cioè i cittadini che si rivolgono alla giustizia per l’affermazione di alcuni diritti. Quando si parla di costi della giustizia bisogna mettere, per esempio, i costi dell’amministrazione penitenziaria, delle carceri. Ricordo che vent’anni fa al Csm, quando si era presentata l’urgenza di procedere a una revisione dei tribunali e delle preture per risparmiare energie e fondi pubblici, non si riusciva mai a far nulla a causa delle spinte campanilistiche, che hanno sempre impedito che si eliminasse il tribunale di Sciacca o quello di Camerino.

Vengo ad alcuni punti interessanti. Sulla abolizione del divieto del patto di quota lite sono tendenzialmente d’accordo, perché ciò può favorire l’accesso alla giustizia; ma è anche un problema di deontologia professionale. Allora non si può dire che non si può fare perché c’è l’avvocato che si prende 650 milioni su 700, perché se è così questi viene cacciato dall’avvocatura. Personalmente ho assistito persone che inizialmente non avevano un soldo per investire in una speranza, in una prospettiva ragionevole di ottenimento di un diritto al risarcimento del danno; qualche volta è andata bene altre no, ma ho esperienza di una facilitazione del cittadino all’accesso alla giustizia. Una cosa quindi è la deontologia professionale, altra è il patto di quota lite in sé, perché a mio parere ci sono delle ideologie poco nobili degli avvocati dietro il patto di quota lite.

Riprendendo gli spunti della relazione del professore Zan sulla riduzione del contenzioso, credo che ci siano due settori affidati impropriamente alla giurisdizione, che sono l’esecuzione e il fallimento. Qual è la ragione per cui l’esecuzione e il fallimento debbono essere affidati alla giurisdizione? Già anni fa credevo che al notaio potesse essere affidato il compito più consistente del controllo di legittimità, prevedendo il diritto delle parti coinvolte di rivolgersi al giudice qualora credessero che vi fosse lesione dei propri diritti soggettivi. C’è stata una resistenza durissima della magistratura ad una proposta di questo tipo.

Veniamo al modulo procedurale: dobbiamo ricordare che il processo del lavoro quando è entrato in vigore ha realizzato punti notevoli di efficienza anche se è costato qualcosa allo Stato, perché c’era alla base una idea forte: l’idea della oralità e della immediatezza che doveva passare da lì all’intero processo civile. È accaduto il contrario: la vecchia ideologia di tipo formalistico e burocratico del processo civile ha invece fagocitato via via anche il processo del lavoro. Questo bisogna ricordarlo perché, se l’esperto dell’organizzazione richiama noi giuristi sul problema della oralità, vuol dire che è un problema di efficienza oltre che di efficacia dello svolgimento dell’attività processuale; al tempo stesso è un principio basilare di riforma.

Ricordiamoci che c’è stata una corrente di pensiero – poi tradotta in prassi giudiziaria in America – che va sotto il nome di analisi economica del diritto, che si fondava sul rapporto con questi benefici, non soltanto di natura economica ma anche di natura sociale. Le ultime recenti letture mi portano a dire che questo filone di pensiero ha perso molto della sua pregnanza. Ci troviamo in una fase nella quale viviamo un conflitto a livello planetario che nasce da una espansione dei diritti e delle libertà individuali e collettive che non ha mai avuto precedenti nella storia. L’impulso che ne viene è quello dell’affermazione dei diritti e delle libertà individuali e nel contempo di una richiesta di sicurezza e di ordine sociale; allora trovare un punto di equilibrio è la scommessa della democrazia.

Credo che l’amministrazione della giustizia sia un punto cruciale per l’affermazione della democrazia. Non credo che nel nostro paese vi sia un eccesso di litigiosità, ma mi domando un’altra cosa: chi accede oggi alla giustizia? Tanti cittadini non possono accedere alla giustizia proprio per i costi e certamente non sono stati né il difensore di ufficio né il gratuito patrocinio a risolvere un problema di questo genere. Ci avviamo verso un destino che è quello per cui la crisi della giustizia diventa crisi delle democrazia, perché la giustizia diventa giustizia di classe o perché la maggior parte delle vicende che rappresentano l’affermazione del principio di legalità tende a portarle fuori dall’ambito giudiziario o perché bisogna che questa necessità di sicurezza e ordine sociale si traduca semplicemente nei confronti di una aggressività abbastanza insistente nei confronti di soggetti che sono economicamente e socialmente deboli, i quali a loro volta, pur essendo titolari di diritti e libertà individuali, non hanno possibilità di accesso.

GIOVANNI GALLONI. I COSTI MANCANTI

Parliamo dei costi mancanti: il bilancio della giustizia, quando entrai al Csm, era sotto l’1 per cento, quando in Francia e in Germania il bilancio è del 2 per cento. Non sono mai stato favorevole ad aumentare il numero di magistrati, però ho avuto esperienze in certi settori sui cosiddetti pretori onorari. A Bologna il primo pretore prendeva l’elenco di quelli che avevano superato l’esame di procuratore e i primi dieci li chiamava a svolgere le funzioni di pretore onorario. Imparai in tre anni, facendo il pretore onorario in materia civile, più di quanto avessi imparato in tanti anni di università e di assistentariato universitario; c’erano queste spinte, mi sono battuto per i giudici di pace, ma a un certo momento il risultato mi sembra positivo. Certo il numero dei magistrati togati non può essere aumentato, però tutta la struttura attorno di volontariato deve essere attivata in maniera tale da eliminare quella disparità di ruoli tra i magistrati (ruoli intesi come numero di cause affidate).

Combattevo nel Csm perché quei magistrati che non riuscivano a fare almeno cento sentenze l’anno per cause medie fossero portati dinanzi il Csm per un procedimento disciplinare. Bisogna affrontare il tema della formazione in itinere: io ritenevo che più che le sentenze bisognasse valutare le relazioni che i magistrati erano in grado di fare nei nostri convegni di studi – nei quali tutti i magistrati dovevano partecipare non solo come discenti ma anche come docenti – e quindi mettere nei fascicoli personali i risultati di questa verifica e farne oggetto di valutazione dei magistrati anche ai fini delle prosecuzioni di carriera.

Il problema delle circoscrizioni è assai antico, risale a dopo l’unità e ancora nessuno è riuscito a risolverlo perché ogni volta che un ministro della giustizia osa pensare alla riduzione dei tribunali o alla riunificazione dei tribunali succedono manifestazioni di piazza, rivoluzioni sulle strade; deve essere sollevato. Credo che sia necessario arrivare gradualmente o ad allargare e a riportare i tribunali a dimensioni di fruibilità. Bisognerebbe arrivare almeno a due-tre tribunali per il comune di Roma e in Sardegna, dove non si riesce a fare giustizia perché mancano i magistrati (basta che una donna magistrato vada in aspettativa che il presidente del tribunale sia disperato), ad un aumento del loro numero.

EMILIO BUCCICO. UN CASO SCANDALOSO

L’abolizione del divieto del patto di quota lite è inattuabile oggi per le condizioni su cui agisce e su cui si forma l’avvocatura italiana. Faccio l’esempio di un avvocato radiato dall’albo di un ordine siciliano, con decisione confermata dal consiglio nazionale forense, per una fattispecie di questo genere: l’avvocato difendeva gli interessi di una fanciulla di colore morta in un incidente stradale; si decideva per un risarcimento dei danni da parte della compagnia di assicurazione pari a settecento milioni di lire. Questo avvocato versava cinquanta milioni ai familiari della ragazza e tratteneva per sé seicentocinquanta milioni, invocando l’applicazione di una gerarchia delle fonti soltanto a lui nota del diritto georgiano, in quanto in Georgia il patto di quota lite è lecito; siccome lui aveva promesso cinquanta milioni quale esito della sua attività professionale, aveva rispettato sostanzialmente il patto con il cliente e il diritto della nazione alla quale apparteneva la ragazza. Questo episodio è significativo perchè ci dà la spia della situazione del degrado deontologico al quale si è giunti e dimostra il fondamento della posizione di dissenso sulla ventilata abolizione del divieto di patto di quota lite, che è patrimonio tradizionale della avvocatura italiana e della ricezione codicistica che poi si è avuta. Se oggi introducessimo il patto di quota lite, probabilmente arriveremmo alla accelerazione di qualche singola causa, ma rischieremmo di compromettere le situazioni più gravi e delicate.

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Preceduto da una tavola rotonda tra Italia e Stati Uniti d’America, tenutasi a Perugia dal 16 al 18 novembre 2001 (cui ha partecipato anche il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma Federico Bucci), si è svolto a Roma il convegno sui costi della giustizia di cui pubblichiamo alcuni importanti interventi. L’iniziativa, ideata e organizzata congiuntamente da Isonomia e dalla Ambasciata degli Usa, ha visto tra i promotori, per la parte italiana, Mario Almerighi, Marcello Marinari, Eligio Resta, Ippolisto Parziale e, per la parte americana, A. Margaret Bliss, Harris E. Weinberg, Samuel G. DeSimone, Ernest C. Friesen jr, Douglas L. Parker, Tiziana Candiloro, Emanuela Picozzi, Stefano Giustiniani, Marco Iacoella.

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PAGINA OTTO

NANDO DALLA CHIESA. UNA LETTURA STRUTTURAL-FUNZIONALISTA

Partirei da un interrogativo che risuona sempre più spesso nelle cronache e nel dibattito politico, culturale, anche forense. Quanto costa questo processo? È una domanda che viene proposta soprattutto con riferimento a quei processi che sono trattati con più attenzione e che suscitano una maggiore fibrillazione nel mondo politico. La domanda è volta implicitamente a stigmatizzare il fatto che quel processo si faccia, cioè a colpevolizzare il processo. Il processo costa molto, ha esiti incerti, sono i contribuenti che ne sostengono il peso; può una giustizia rispettosa dei diritti del cittadino sostenere i costi elevati di questi tipi di processo che normalmente colpiscono soggetti che occupano posti rilevanti all’interno della gerarchia sociale e che proprio per il tipo di reati che commettono e per il tipo di difese di cui dispongono tendono ad innalzare esponenzialmente il costo del processo e a ridurre la probabilità che quel processo abbia un esito? In termini aziendali: vale la pena fare quel processo o è uno spreco? Possiamo ribaltare la domanda: quanto costa a questo sistema non fare questo processo? Quali sono i costi non misurabili della rinuncia a sostenere fino in fondo un processo che si inquadri dentro queste caratteristiche di qualità degli imputati, qualità dei reati e probabilità di giungere ad un esito definitivo?

Credo che i costi del non fare il processo siano molto elevati; quindi è utile continuare sulla falsariga che è stata proposta dalla professoressa Ferrarese: vedere che cosa significa dentro un sistema sociale avere una giustizia che non funziona o che funziona poco, a corrente alternata o in modo diseguale. Ho provato a vedere quale potesse essere lo schema più utile a semplificare il ragionamento: ho scelto lo schema di lettura struttural-funzionalista che fondamentalmente dice: il sistema sociale funziona quando funzionano i sottosistemi in cui si articola. Questi sottosistemi sono: quello economico, quello politico, quello integrativo e quello culturale. La giustizia si colloca nel sottosistema integrativo, quello che garantisce le connessioni, le legature di un sistema, di cui fa parte anche la democrazia. In una società a bassa divisione del lavoro questa funzione integrativa si distribuisce su una pluralità di attori; in una società ad alto specialismo questa attività integrativa tende a concentrarsi su alcuni apparati e a ridurre la presenza degli attori diffusi.

Questa è una delle ragioni per cui c’è un contenzioso che entra in più nei tribunali, perché quei riti, quei processi erano pensati per una società dove esisteva una pluralità di attori che sosteneva il costo dell’integrazione. Pensiamo al parroco, al maresciallo dei carabinieri, al farmacista, alla famiglia, a tutti coloro che erano in grado di comporre la litigiosità sociale e quindi di non fare arrivare al processo una quota rilevante della litigiosità sociale. Venendo meno il ruolo di questi attori si trasferisce in capo a certi apparati tutto il peso della litigiosità sociale ed il problema della regolazione sociale, soprattutto se contemporaneamente si alza molto la quantità, la consapevolezza e la specializzazione dei diritti. Questo vuol dire che se questo sottosistema è quello che integra tutto il sistema sociale, quello che garantisce l’integrazione complessiva, esso ha bisogno di funzionare bene, perché qualsiasi disfunzione si annidi dentro questo sottosistema influenza necessariamente gli altri. Tu puoi fare una partita di calcio senza l’arbitro se i giocatori sono amici, se le relazioni tra di essi sono tali da ridurre la necessità di una persona che faccia l’arbitro; ma in una situazione che presenta un rilevante grado di impersonalità, di conflittualità e di competizione l’arbitro è necessario, tanti arbitri sono necessari, tanti sistemi di regolazione sono necessari. Ecco dove credo vada ripreso il problema anche da un punto di vista organizzativo, come esposto così brillantemente dal professore Zan. Quel sistema processuale è stato pensato per una società in cui una parte, e neanche quella maggiore, di litigiosità sociale andava alle corti. Poteva dunque permettersi quei riti lunghi, quell’alto grado di formalità, poteva permettersi una filosofia del processo. È la società stessa che fa esplodere quel processo, oltre alle disorganizzazioni ed al sistema a canne di organo.

Se viene affermato il principio – fondante della società moderna – che la legge è uguale per tutti e si capisce che questo non solo è un semplice orizzonte ma non diventa neanche teoricamente un orizzonte, le motivazioni si riducono perché c’è una negazione dei postulati fondativi del sistema. Ancora: se io sono abituato a pensare che la mobilità sociale esiste in quanto premia i comportamenti coerenti con i princìpi fondativi del sistema, che se ho più meriti di un altro, più talento di un altro vengo premiato e mi rendo conto che la mobilità sociale invece premia le fuoruscite dalle regole, anche qui ciò che è il grappolo dei valori fondativi entra in crisi.

Il sentimento dell’ingiustizia corrode il sistema non necessariamente in termini sovversivi ma in termini di disaffezione. La disaffezione tende a ridurre la lealtà nei confronti del sistema e ad enfatizzare la dimensione egoistica a discapito di quella solidaristica. Manca una risorsa fondamentale: la fiducia immateriale. Essa tiene insieme il mondo degli affari, le relazioni sociali, il sistema politico; se viene meno la risorsa immateriale e non misurabile della fiducia gli effetti che produce l’assenza della giustizia sul sistema sono devastanti, almeno in termini di lealtà ed affezione.

Il sottosistema economico viene anch’esso interessato e paga dei costi che non sono misurabili. La teoria aziendale spiega che ogni impresa funziona in quanto esistono le economie esterne, ovvero delle condizioni esterne alle imprese che valorizzino il nucleo tecnico ed intellettuale interno all’impresa. Se queste condizioni non ci sono l’azienda considerata astrattamente in questo suo nucleo ha minore possibilità di successo, minore capacità di esistenza; qual è l’effetto nel sottosistema economico, per esempio, di una criminalità organizzata tendenzialmente impunita? Qual è l’effetto non misurabile dell’assenza di giustizia, dell’assenza della regolazione sociale prevista in termini di possibilità di sviluppo? Nessuno l’ha mai misurato. Però ex post si vede che le regioni, le province che hanno un minore grado di presenza di criminalità organizzata sono quelle che presentano un più alto tasso di sviluppo.

Poi c’è il sottosistema politico. Anche lì non sappiamo quali siano i costi dati dalla carenza della regolazione sociale prevista. Non sappiamo chi vince e in che condizioni se manca questo tipo di regola sociale. Non sappiamo quali sono le risorse che nel perseguire i suoi fini sono diverse da quelle del sottosistema economico. Non sappiamo come il sottosistema politico agisce sul sottosistema integrativo, ad esempio alterando le regole di funzionamento della burocrazia. È un processo circolare che parte dal sottosistema integrativo, passa per il sottosistema centrale, quello culturale, ma interessa il sottosistema economico e quello politico. Credo che questa consapevolezza sia necessaria non soltanto per gli operatori del diritto, ma per chi ha il compito di prendere le decisioni fondamentali, per chi ha il compito di impostare il dibattito sui problemi fondamentali, perché se noi ragioniamo in questi termini non ci permettiamo di dire quanto costa questo processo ma saremmo portati a dire quanto costa alla società il fatto che questo processo non si faccia, quanto costa alla società l’assenza di un operatore del diritto, il mancato controllo sul funzionamento dei principali criteri di regolazione sociale.

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