ISONOMIA

Periodico di informazione giuridica

Anno II, numero 3, febbraio 2002

Direttore responsabile Lillo S. Bruccoleri. Condirettori Antonio Acquaroli e Oreste Flamminii Minuto. Redattore capo: Giuseppe De Lutiis. Comitato di redazione: Leonardo Agueci, Antonino E. Cappelleri, Michela Deflorian, Mario Fresa. Mensile della Associazione culturale Isonomia. Presidente Mario Almerighi. Consiglieri effettivi: Gianfranco Amendola, Antonio Fiorella, Franco Ionta, Ugo Longo (segretario), Gianni Melillo, Fabrizio Merluzzi, Tommaso S. Sciascia, Rosalba Turco (tesoriere). Consiglieri supplenti: Erminio Amelio, Anna Argento, Giovanna Corrias Lucente, Paola Di Nicola, Paolo Iorio, Mattia M. La Marra, Marcello Marinari, Laura Nissolino, Carlo Testori, Paolo Vadalà, Andrea Vardaro, Giuseppe Zupo. Autorizzazione tribunale di Roma n. 236 dell’8 giugno 2001. Sede: 00136 Roma, via Giovanni Gentile, 22. Numeri telefonici: 06 39735897, 06 39735051 (associazione); 06 39735052, 06 39735900, 06 39733192, fax 06 39735101, fax 06 39743333 (direzione e redazione). E-mail: isonomia60@libero.it. Internet: http://digilander.iol.it/isonomia. La collaborazione è, di norma, gratuita. Testi e materiali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Spedizione abbon. postale 45 % ex art. 2, c. 20, lett. b), legge n. 662 del 1996. Stampa: Romaprint S.r.l., 00156 Roma, via di Scorticabove, 136, tel. 06 41217552, fax 06 41224001.

OCCASIONE MANCATA

di Franco Ionta

All’indomani della grave crisi internazionale determinata dalla strage terroristica dell’11 settembre era necessario un intervento legislativo in campo penale, processuale e istituzionale, che ha avuto una prima ma parziale risposta nel decreto legge emanato il 18 ottobre 2001, poi convertito con modifiche nella legge 15 dicembre 2001, n. 438.

L’esame in prima approssimazione, e fatte salve le verifiche in sede di applicazione, delle disposizioni ivi contenute sostanzia un giudizio certamente positivo per talune norme, una valutazione perplessa su altri aspetti e una osservazione di occasione, al momento, mancata per la possibilità non sfruttata di radicali modifiche che appaiono indispensabili per le indagini antiterrorismo.

Il positivo è rappresentato dalla introduzione della disposizione che prevede la nuova figura dell’associazione con finalità di terrorismo internazionale; fino ad oggi infatti la previsione dell’articolo 270 bis del codice penale non riusciva adeguatamente a coprire (in molte circostanze non è stata addirittura ritenuta applicabile) i comportamenti strumentali compiuti in territorio dello Stato rispetto ad operazioni da effettuarsi all’estero.

Per ovviare a tale situazione di stallo, nella consapevolezza di dover comunque reprimere condotte illecite, si è fatto nella pratica ricorso a configurazioni di reato in qualche modo improprie e talvolta ad interpretazioni forzate delle norme incriminatrici.

Con la nuova fattispecie di reato ricondotta all’alveo dell’articolo 270 bis del codice penale si colma questo vuoto legislativo e si mette l’autorità giudiziaria in condizione di agire sulla base di un tessuto normativo specifico e pertinente. E ciò è tanto più vero se si considera che in sede di conversione è stata eliminata la condizione di procedibilità ex articolo 313 del codice di procedura penale nel decreto legge prevista per l’attivazione penale.

Va altresì nella direzione giusta il compendio di norme che estendono la possibilità di ricerca della prova mediante gli strumenti classici dell’investigazione moderna rappresentati dall’intercettazione, anche di quella preventiva, e dell’attività sotto copertura della polizia giudiziaria.

Perplessità, anche se l’aspetto può apparire secondario, vanno evidenziate rispetto al ridimensionamento della possibilità di utilizzare la polizia giudiziaria per le notifiche degli atti giudiziari; anche se la drasticità delle disposizioni contenute nel decreto d’urgenza ha ottenuto al momento della conversione una maggiore duttilità.

Occasione mancata, infine, per la possibilità non utilizzata (se non molto timidamente rendendo distrettuale la competenza territoriale nei reati di terrorismo) di modificare di fronte al pericolo rappresentato dalla minaccia terroristica l’assetto giudiziario per il suo contrasto.

L’esperienza giudiziaria, sia recente che datata, ha infatti evidenziato una serie di disfunzioni che avrebbero dovuto trovare rimedio e soluzione.

Intanto, la territorializzazione, anche se distrettualizzata, delle indagini appare incongrua rispetto a fenomeni che in nessun conto tengono i confini della giurisdizione sia italiana che estera; così come la mancanza di organismi centralizzati di polizia giudiziaria specializzati nel settore produce sovente duplicazione d’interventi e talvolta anche la sovrapposizione degli stessi senza una possibilità concreta di risoluzione dei conflitti; la mancanza di un unico referente giudiziario toglie all’investigazione complessiva smalto e incisività.

Il modo più ragionevole per venire incontro all’innegabile esigenza d’intelligenza e repressione del fenomeno sarebbe stato quello dell’istituzione di un ufficio giudiziario nazionale con compiti di indagine attiva, unico punto di trattazione e di gestione del dato processuale.

Una procura nazionale antiterrorismo, dunque in grado di dialogare con la polizia giudiziaria specializzata, di centralizzare tutte le informazioni utili, di avere rapporti immediati con le autorità giudiziarie di altri paesi.

Un ufficio di procura inquirente e requirente (in primo grado) e titolare esclusivo dell’azione penale nella materia specifica dei reati contro la personalità interna e internazionale dello Stato, strutturato in una sola sede e che non mutui la sua organizzazione da quella della direzione nazionale antimafia, che seppure utile nel fronteggiare la criminalità mafiosa costituisce un modulo lontano se non incompatibile con la prospettata necessità anche per la via giudiziaria di combattere il terrorismo.

Necessario un confronto sereno, costruttivo e responsabile per salvare la giurisdizione

L'IMPENETRABILE TELA D'ACCIAIO

di Mario Almerighi

 

Non stiamo assistendo solo alla crisi della giustizia, ma al declino dello Stato di diritto. Occorre fare analisi lucide, prive di emotività, che spieghino quali siano le cause profonde che avvelenano il naturale corso della nostra democrazia impedendo quei processi di sviluppo ad essa fisiologici e che hanno messo in crisi quei valori cui essa dovrebbe ispirarsi: la legalità, la giustizia sociale, la solidarietà.

Deve, innanzi tutto, precisarsi che non può parlarsi di un improvviso complotto del potere politico contro la magistratura. La tendenza del potere politico ad affievolire il controllo di legalità nel nostro paese nasce nel momento in cui tale controllo supera i livelli graditi al potere. È sufficiente ricordare quanto accadde negli anni settanta in esito al primo grande scandalo nazionale che coinvolse responsabilità penali di ministri e parlamentari. Venne accertato che tra i petrolieri ed i partiti di governo erano stati stipulati veri e propri contratti di compravendita, in base ai quali i primi versavano ai secondi il 5 per cento dei vantaggi economici derivanti da leggi approvate dal parlamento italiano. Anche allora vennero attuate delle controriforme dirette a diminuire il controllo di legalità da parte della magistratura.

Il fenomeno di contrasto crebbe negli anni ottanta, quando, eliminato il pericolo relativo all’intervento dei pretori, ci si rese conto che anche il pubblico ministero aveva preso coscienza del valore dell’indipendenza dal potere politico. Basti pensare al virulento attacco del presidente del consiglio Bettino Craxi nel suo discorso alla camera contro i pubblici ministeri milanesi in occasione dello scandalo Banco ambrosiano-Ior e dell’arresto di Roberto Calvi. Fu allora che cominciò a parlarsi dell’esigenza di separare la carriera dei pubblici ministeri da quella dei giudici. È di quegli anni il "piano di rinascita democratica" di Licio Gelli che oltre a tale obiettivo si poneva quello della riforma del Csm per modificarne la composizione in favore dei membri di nomina politica.

Lo scontro cresce ancora d’intensità negli anni novanta: sono gli anni di tangentopoli. La reazione è fortissima. Ancora una volta il ragno ritesse la sua tela. Sono gli anni in cui dietro lo scudo di un esasperato garantismo viene varata una serie di riforme che renderanno il processo penale uno strumento idoneo a "fare giustizia" solo nei confronti dei deboli e degli emarginati. Il processo penale viene colpito da leggi e leggine che costituiscono colpi di maglio idonei a distruggerne l’architettura originaria. La giustizia civile è morta da un pezzo e quella penale è agonizzante.

La bicamerale è un tentativo idoneo a distruggere anche i princìpi fondanti dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario previsti dalla nostra Costituzione. È sembrato, allora, di assistere a quella ristrutturazione delle istituzioni dello Stato di cui avevano parlato Bettino Craxi e Claudio Martelli negli anni ottanta. Nel nuovo sistema, il controllo della legalità deve diventare un optional gestito esclusivamente dal potere politico impegnato alla costruzione di una stanza con porta d’accesso nella quale deve scriversi: "don’t disturb". Ma negli anni novanta c’è una novità: una parte politica vede con lungimiranza che l’ostacolo non è solo la magistratura. Occorre depotenziare le altre istituzioni e gli altri organi di garanzia. Il monopolio dell’informazione può garantire il monopolio del potere senza condomini. L’accaparramento di quotidiani, settimanali, case editrici e televisioni avviene in modo pressoché indisturbato.

Arriviamo ai giorni nostri. Il ragno non rammenda più la sua tela: la sta ristrutturando con fili impenetrabili di acciaio. Alla tecnica controriformista che da qualche anno sta consentendo che il diritto di difesa nel processo possa trasformarsi (ovviamente solo per i ricchi) in difesa dal processo (prescrizioni) si sta sostituendo una nuova tecnica legislativa che mira direttamente all’assoluzione di imputati eccellenti attraverso riforme che in un prossimo futuro porteranno all’eliminazione di qualsiasi rischio connesso al solo inizio del processo. Basti pensare alle riforme concernenti il falso in bilancio, alla legge sulle rogatorie internazionali, alla legge sul rientro dei capitali clandestinamente esportati. Ma c’è ancora qualcosa di nuovo. Per impedire la celebrazione di quei pochi processi ancora in piedi e non graditi a chi comanda, viene realizzato un attacco al cuore della giurisdizione. Non essendo sufficiente la modifica delle leggi, si punta alla modifica del giudice.

Da dove nasce la tendenza a considerare l’applicazione della legge una funzione da esercitare esclusivamente nei confronti dei deboli, di coloro che non fanno parte del circuito del potere reale? Quali sono gli interessi posti a base del nuovo cammino legislativo intrapreso dal parlamento italiano? Quali sono i segmenti della società civile che si riconoscono in esso? Chi deve rispondere a queste domande? Non certo un giudice. Ma un giudice, che è anche un cittadino di questa Repubblica, può porsi anche un’altra domanda, la stessa domanda che si pose Sandro Pertini quando ebbe sotto gli occhi le prove della compravendita delle leggi da parte dei petrolieri: dov’erano le forze politiche d’opposizione? A questa domanda crediamo che sia giunto il momento di aggiungerne un’altra: dov’è la politica?

L’occupazione partitica dello Stato passa oggi attraverso l’aggregazione del consenso non più in virtù di logiche d’appartenenza a questa o quell’ideologia, e neppure in relazione alla coerenza tra il dire ed il fare, ma attraverso lo sfruttamento delle ormai collaudate tecniche della comunicazione e dell’immagine nel settore della produzione e del mercato. Ai cambiamenti radicali in atto, a differenza di quanto è già accaduto in Germania (ove negli anni novanta i maggiori partiti hanno adottato specifiche misure per stimolare la partecipazione dal basso) la partitocrazia di casa nostra sta ancora reagendo in termini conservatori, continuando ad occupare dall’alto lo Stato e ignorando, per contro, i bisogni reali di una società civile sempre più ipnotizzata ad occuparsi dei bisogni indotti. La gestione del potere, dall’esercizio di un dovere politico, viene sempre più tradotta in atto d’imperio, con conseguente diffusione di sentimenti contrari alla politica (astensionismo).

Certi fenomeni sono inarrestabili; anche alla partecipazione politica – intesa come il desiderio di un individuo di fare parte di un tutto – non è possibile riservare a lungo un ruolo di semplice osservatore numerico, buono solo a legittimare la leadership di questo o quel politico del momento. Ecco la ragione della nascita di nuovi movimenti – mai tanto rigogliosi come in quest’ultimo scorcio di storia – che trovano in un altro tipo di partecipazione, quella sociale, una formidabile leva di azione. Nel dare per scontata l’ipotesi per la quale l’accesso (a qualsiasi livello) alla "stanza dei bottoni" è legato ad una sudditanza verso la pervasiva presenza dei "poteri forti", oggi sembra farsi strada l’idea che la vera libertà di comando risiede, più che nell’occupare un seggio, nella reale possibilità di condizionare le scelte.

A duecento anni dalla rivoluzione francese non possiamo non prendere atto che è in corso un processo inarrestabile con il quale la sovranità popolare sta prendendo più forma e consistenza. Al voto di appartenenza si sostituirà sempre più, insomma, il voto d’opinione sui fatti e non sulle parole. "Nel segno di un auspicabile ritrovato senso della rappresentanza individuale legata al concetto di cittadino e nel quadro di una nuova cultura politica imperniata sugli incipienti valori post-materialistici che si stanno affermando, ci attende una sfida che si consumerà in questo inizio di millennio. Ormai possiamo, infatti, dire che è entrato a far parte del comune sentire il concetto che i poteri politici delle nazioni del mondo sono condizionati ed eterodiretti dai poteri forti economico-finanziari cosiddetti globali." (Mauro Calise, Il partito personale)

Ecco perché siamo convinti che le prospettive del cambiamento e del recupero della speranza nella politica passino attraverso lo sviluppo d’iniziative come quella di Isonomia e di tante altre associazioni rappresentative di volontà riferibili alla società civile.

Lo scontro in atto e le continue aggressioni nei confronti non solo della magistratura ma della stessa giurisdizione comportano l’inevitabile rischio di un nuovo arroccamento corporativo della magistratura e dell’altra istituzione fondamentale nel funzionamento della giustizia costituita dall’avvocatura. Isonomia è nata proprio per combattere le logiche d’appartenenza riunendo intorno a un tavolo magistrati, avvocati ed esponenti della cultura giuridica con l’intento di operare nell’esclusivo interesse della giustizia in un clima di sereno confronto.

Da oggi l’analisi critica interna alle due categorie sarà ancora più difficile, ma proprio per questo più necessaria.

IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

"Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della Nazione re d’Italia": non è una reminiscenza storica ma l’incipit dei due codici sostanziali e di quello di rito civile nel testo in vigore a tutto il corrente anno 2002. Le sentenze invece continuano ad essere pronunciate più semplicemente e più propriamente "in nome del popolo italiano", al quale appartiene in via esclusiva la sovranità esercitata "nelle forme e nei limiti della Costituzione": quella, anche essa in vigore, che reca in calce le firme di Umberto Terracini e Alcide De Gasperi. Nel clima infuocato delle polemiche sul tema della giustizia si è riscoperto il vecchio barone di Montesquieu ricordandone la lezione dell’Esprit des lois e facendo appello al principio della divisione tra i poteri: segno che il sistema non è in equilibrio perché altrimenti non si sentirebbe il bisogno della sottolineatura dell’ovvio. Abbiamo la sensazione di vivere in una situazione diversa dalla normalità, non solo sul piano esistenziale ma soprattutto su quello istituzionale; sentiamo perciò il dovere di impegnarci per dare un impulso di informazione e stimolazione dialettica.

LA NUOVA DISCIPLINA DELLE ROGATORIE

Commento alla legge 5 ottobre 2001, n. 367

di Erminio Amelio

La recente legge 5 ottobre 2001, n. 367, "Ratifica ed esecuzione dell’accordo tra Italia e Svizzera che completa la convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale", entrata in vigore il 9 ottobre 2001, ha introdotto delle rilevanti modifiche, sia sul piano pratico che su quello interpretativo, rispetto alla legislazione previgente in tema di rogatorie in particolare e, più in generale, in materia di assistenza e cooperazione internazionale fra Stati. Si è, infatti, subito detto da più parti che pratica conseguenza dell’approvazione, e della successiva operatività, di detta legge sarebbe stato un arretramento nella lotta alla criminalità e ciò per il riflesso e l’impatto che le nuove disposizioni avrebbero avuto, in concreto, nello svolgimento dei processi nei quali, per la loro peculiarità, le rogatorie sono utilizzate ed in particolare, da un lato, in quelli con imputati appartenenti alle organizzazioni dedite al crimine organizzato e, d’altro lato, in quelli con imputati eccellenti per gravi fatti di corruzione

Prima di valutare nello specifico l’impatto che le nuove norme possono avere nell’ambito dello svolgimento dei processi da iniziare o di quelli già in corso è bene soffermarsi sull’aspetto principale, e diremmo in un certo senso assorbente, che – a parere di chi scrive – va con precedenza affrontato e dalla cui risoluzione si potranno far discendere, poi, gli effetti pratici per il nostro ordinamento, e cioè la verifica del rapporto esistente fra le norme nazionali e le norme di diritto internazionale derivanti dai vari trattati e dalle diverse convenzioni di cui gli Stati (fra i quali l’Italia) sono firmatari e/o aderenti in guisa da valutare se le eventuali nuove norme adottate da un singolo Stato che vanno ad incidere sul contenuto delle norme di carattere transnazionale hanno (o possono o devono avere) una portata "limitata" all’ordinamento statuale interno ovvero se le stesse norme hanno (possono o devono) avere immediata e diretta refluenza anche sul contenuto delle norme di diritto internazionale – disciplinanti i rapporti fra gli Stati e vincolanti per gli stessi – incindendo in maniera innovativa e vincolante per gli Stati membri. E, ulteriormente, se le norme interne che ogni singolo Stato emana (dopo aver assunto impegni contenuti in trattati e convenzioni internazionali), laddove ciò riguardi tematiche trans-statuali già oggetto di impegni con altri paesi membri, debbano necessariamente armonizzarsi con le norme di diritto internazionale ovvero se possono confliggere con le stesse rendendole di fatto inefficaci nell’ambito del diritto interno dello Stato emanante e, di conseguenza, anche nei rapporti fra gli Stati membri. Se quest’ultima fosse l’ipotesi più accreditata, o anche solo più plausibile, si capisce bene che sarebbe sufficiente un atto normativo unilaterale di un singolo Stato (beninteso nel legittimo esercizio della sua sovranità) a impedire l’efficacia delle norme contenute nei trattati e nelle convenzioni internazionali e, quindi, a porre nel nulla, sempre unilateralmente, i rapporti di reciprocità derivanti dalle norme di cooperazione internazionale con il risultato che il singolo Stato potrebbe, volontariamente, svuotarne deliberatamente il contenuto.

Una condotta di tal fatta non solo determinerebbe un potenziale aperto contrasto giuridico nei rapporti fra gli Stati membri, ma contrasterebbe con la volontà politica – che moltissimi Stati europei hanno apertamente manifestato, ad esempio con l’accordo di Schengen, con altri accordi, con le decisioni del Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 che ha previsto (sempre nel rispetto delle garanzie fondamentali) la libera circolazione dei provvedimenti giudiziari, con la convenzione di mutua assistenza di Bruxelles eccetera – di costituire una sorta di spazio di libertà, di giustizia e di sicurezza europeo che ha alla base un unitario modo di procedere; il tutto in un ottica di rapporti transnazionali di cooperazione di carattere non solo economico e politico, ma anche giudiziario che – a seguito dei molti fenomeni epocali succedutisi negli ultimi anni – hanno fatto nascere l’esigenza e la necessità di un coinvolgimento diretto di tutti gli Stati europei per la lotta al crimine che ormai ha da tempo abbandonato – nelle sue forme più cruente – l’ambito nazionale del singolo Stato per assumere dimensioni e caratteristiche mondiali, lotta che solo la migliore, la più efficace e la più snella cooperazione può attuare.

In tale ottica, ad esempio, si è dato vita nel corso degli anni all’Agenzia mondiale sulla droga, a sempre più intensi collegamenti fra gli Stati per la repressione di determinate fenomenologie delittuose, alla istituzione dell’Europol, all’istituzione di tribunali internazionali, alla convenzione Ocse riguardante le condotte dei funzionari stranieri nel compimento delle operazioni economiche internazionali; più di recente è stata istituita la cosiddetta Superprocura europea e si è arrivati alla recentissima proposta – soprattutto a seguito degli atti di terrorismo recentissimi – del cosiddetto "mandato di cattura europeo".

Questo è l’ambito in cui gli Stati europei si stanno muovendo da diversi anni anche con l’introduzione di tipologie di reati finora non conosciute quali ad esempio quella, sempre per restare al nostro ordinamento, dell’associazione terroristica internazionale. E’, quindi, fuor di dubbio che è in questo ambito che si deve analizzare la recente normativa italiana sulle rogatorie al fine di valutarne la armonizzazione nel nuovo contesto o meno. Innanzitutto l’articolo 9 della legge n. 367 del 5 ottobre 2001 ha sostituito il primo comma dell’articolo 696 del codice di procedura penale, che ora è del seguente tenore: "Le estradizioni, le rogatorie internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, 1’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti con le autorità straniere relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale sono disciplinati dalle norme della convenzione europea di assistenza giudiziaria [Ceag, n.d.r.] in materia firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e dalle altre norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale". Il richiamato art. 3 della Ceag, come è noto, ha previsto nell’esecuzione delle rogatorie il principio del locus regit actum stabilendo che lo Stato richiesto le espleterà "nelle forme previste dalla propria legislazione", principio temperato dalla previsione contenuta nel comma secondo che prevede la deroga per il giuramento dei testimoni e dei periti che vi si dovranno sottoporre se vuole lo Stato richiedente e se la propria legge non lo vieta.

L’articolo 9 della legge n. 367 del 2001, nel rinviare alla convenzione di assistenza giudiziaria fa però indubbio riferimento essenzialmente (per il tema che si esamina) al contenuto del comma 3 dell’articolo 3 della Ceag, a tenore del quale lo Stato che ha eseguito la rogatoria è tenuto "a trasmettere semplici copie o fotocopie dei fascicoli o documenti richiesti munite di certificazioni di conformità; tuttavia, se la parte richiedente domanda espressamente la trasmissione degli originali, tale richiesta dovrà nei limiti del possibile essere accolta..."

Per effetto della riforma in parola, poi, l’articolo 13 della legge n. 367 del 2001 ha sostituito il comma 1 del previgente articolo 729 del codice di procedura penale, che ora si presenta così formulato: "1) La violazione delle norma di cui all’articolo 696, comma 1, riguardante l’acquisizione o la trasmissione di documenti o di altri mezzi di prova a seguito di rogatoria all’estero, comporta l’inutilizzabilità dei documenti o dei mezzi di prova acquisiti o trasmessi. Qualora lo Stato estero abbia posto condizioni all’utilizzabilità degli atti richiesti, l’autorità giudiziaria è vincolata al rispetto di tali condizioni. — 1 bis) Se lo Stato estero dà esecuzione alla rogatoria con modalità diverse da quelle indicate dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’articolo 727, comma 5 bis, gli atti compiuti dall’autorità straniera sono inutilizzabili. — 1 ter) Non possono in ogni caso essere utilizzate le dichiarazioni, da chiunque rese, aventi ad oggetto il contenuto degli atti inutilizzabili ai sensi dei commi 1 e 1 bis."

L’elemento innovativo introdotto dalla legge di riforma è, quindi, l’attribuzione a giudice italiano del potere di accertare se vi sia stata una violazione o meno, da parte dello Stato rogante, della normativa internazionale e, quindi, di interpretarla con efficacia integrativa rispetto al contenuto dei trattati, degli accordi, delle convenzioni e così applicarla vanificando le previsioni degli stessi. Proprio da questo dato normativo, cioè dall’operatività e dall’efficacia (vincolante) dei trattati, delle convenzioni e delle norme di diritto internazionale generale, si deve partire per valutare l’ambito di applicabilità della nuova normativa.

Non appare dubbio, fin da una prima lettura, che la nuova normativa non solo determina una interpretazione restrittiva dell’articolo 3 della Ceag, ma non si inserisce nel solco voluto dall’intera Comunità europea, nella normativa contenuta nei trattati e nelle Convenzioni internazionali; anzi si allontana drasticamente sia dalle linee di fondo, sia dalle prassi seguite dagli Stati membri. tradendo quelli che sono stati, e sono, i princìpi cardine in materia di cooperazione per come essa si è andata via via consolidando e sviluppando, vale a dire lo snellimento delle procedure e la semplicità della trasmissione degli atti, il tutto, comunque, sempre nel rispetto delle particolarità dei sistemi processual-penali dei singoli Stati e della tutela delle garanzie della difesa dell’imputato.

Innanzitutto va rilevato come il contenuto dell’articolo 3, comma 3, della Ceag (la quale costituisce una sorta di convenzione "fondamento" concernente quel minimum di regole accettate dagli Stati in materia di cooperazione internazionale) sia stato da sempre interpretato dagli Stati aderenti non in maniera strettamente letterale nel senso che le formalità in esso previste sono state superate da una prassi applicativa che ha sostituito di fatto la "certifìcazione di conformità" con altro provvedimento – evidentemente ritenuto equivalente nella forma e nella sostanza – consistente nella "Nota di trasmissione" dei risultati della rogatoria.

E’ fuori di ogni dubbio che con la nota in questione, atto proprio dell’autorità remittente, questa si assume non solo la paternità dell’esecuzione dell’atto richiesto, ma anche la genuinità e/o l’autenticità ovvero la conformità agli originali degli atti trasmessi (d’altronde appare molto inverosimile che una autorità giudiziaria trasmetta consapevolmente un atto falso o non genuino). Trattasi di un atto vero, genuino, del quale lo Stato richiesto si assume a tutti gli effetti la responsabilità, del quale non si può avere motivo di dubitare fino a prova contraria e nel caso si dovessero avere sospetti di falsità si dovrebbe iniziare un procedimento per l’accertamento della stessa al fine di individuarne le responsabilità e ciò con tutti gli eventuali riflessi che ciò determinerebbe nei rapporti fra Stato richiedente e Stato richiesto.

Ulteriormente vi è da rilevare che l’articolo 3, comma 3, della Ceag non contiene alcuna prescrizione in ordine alle modalità cui lo Stato richiesto si deve attenere in ordine alla "certificazione di conformità", di guisa che si può senz’altro ragionevolmente e legittimamente ritenere che lo Stato che espleta la rogatoria effettuerà i propri adempimenti nei modi previsti dalla legge locale senza che lo Stato richiedente possa pretendere un adeguamento a formalismi che non sono previsti nell’ordinamento del primo, con ciò riconoscendosi quindi allo Stato richiesto un potere di certificazione piuttosto che la imposizione di un obbligo di autenticazione (ma del resto come può un giudice italiano sindacare la conformità degli atti trasmessi dal paese richiesto quando tale attività è già stata espletata dal giudice estero secondo i princìpi di diritto vigenti nel suo paese?).

Tale prassi consuetudinaria è stata sempre fedelmente osservata e non è mai stata censurata da nessuno degli Stati aderenti alla Convenzione (Ceag), che si sono sempre riconosciuti reciproca fiducia circa la provenienza degli atti trasmessi senza richiedere, ulteriormente, la sussistenza di un necessario formale atto di legalizzazione che si presenterebbe, nei fatti, come un inutile e vuoto formalismo, cioè in definitiva un pesante iter burocratico. Si è, quindi, consolidata una sorta di consuetudine internazionale scaturente, in sostanza, dal costante e uniforme comportamento degli Stati aderenti i quali hanno uniformato le loro condotte di cooperazione ritenendole obbligatorie nei loro rapporti al punto tale da farle assurgere volontariamente a norma sovraordinata rispetto alle previsioni normative del singolo paese.

Ciò pare senz’altro in linea con quanto disposto dall’articolo 31, comma 3, lettera b), della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Ttattati che dispone: "Si terrà conto, oltre che del contesto... di qualsiasi prassi successivamente seguita nell’applicazione del trattato attraverso la quale si sia formato un accordo delle parti in materia di interpretazione del medesimo"; e più recentemente sia nella Convenzione sul riciclaggio del 1990 che nella cosiddetta Joint Action del 29 giugno 1998 che omettono di indicare specifiche modalità certificative degli atti trasmessi per rogatoria.

Emanare unilateralmente da parte di uno Stato aderente una norma che vada in senso contrario alle condotte tenute in modo uniforme e costante significa porsi al di fuori di ogni canone di buona fede interpretativa della Convenzione, anche in considerazione del fatto che l’articolo 23 della Ceag non prevede neanche una espressa riserva in tal senso. Non solo, ma si è anche visto come l’articolo 3 della Ceag non prevede un obbligo assoluto per lo Stato richiesto di trasmettere gli originali, ma solamente di aderire a tale eventuale richiesta "nei limiti del possibile".

Orbene, la normativa internazionale ha natura pattizia ed assume valore rilevante l’intenzione dei contraenti i quali – come emerge dalla norma sopra citata – hanno escluso la sussistenza di un obbligo di trasmettere gli originali e, analogamente, anche quello di inviare fotocopie conformi all’originale o munite da un timbro di conformità (come vuole ora la nostra legge).

L’articolo 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 ratificata dall’Italia con la legge 12 febbraio 1974 ed entrata in vigore il 27 gennaio 1980, come si è innanzi detto, prevede che l’interpretazione dei Trattati si deve fare "in buone fede secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del Trattato nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo" prevedendo che nell’attività interpretativa si dovrà tenere conto: "a) di ogni accordo ulteriore intervenuto fra le parti in materia di interpretazione del Trattato attraverso dell’applicazione delle sue disposizioni; b) di qualsiasi prassi successivamente seguita nell’interpretazione del Trattato attraverso la quale si sia formato un accordo delle parti in materia di interpretazione del medesimo (al riguardo si può fare espresso riferimento per quanto concerne il diritto interno all’articolo 1361 del codice civile, e cioè alla intenzione dei contraenti e alle loro condotte anche successive, nell’interpretare il contratto); c) di qualsiasi regola di diritto internazionale applicabile ai rapporti fra le parti".

Al riguardo si deve anche osservare che la legge n. 367 del 2001 appare in contrasto anche con quanto stabilito dall’articolo 10 della nostra Costituzione il quale prevede che: "L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Ciò determina per il nostro paese l’obbligo di rispettare le regole consuetudinarie di diritto internazionale per il quale pacta sunt servanda.

Puntualmente è già stata sollevata sul punto la questione di legittimità costituzionale da parte del tribunale di Roma il quale ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione in relazione al disposto degli articoli 12 e 13 della legge n. 367 del 2001 per contrasto con gli articoli 3, 10, 24, 111 e 112 della Costituzione nella parte in cui vietano l’acquisizione mediante rogatoria di documenti in copia con nota ufficiale di trasmissione da parte dello Stato richiesto, ma senza specifica attestazione di conformità apposta su ciascuno dei documenti.

I primi due commi del nuovo articolo 729 del codice di procedura penale, cosi come novellato dall’articolo 13, pongono l’attenzione su un dato strettamente formalistico e valorizzano, ai fini della validità della rogatoria, la certificazione di conformità degli atti assunti dallo Stato richiesto; in sostanza la violazione del dato formale (o di un solo dato formale) nell’espletamento della rogatoria determina una sanzione di inutilizzabilità dei risultati della stessa e ciò anche quando nel nostro ordinamento quella violazione formale non è prevista oppure non è sanzionata con l’istituto della nullità, ovvero è sanzionata in maniera diversa e più lieve, cioè come nullità relativa mentre quella in esame è da ritenersi assoluta. Il tutto andando in contrasto con la prassi internazionale ormai consolidata sul tema.

A completare il tenore rigoroso della legge in esame, il comma 1 ter del citato articolo poi prevede una sorta di "sbarramento" che rafforza il principio di inutilizzabilità previsto dei due precedenti commi, impedendo che "per altra via" si aggiri l’ostacolo recuperando i risultati dell’attività oggetto della rogatoria, con ciò escludendosi ogni possibilità di acquisire al processo l’elemento di prova. Ad esempio i risultati di una rogatoria "viziata" dal mancato rispetto del dato formale (ad esempio la mancanza di un timbro, di un bollo, dalla espressa dichiarazione di autenticità o conformità eccetera) non possono acquisirsi (quindi recuperarsi) attraverso l’escussione di un teste (si pensi al funzionario della banca estera che è a conoscenza delle operazioni riportate nella documentazione oggetto di rogatoria) e ciò perché la norma prevede espressamente la sanzione di inutilizzabilità anche della prova testimoniale sul contenuto degli atti rogatoriali dichiarati inutilizzabili ai sensi dei commi 1 e 1 bis dello stesso articolo.

Tale aspetto è ancora più grave se solo si pensa che con la norma in esame il legislatore ha inciso profondamente anche sul sistema processuale in vigore e cioè sulla formazione della prova orale al dibattimento davanti al giudice, dando preminenza – in questo caso – al dato formale (documento viziato) che impedirebbe ("non possono essere utilizzate le dichiarazioni") l’assunzione della prova orale, con ciò limitando i poteri della parti di utilizzare tutti gli elementi di prova utile per l’accertamento del fatto oggetto del giudizio.

Dal punto di vista strettamente giuridico, non si capisce perché – pur volendo, in ipotesi, aderire alla tesi della inutilizzabilità del documento – non si possa provare il fatto, la circostanza, l’accadimento attraverso l’assunzione di altro mezzo di prova: ad esempio con l’esame di un testimone che sarà esaminato sotto giuramento e nel contraddittorio delle parti e sotto il controllo del giudice terzo.

Nel nostro ordinamento non esiste una norma in tal senso.

L’inutilizzabilità in questione ha natura assoluta, rilevabile d’ufficio, o relativa, rilevabile a istanza della parte interessata? Dal tenore complessivo della legge si deve propendere per la natura assoluta e, quindi, con l’obbligo del giudice di rilevarla d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

E che dire del caso in cui la documentazione – o parte di essa – acquisita (senza la certificazione di conformità ma con la "sola" nota di trasmissione) sia in parte favorevole ad uno degli imputati? E come si concilia tutto questo con l’acquisizione di documenti e atti da paesi con i quali non esiste alcun trattato e accordo bilaterale, la cui assenza, quindi, giustifica l’acquisizione della documentazione senza l’osservanza di particolari formalità?

Il "naturale" comp!etamento della normativa in esame è poi contenuto nell’articolo 18 delle disposizioni transitorie e finali, il quale prevede: "1. Le disposizioni processuali della presente legge si applicano ai procedimenti in corso che versano nella fase delle indagini preliminari ovvero nei quali è in corso o deve aver luogo l’udienza preliminare. — 2. Quando gli atti sono stati già acquisiti al fascicolo per il dibattimento, in ogni stato e grado del giudizio l’eventuale causa di nullità o di utilizzabilità deve essere rilevata dal giudice o eccepita entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore della presente legge".

Con la norma in questione si chiude il cerchio. Infatti, se il novellato articolo 729 del codice di procedura penale ci preserva da future acquisizioni non gradite, l’articolo 18 della legge n. 367 del 2001 si presenta come una norma di chiusura con la quale si introduce una sorta di operatività "retroattiva" a tutti i processi diretta a paralizzare gli eventuali risultati (prove?) nefasti (e) già acquisiti(e), quindi agendo sull’attività pregressa di indagine, con ciò vanificando tutti i risultati investigativi acquisiti con la rogatoria.

Per completare va evidenziato che nei casi in cui vengano dichiarati inutilizzabili i risultati della rogatoria e si ritenga necessaria la loro rinnovazione, l’articolo 18 prevede sia la possibilità ("...possono essere...") di sospendere i termini di custodia cautelare sia la sospensione ("...sono sospesi...") del decorso dei termini di prescrizione.

Diversi sono i problemi applicativi pratici che si possono presentare e porre. Per risolverli, oltre che all’applicazione dei princìpi guida di cui si è detto circa l’interpretazione dei trattati e il valore e la preminenza degli stessi sulla norme di diritto interno, si deve fare riferimento alla distinzione (spesso trascurata) che esiste tra il momento acquisitivo della documentazione richiesta con la rogatoria e il momento di estrazione della copia che si trasmette allo Stato richiedente. Nel momento in cui lo Stato richiesto acquisisce (ad esempio a seguito di perquisizione, di sequestro, di esibizione o di consegna) un documento presso una banca, o un altro soggetto, quell’atto è l’originale (anche se acquisito in copia) da trasmettere senza necessità di un ulteriore atto di certificazione di conformità (che nulla aggiungerebbe).

Ma l’inutilità o la pericolosità della certificazione di conformità emerge anche in altri casi. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi che l’atto acquisito fosse un "falso", condizione ovviamente non conosciuta dall’autorità del paese richiesto, il quale, se fosse tenuto a fornire l’ulteriore certificazione richiesta dalla legge n. 367 del 2001, in sostanza certificherebbe come genuino un "falso". Si pensi, altresì, all’acquisizione presso banche di copia dell’estratto conto a seguito di "stampa cartacea" (come avviene in Italia quando si inoltra una richiesta agli istituti di credito), del quale ovviamente non esiste un documento originale conservato: cosa dovrebbe certificare il paese rogante? Si pensi a fonti di prova non ancora conosciute all’epoca di emanazione di molti trattati e convenzioni (tra cui la stessa Ceag) quali ad esempio le e-mail: il sequestro della posta elettronica attraverso la stampa della stessa come può essere certificato conforme? E si potrebbe continuare all’infinito.

Non esiste forse nel nostro codice processuale la possibilità di acquisire, ex articolo 256, dai soggetti previsti dagli articoli 200 e 201, solo copie di atti prevedendosi solo come ipotesi la consegna degli originali ("le persone indicate negli articoli 200 e 201 devono consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta gli atti e i documenti anche in originale se così è ordinato...")? E l’articolo 258 del codice di procedura penale non prevede il legittimo utilizzo di copie (si tratta di copie semplici atteso che solo per il rilascio a terzi è previsto espressamente il rilascio di copia autentica) degli atti originali sequestrati che possono essere restituiti? E l’articolo 46 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale non prevede come regime ordinario di circolazione della documentazione tra le varie autorità giudiziarie la forma della "copia semplice"? Quindi perché un regime diverso deve applicarsi nelle ipotesi in cui gli atti provengono da un altro Stato che li ha acquisiti legittimamente secondo il diritto interno?

Nessuna spiegazione logica esiste a questo diverso trattamento, a questa sorta di "doppio binario", se non quella – utilitaristica per alcuni imputati eccellenti – di veder azzerare alcuni processi previa la "legittima" esclusione delle fonti di prova a carico. Infatti l’effetto immediato dell’entrata in vigore della legge in questione è stato la denuncia da parte dei difensori di alcuni imputati della violazione dell’articolo 3, comma 3, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale per la mancanza delle certificazioni di conformità nella documentazione trasmessa alla autorità giudiziaria richiedente e, in sostanza, l’eccezione di inutilizzabilità della documentazione trasmessa per via rogatoriale dagli Stati richiesti.

In definitiva, non si può nascondere che con la legge n. 367 del 2001 il legislatore abbia attuato una inversione di tendenza rispetto a quella della "massima semplificazione delle procedure di assistenza, alla utilizzazione di canali diretti di comunicazione e trasmissione degli atti, all’abbandono di formalismi che non incidono sul rispetto dei diritti fondamentali" (così nel documento dell’Associazione nazionale magistrati approvato il 3 ottobre 2001).

QUALITÀ DELLA VITA E TUTELA DELL'AMBIENTE

Convegno tenutosi nell'Aula Occorsio in Roma

GIOVANNI CONSO. DALLA CONTRAVVENZIONE AL DELITTO, ANZI AL CRIMINE

Il problema della tutela dell’ambiente e della qualità della vita è di tale importanza da non avere bisogno di sottolineature. Tralasciando le grandi tragedie dell’umanità e rimanendo nel quotidiano, non passa giorno che non si abbiano notizie di uragani travolgenti, di fame e di sete nel mondo; da tutte le parti ci vengono statistiche sui danni provocati dall’inquinamento atmosferico: è uno sconcerto continuo.

Altro che qualità della vita: l’ambiente non è tutelato. Purtroppo i provvedimenti in materia sono intervenuti con grande ritardo rispetto ai problemi che il mondo ha dovuto e deve affrontare. Si pensi all'inquinamento, agli interventi locali di sospensione periodica del traffico, i quali producono qualche temporaneo beneficio ma sono una goccia nel mare se confrontati con la fame e la sete nel mondo. Ne deriva una sensazione di impotenza, ma vi è anche la improcrastinabile urgenza di agire con forza, abbracciando la totalità del problema, soprattutto se si presta fede alle allarmanti considerazioni del mondo scientifico, che prospetta uno scenario desertico del mondo addirittura tra pochissimi anni: al più tardi nel 2050.

Non si tratta dunque di un problema che coinvolge solo le generazioni future, bensì la nostra stessa vita e quindi, anche se sembra troppo tardi e la situazione appare ormai sfuggita ad ogni possibile controllo, bisogna agire subito e tentare di recuperare il terreno perduto. Ma allora qui direi da tecnico del diritto che sul piano ambientale avremo interventi molto qualificati. Finalmente è entrato nella nostra legislazione il primo delitto contro l’ambiente: dunque non più contravvenzioni, ma delitti. Contravvenzione è un termine infelice, come lo è tutto il nostro linguaggio scientifico-penale, il quale ha sostituito la tripartizione crimini-delitti-contravvenzioni eliminando la figura del crimine. Conseguentemente vi sono delitti di lievissima entità ed altri delitti di portata tremenda, per i quali la parola "crimine" si adatterebbe meglio.

Fortunatamente la legislazione internazionale l’ha rilanciata parlando di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e simili locuzioni. Il termine "contravvenzione" ha un impatto molto meno forte e spesso viene collegato agli illeciti automobilistici. Allora se bolliamo una condotta contraria all’ambiente come contravvenzione già in partenza diciamo che è cosa da poco, a parte il fatto che poi la prescrizione è molto più rapida. Invece siamo di fronte a una tematica di interesse mondiale o, per meglio dire, universale, per cui l’intervento dovrebbe muoversi sulla scia di una intensificazione dei rapporti internazionali.

Punire i comportamenti che in Italia e passando per l’Italia ledono i valori ambientali è certo nostro dovere; però per combattere la lotta contro un futuro di catastrofi ambientali, di carenza di acqua, di fame oppure di un’acqua che cade a sproposito e di tutte le conseguenze che ne derivano una risposta siffatta non può essere sufficiente. Ogni due-tre anni si svolgono convegni internazionali: da ultimo, quello di Kyoto, il quale però non ha portato ad alcun risultato concreto. Abbiamo una convenzione europea ratificata dal nostro paese all’inizio del 2000, ma che non ha ancora raggiunto il numero di adesioni sufficiente per entrare in vigore. Si tratta di un documento importante, però ad una attenta analisi si rivela più orientato sul piano della prevenzione che su quello della repressione. Si dice che i singoli Stati provvederanno a intervenire al fine di punire questi comportamenti, lasciando aperta la possibilità di sanzionarli non come crimini (con conseguenti adeguate pene) ma anche come contravvenzioni o addirittura come illeciti amministrativi.

Concordo sulla esigenza di unire le forze europee e anche mondiali, perché questa è una battaglia globale non solo per i traffici commerciali ma per l’ambiente in cui viviamo e per la qualità della nostra vita; però ho anche il timore che si possa cadere in una trappola e abbassare la guardia sul piano della legalità. Le convenzioni di carattere europeo e ancor più i trattati delle Nazioni Unite per essere operativi richiedono le adesioni degli Stati membri non solo nel numero minimo, ma in un numero sufficiente a dare forza alle disposizioni. Spesso si prevedono sanzioni non troppo forti per attirare nell’orbita nazioni che in caso contrario non sottoscriverebbero l’accordo.

In Italia sono stati presentati e recentemente ripresentati dei progetti di legge che prevedono pene gravi, fino a dieci anni, per alcune figure di reati; se però si sposta lo sguardo sulle risoluzioni dell’Unione europea vediamo che queste prevedono pene molto più miti e vengono recepite in Italia entrando a far parte del nostro sistema già così elefantiaco.

Si parla di diritto mite, ma occorre fare attenzione a non abusare di questa espressione, perché alla lunga tutti si attendono l’amnistia, la grazia. Le parole molte volte deviano: è vero che il diritto non deve diventare un drago che divora tutto dissennatamente, ma è anche vero che la mitezza non è un aspetto che rileva per il diritto. Il diritto non deve essere né troppo di manica larga né troppo di manica stretta: il diritto deve essere giusto, ragionevole, equo.

Il metro di valutazione è quello della dottrina classica e riguarda la gravità della lesione del bene giuridico; se la lesione è forte e il bene è alto la risposta non deve essere mite, perché così si cade in contraddizione. Invece se siamo di fronte a comportamenti che ledono beni di carattere secondario o provocano lesioni minimali non c’è motivo di essere nudi e crudi. La graduazione non va fatta perché spira il vento del buonismo o il vento della repressione: bisogna sapere valutare ogni situazione, ogni figura criminosa, prima di dare la sanzione, nell’impatto con la realtà che si sta ledendo.

Direi che dobbiamo liberarci dagli slogan e guardarci anche dal pericolo di questi rapporti internazionali che da un lato possono essere preziosi e dall’altro possono invece indurre al lassismo. Qui dobbiamo combattere una battaglia per dire che l’ambiente è un bene di altissimo valore ed è importante che uno dei sette disegni di legge che sono stati presentati in questa legislatura, ereditati in parte dalla precedente, preveda l’inserimento della tutela dell’ambiente in Costituzione, preveda la definizione di ambiente nel codice penale. Questa definizione non sarà facile, però è significativo che l’ambiente vada conquistando il posto che si merita nella scala dei valori: quanto più l’interesse è alto, tanto più la sanzione deve essere forte. Quindi direi anch’io: dalla contravvenzione al delitto, anzi al crimine.

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L’assemblea annuale della Associazione è convocata nei locali della Corte di appello civile di Roma per le ore 15,30 di venerdì 1° marzo 2002 dovendo procedere ai normali adempimenti statutari. ISONOMIA è la prima Associazione nata in un tribunale che riunisce magistrati, avvocati, docenti universitari, studiosi ed altri operatori del diritto come i periti e gli interpreti, i quali si sono ritrovati nel comune sforzo di confrontare opinione ed esperienze al servizio della giustizia. Fin dall’antica Grecia il principio "la legge è uguale per tutti" era considerato essenziale alla vita della democrazia della polis. In quei tempi lontani quel principio (isonomia) era radicato nelle coscienze del popolo ateniese e costituiva un sicuro ancoraggio dei livelli di civiltà sui quali si fondava la vita di quella società. Nella nostra società, sempre più affascinata da ciò che appare piuttosto che da ciò che è, quel principio, fondamento essenziale per uno Stato di diritto, sembra ormai scritto nelle aule di giustizia per rammentare una realtà virtuale. La realtà virtuale riguarda ormai lo stesso processo. Un processo che dura mediamente dai dieci ai quindici anni, infatti, pone dei seri interrogativi sulla sua stessa ragion d’essere. I fondatori di ISONOMIA sono convinti della esigenza: 1) di recuperare i princìpi ispiratori della nostra civiltà giuridica – forse troppo frettolosamente accantonati – e di porli a confronto con le realtà dei paesi europei; 2) di affrontare i problemi reali e concreti del funzionamento della giustizia al fine di evitare che l’affermazione dei princìpi rimanga un fatto fine a se stesso; 3) di percorrere nuovi metodi di ricerca in ordine alla soluzione dei problemi che, partendo dal superamento delle divisioni corporative tra magistrati ed avvocati, consentano la partecipazione di tutti quei soggetti disponibili ad affrontare i problemi della giustizia su un piano avulso da qualsiasi logica di appartenenza e dal punto di vista esclusivo dell’utente della giustizia.

QUALITÀ DELLA VITA E TUTELA DELL'AMBIENTE

Convegno tenutosi nell'Aula Occorsio in Roma

LUCIO DI PIETRO. COLPIRE LE PERSONE GIURIDICHE

Le organizzazioni criminali di tipo mafioso, a partire dagli anni settanta, hanno iniziato a comportarsi come delle vere e proprie imprese, valutando con abilità in quali settori inserirsi di volta in vota: basta ricordare che sono state presenti con propri consorzi nei mercati dell'edilizia, della ricostruzione post-terremoto del 1980, nei lavori conseguenti alle numerose calamità naturali verificatesi successivamente. Non sol, ma hanno anche tratto vantaggio dalla caduta dei muri: gli armamenti dei paesi dell'Est sono stati gestiti dalla criminalità organizzata; vari altri ingenti profitti sono stati guadagnati da queste organizzazioni con le grosse frodi comunitarie.

Doveva essere noto al nostro legislatore che l'impresa criminale interviene sempre con l'alterare e inquinare le regole del mercato. Si badi bene: la criminalità organizzata, soprattutto quella di tipo mafioso, è uno dei migliori imprenditori che esiste sulla faccia della terra; è l'imprenditore che riesce sempre a seguire la regola del sapere scontare il futuro. Dove vede l'affare si inserisce; non poteva non inserirsi, per esempio, nel grandissimo business dello smaltimento dei rifiuti di ogni tipo: rifiuti solidi urbani, rifiuti speciali, rifiuti tossici, rifiuti nocivi.

La mia prima esperienza di carattere inquirente in materia di traffico di rifiuti la ebbi nel 1990, quando un collaboratore di giustizia si lasciò sfuggire in una pausa di interessarsi tra l'altro al traffico di rifiuti, sostenendo testualmente: "L'immondizia è oro". Aveva capito benissimo che il sistema sanzionatorio italiano, che prevedeva reati contravvenzionali continuamente soggetti ala spada di Damocle della prescrizione, non faceva assolutamente prevedere smacchi alla criminalità organizzata.

Lo smaltimento dei rifiuti, per sua stessa natura, implica una serie di fasi (la raccolta, il trattamento in discarica o l'incenerimento) che fanno sì che il lavoro si concluda a notevole distanza dal luogo di raccolta e di selezione.

Il trasporto a distanza costituisce il contesto ideale per consentire all'imprenditoria criminale di dilatare la propria area di intervento dalla sfera locale a quella regionale, da quella regionale a quella nazionale, da quella nazionale a quella internazionale.

In sede processuale l'attenzione fu appuntata sulle società di intermediazione e sui centri di stoccaggio, che costituiscono favorevoli punti di intervento delle organizzazioni criminali, poiché è in essi che i rifiuti pericolosi e nocivi vengono manipolati n modo miracoloso con un certo sistema attraverso il quale si declassifica il rifiuto da tossico-nocivo, come era in partenza, a rifiuto ordinario che viene smaltito e sottoposto a trattamenti.

Più indagini, conclusesi con provvedimenti cautelari, hanno indicato nei centri di stoccaggio e nelle società di intermediazione degli snodi favorevolissimi per la criminalità organizzata. Ecco perché sarebbe stato importantissimo che si fosse applicata la sanzione della interdizione alle persone giuridiche e non ai singoli soggetti prestanome.

Meraviglia che a fronte di un progetto come quello illustrato dal professor Manna il parlamento abbia poi partorito quel topolino che è l'articolo 53 bis del noto decreto legislativo, che peraltro non sarà mai applicato.

Il legislatore ha introdotto per la prima volta un delitto, ma così come è strutturato non può meritare alcun futuro.

Le organizzazioni criminali hanno affinato in misura sempre maggiore la loro capacità di gestione di questi traffici illegali su scala nazionale e anche internazionale, rendendo sempre più difficoltosa l'azione di contrasto delle forze dell'ordine e della magistratura. Centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti di ogni genere sono smaltite in discariche non autorizzate, costituite da cave che si ottengono dallo sfettamento di intere montagne oppure da enormi buche ricavate in fondi agricoli, sulle quali, una volta ricoperte, vengono praticate addirittura delle colture. Si hanno casi di cavolfiori bellissimi, molto più duri e più grossi di quelli normali, ottenuti con l'uso dei fanghi forniti dalla camorra.

Si sono prodotti danni inestimabili e a volte irreparabili alla salute pubblica e all'ambiente e notevolissimi profitti per le organizzazioni criminali stimati per difetto in seimila miliardi di lire l'anno. La magistratura punitiva, della quale Gianfranco Amendola e Mario Almerighi sono stati antesignani, ha potuto operare solo con strumenti spuntati. La procura nazionale antimafia nel 1993-94 cominciò ad interessarsi di queste armi spuntate e della necessità, per converso, di intervenire a tutti i costi in questo fenomeno veramente catastrofico. Fu pensato di costituire un gruppo che andasse a verificare procedimenti per reati ambientali presso le preture e le procure circondariali e ordinarie. Il progetto, anche se ambizioso e difficile, diede i suoi risultati e si raggiunse l'obiettivo di contestare l'articolo 416 bis a coloro che erano gestori di imprese in odore di mafia.

In tema di repressione penale, diciamo brutalmente: c'è forse sul piatto della bilancia, di fronte a questi fenomeni, una coscienza parlamentare pari a quella che ha acquisito la società civile? Per sconfiggere il riciclaggio si pretendeva che le operazioni bancarie non dovessero superare i venti milioni e la gente cominciava a versare diciannove milioni e mezzo e faceva lo stesso il riciclaggio. Adesso per i rifiuti si parla di "ingenti quantitativi" e allora si porteranno molti quantitativi normali. Si formerà una giurisprudenza che potrà essere capovolta, ma intanto il fenomeno continuerà. Che modo di fare le leggi è questo?

La nostra tradizione giuridica non ha finora elaborato una riforma organica del codice penale nel settore della responsabilità delle persone giuridiche, da cui il diritto penale trae continuo alimento, perché ha dimostrato che alcune forme di attentato all'ambiente, così come alcune strategie di corruzione nei confronti di pubblici funzionari, sono il frutto di vere e proprie politiche aziendali e non il risultato dell'iniziativa individuale degli organi di società che operano in settori ad alto rischio ambientale.

Altre nazioni, come la Spagna e il Portogallo, che hanno una vecchia cultura in materia di ambiente, prevedono delitti puniti con pene severe; noi dobbiamo addirittura introdurre delle forme che già esistono per altri reati nel nostro codice. Ci troviamo di fronte a reati gravissimi: si pensi alle scorie radioattive o agli armamenti dei paesi dell'Est; si pensi alle nostre autostrade e addirittura alle case costruite con mattoni impastati di polvere di alluminio.

Qui c'è un rischio enorme per la salute pubblica oltre che un attentato all'ambiente. Solo percorrendo insieme la via della repressione, della prevenzione, dei controlli amministrativi si potrà tentare di arginare lo scempio provocato all'ambiente dal traffico illegale di rifiuti, definito con immagine plastica "furto di futuro", cioè frutto in danno delle future generazioni.

PATRIZIA FANTILLI. UN APPELLO

Il Wwf ritiene che sia assolutamente necessaria una mobilitazione non solo delle associazioni ambientaliste ma della magistratura, degli avvocati, dei giuristi, della cosiddetta società civile per avere finalmente nel nostro codice penale i delitti ambientali. Occorre che quella giustizia che ha la spada di latta disponga invece di un'arma letale nei confronti dei crimini ambientali, quelli che provocano la distruzione della natura, dell'ambiente, del paesaggio e attentano alla nostra stessa salute. Avere finalmente i delitti ambientali nel nostro ordinamento giuridico potrebbe significare per l'Italia essere il primo paese europeo ad operare nel senso di un proposta di direttiva rivolta alla protezione dell'ambiente.

La situazione attuale vede diversi disegni di legge che, una volta approvati, smantelleranno la legislazione ambientale che con tanta fatica si è ottenuta in Italia negli ultimi venti anni. Paro anzitutto della cosiddetta legge obiettivo che con l'alibi della semplificazione delle procedure istruttorie per la realizzazione di opere pubbliche dà praticamente una delega in bianco all'esecutivo per riformare tutte le più importanti leggi di tutela ambientale, che tra l'altro sono tutte di derivazione europea. Si intende intervenire sulla legge Merloni che non solo è di derivazione europea, ma credo che sia stata e sia tuttora uno strumento per combattere l'illegalità. Mi riferisco alla normativa sui rifiuti e a quella sulle autorizzazioni edilizie e urbanistiche. Insomma, non rimane quasi nulla del corpo delle leggi ambientali italiane.

Un altro disegno di legge, a nostro avviso ancora peggiore, è quello noto come Tremonti bis per il rilancio dell'economia, laddove si prevede, accanto alla sanatoria per le imprese che abbiano illegalmente fatto ricorso al lavoro neo, una ben più grave sanatoria ovvero un condono che abbiamo definito tombale per tutti i reati ambientali compiuti dagli imprenditori che si autodenuncino. Riteniamo gravissima l'approvazione di questa legge perché i tratta di un premio ad imprenditori che hanno violato doppiamente le leggi: quelle a tutela dei lavoratori e quelle a tutela dell'ambiente.

Possiamo infine aggiungere un disegno di legge che riguarda le agenzie di controllo ambientale. Ci si sta riportando indietro di anni, perché l'agenzia per la protezione civile non esiste più, è diventata un dipartimento sotto la competenza della presidenza del consiglio; c'è stato uno smantellamento del corpo forestale dello Stato con il trasferimento del 70 per cento degli uomini alle regioni.

Il Wwf, insieme ad altre associazioni come Legambiente, rivolge a tutti i possibili interlocutori un appello accorato per una mobilitazione contro il disegno di smantellare il corpo più importante delle leggi d tutela ambientale. Chiediamo che altre voci si aggiungano a quelle delle associazioni ambientaliste, che pure rappresentano tantissime persone; ma dall'altra parte ci sono poteri ben più forti e più grossi di noi. C'è persino la criminalità organizzata, per cui rinnoviamo i nostro appello sperando che venga accolto.

GIUSEPPE COTTURRI. L'ETICA

L'associazione Cittadinanza attiva si muove su due piani: da un lato cerca di incanalare la spinta spontanea dei cittadini traducendo la mera protesta in interventi operativi per la realizzazione di beni comuni; dall'atro lato promuove una spinta e anche una elaborazione di proposte per la modifica delle leggi ordinarie e costituzionali. Fin dai tempi dei terremoti nell'Irpinia e, più recentemente, dopo i fatti di Sarno abbiamo impegnato la nostra organizzazione in attività non solo di solidarietà e sostegno volontario, ma anche di monitoraggio. Quest'anno lanciamo il programma "Noi ci guardiamo intorno" e concorriamo a formare dei monitori del territorio segnalando ai poteri e alle istituzioni pubbliche, ma anche alle popolazioni, la necessità di interventi tempestivi sul piano della prevenzione.

Il nostro impegno principale è piuttosto diretto alla costituzionalizzazione del bene del valore ambiente. Se questa battaglia fosse stata vinta, anche la legislazione penalistica avrebbe un aggancio molto forte. Ricordiamo tutti ce nella Costituzione c'è l'articolo 9 che tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico. Si cominciò ad andare al di là di questa formulazione quando, all'inizio degli anni novanta, si pensava che fosse prossimo il momento di un miglioramento del testo costituzionale e che anche questo aspetto potesse formare oggetto di revisione. In quell'anno si tenne ad Erice un convegno promosso dalla Cassazione e dal Centro francescano per gli studi ambientali di Roma. In quella sede si formularono delle proposte interessanti sul piano giuridico per passare dalla tutela degli interessi diffusi alla configurazione di una vera e propria posizione di diritto soggettivo del cittadino alla tutela ambientale. Ma la parte più interessante sotto il profilo etico riguardava un rapporto tra uomo e natura che potesse essere formalizzato uscendo da una certa visione antropocentrica in cui i beni ambientali sono solo strumento e non invece il dato naturale ella vita umana e di ogni altro essere vivente. Questa discussione non ha avuto molto eco, ma su questo punto eravamo e siamo convinti che il principio costituzionale della tutela ambientale, così come gli altri di carattere fondamentale, non sia a disposizione di alcuna maggioranza e non possa essere sottoposto a revisione.

PAGINA CINQUE

GARANZIE ED EFFICIENZA NE PROCESSO

Convegno tenutosi a Palazzo Baldassini in Roma

CARLO FEDERICO GROSSO. SPAZI DI FORMAZIONE COMUNI

Desidero innanzitutto ringraziare il presidente Almerighi per avermi voluto invitare a questa importante assemblea fondativa della Associazione "Isonomia"; e credo che sia molto importante che si trovino degli spazi comuni di discussione su problemi fondamentali fra operatori impegnati su versanti non opposti, ma sicuramente diversi della giustizia. E credo che trovare gli spazi comuni sia estremamente importante per cercare di creare una cultura nuova attraverso la quale si riesca a varare delle riforme condivise. Credo che dobbiamo partire da una constatazione di fatto assolutamente ineludibile, cioè che oggi la cultura media dell’avvocato è cultura qualitativamente diversa dalla cultura media del magistrato. Ci sono oggettivamente due culture, che non sono altro, secondo me, che il riflesso delle diverse esperienze professionali. I magistrati evidentemente non possono che esprimere ciò che è il frutto della loro esperienza come gli avvocati, che sono abituati a vivere il mondo della giustizia in un modo, non possono che rispecchiare, nel momento in cui si apre una lunga dialettica sui problemi, l’espressione e il frutto della loro esperienza.

È stato detto, ed io ci credo, che l’avvocato non è organo di giustizia: l’avvocato è soltanto parte. Sono ancora convinto che il pubblico ministero non sia soltanto parte; direi che proprio alla base della deontologia professionale dell’avvocato e della deontologia professionale del magistrato pubblico ministero c’è almeno un elemento che li differenzia profondamente e che finché rimane (penso che dovrebbe rimanere) farà sì che queste due parti non saranno mai nei fatti parti uguali. Il pubblico ministero ha un dovere deontologico molto importante e quando acquisisce elementi a favore dell’imputato deve buttarli sul tavolo. L’avvocato ha un principio deontologico opposto: se ha degli elementi contrari è obbligato a non buttarli sul tavolo, perché se no perderebbe la fiducia di colui che si è rivolto a lui perché lo assista nel processo. E questa è una differenza fondamentale che mi auguro rimanga sempre. Ciò non toglie però che si possano trovare, nonostante queste diversità di essere parte, degli elementi di soluzione comune.

Proprio sul tema della garanzia la cultura dell’avvocato e la cultura del magistrato tendono a divaricarsi. Vorrei ricordare soprattutto un profilo che secondo me è estremamente importante perché è la base di ogni garanzia del processo penale. Tutto sommato vi ha già fatto un cenno l’avvocato Flamminii Minuto quando si è posto il problema di che cosa sia il processo penale; è strumento di difesa sociale oppure è strumento per accertare la colpevolezza o la non colpevolezza del singolo imputato? E io rispondo (e qui sono d’accordissimo con l’avvocato Flamminii Minuto): il processo penale come tale non deve e non può essere strumento di difesa sociale; sono le norme che devono essere strumento di difesa sociale. Il processo è il luogo dove nella dialettica fra le parti processuali mediate dall’attività del giudice si deve cercare di trovare la verità processuale e giudicare il singolo imputato.

È questo lo scopo del processo penale. Ma allora direi che forse alla base di tutte le garanzie c’è quella che potremmo chiamare tra virgolette la garanzia di tutela dell’innocente e cioè il principio fondamentale secondo cui nessuno può essere considerato colpevole, e pertanto condannato, se non c’è la prova certa della sua responsabilità, dove per prova certa non intendiamo una certezza assoluta ma quella altissima probabilità che si avvicini alla certezza. Questo principio fondamentale si desume, ma soltanto indirettamente, dal principio di presunzione di innocenza; però trova il suo contrappunto in un altro principio espresso dal nostro codice di rito: il principio del libero convincimento del giudice. E rischia di configgere perché, se c’è il principio del libero convincimento del giudice, parrebbe possibile dire: il giudice è libero di interpretare soggettivamente gli elementi di prova. Eh no! Questo non sta scritto in nessuna norma espressa, ma direi che deve essere l’essenza di un codice di procedura penale democratico: nella utilizzazione del suo libero convincimento il giudice deve trovare il limite della prova certa, altrimenti sono guai. Sul vecchio quesito se sia meglio mandare assolto un colpevole o condannare un innocente i vecchi liberali dell’Ottocento, da Carrara a Lucchini a Carmignani, non avevano dubbi. Sulle garanzie di diritto processuale mi limito a dire questo come contributo al convegno.

Teniamo presente che una garanzia reale nel campo della giustizia penale non si può realizzare se, oltre che la garanzia nel processo, non viene realizzata la garanzia nel sistema di diritto penale sostanziale. Anzi molte volte, se abbiamo fattispecie elastiche, se il giudice ha un eccessivo potere discrezionale nel determinare la pena, se vi sono istituti che deviano rispetto all’esigenza della certezza della pena e rompono l’equilibrio che deve esistere fra reato e pena (basta pensare alla disciplina del patteggiamento o alla disciplina del rito abbreviato oggi, che consentano deviazioni dal principio fondamentale di rapporto pena-reato senza dare nessuna indicazione di criteri di utilizzazione di questi strumenti), rischia a questo punto di rompersi a monte del processo penale un equilibrio che invece deve esistere. Ecco allora che, nel momento in cui si parla di garanzie, bisogna sempre affrontare unitariamente il problema.

Direi che vi sono tre nodi fondamentali delle garanzie di diritto penale sostanziale che costituiscono il presupposto indispensabile perché si realizzi un processo penale veramente garantito: sono tre aspetti che si inseriscono sotto l’etichetta più generale di tassatività dei presupposti, generali e speciali, della responsabilità penale. Sul piano generale una grossa attenzione va rivolta alla disciplina del rapporto di causalità. Abbiamo visto alcune sentenze della Corte di cassazione che ci hanno strabiliato nel momento in cui hanno utilizzato il criterio statistico, dove la probabilità intesa come il cinquanta più uno veniva posta a fondamento di condanne penali; ci sono degli esempi storici, che non sto qui a raccontare, di condanne penali basate sul criterio del minimo probabilistico. Questi atteggiamenti della Cassazione devono essere assolutamente superati; bisogna riaffermare con forza il principio secondo cui in tema di rapporto causale è necessario attenersi al criterio della condizionalità necessaria. In materia di causalità nei reati omissivi bisogna stabilire con chiarezza che, certo, non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, ma con l’aggiunta: con certezza; soltanto in questo modo si riporta il discorso del rapporto causale entro i necessari confini di quella determinatezza che è presupposto di legalità.

Il secondo nodo riguarda il tentativo e il concorso di persona nel reato, che oggi sono strumenti di applicazione estremamente elastica dei princìpi fondamentali della responsabilità penale. Il terzo è il problema della sanzione e la necessità di un ritorno ad un concetto di pena certa e prevedibile. Non sto qui ad analizzare gli strumenti possibili per un ritorno a questo concetto di pena certa e prevedibile; comunque anche questo è un presupposto indispensabile perché si possa ritornare ad un sistema veramente garantito nella sostanza prima ancora che nel processo.

Mi auguro che questa Associazione sappia affrontare pian piano tutti questi problemi. Già il primo argomento, separazione o non separazione delle carriere, è un tema che, al di là dell’etichetta, sarà fonte di un dibattito di sostanza molto rilevante. Spero che a questo primo tema ne seguano altri altrettanto importanti per raggiungere un obiettivo. Spero sinceramente, in un paese in cui molte volte il termine garanzia è stato utilizzato strumentalmente da alcune persone per introdurre princìpi di copertura nei confronti di personaggi importanti giustamente accusati di gravi reati, che si ritorni ad affrontare il problema nella sua vera realtà, perché garanzia è la sostanza di un diritto processuale penale liberal-democratico; ed evidentemente un paese che vuole continuare ad essere democratico deve realizzare fino in fondo questo sano principio di garanzia.

GIOVANNI GALLONI. LE BASI CULTURALI

Ringrazio il dottor Sciascia per la sua utile indicazione finale; e lo ringrazio insieme con gli altri due relatori. Abbiamo concluso questa parte relativa al processo civile, che è – lo sottolineo – la più delicata, perché si parla tanto dei guai del processo penale, che sono i più clamorosi, eclatanti, visibili, ma i guai del processo civile sono più profondi, anche se se ne parla meno. Ma se ne parla da lungo tempo. Quando arrivai al Consiglio superiore della magistratura se ne parlava già da un decennio; e già allora si era formulata l’espressione "denegazione di processo... al civile". E i rimedi li avevamo già proposti. Ricordo che durante la gestione del Csm precedente la mia, che era quella presieduta dall’amico e collega Mirabelli, già avevamo fatto delle proposte nella commissione riforme, che allora mi pare si chiamasse commissione giustizia. Proprio l’altro giorno – mi scusi il vice presidente – quando ho visto il dibattito che c’è stato al Csm alla presenza del Capo dello Stato mi sono un po’ meravigliato, perché erano gli stessi discorsi (mi scusi, questo non vuole essere offensivo nei confronti dell’attuale Csm) che si facevano all’epoca mia, all’epoca di Mirabelli, all’epoca di Bachelet. Le cose sono rimaste ferme.

C’è un leggero miglioramento. Certo è nelle cose; qualche cosa di miglioramento c’è. Si è detto che si avverte una riduzione del processo di primo grado, seppure minima. Ci furono alcuni presidenti, i primi presidenti della Cassazione, che si diedero da fare al loro livello. Però in complesso i tempi non sono diminuiti. E questo per la ragione che già questa mattina era stata messa in rilievo non solo con riferimento al processo civile, ma anche con riferimento al processo penale. E già l’avevamo rilevata noi, quando nella mia gestione del Csm si approfondì il discorso, si fecero gli esami di diritto comparato, si vide che paesi che avevano allora un peso di giustizia analogo al nostro (allora era la Germania occidentale prima dell’unificazione, in parte l’Inghilterra e la Francia) disponevano di strutture ben diverse. Quando abbiamo visto che il bilancio della giustizia in Francia, in Germania, in Inghilterra si aggirava tra il 2 e il 3 per cento, mentre il nostro (allora: adesso è leggermente superiore) non arrivava neanche all’1 per cento, era chiaro che poi le cose non potevano quadrare. In Germania occidentale, con un carico di giustizia penale e civile analogo al nostro, avevano 18.000 magistrati di ruolo; in Inghilterra molti di meno, ma c’era il compenso dei volontari, degli avvocati, giudici di pace, per cui si arrivava praticamente alle stesse cifre. E noi avevamo quasi la metà, con meno di 8.000 magistrati complessivamente tra civile e penale. Adesso siamo andati potenzialmente al di sopra; finalmente il nostro punto di vista di avere almeno mille magistrati in più negli organici è stato accolto, anche se non è ancora stato realizzato. Non è stata realizzata bene la celerità dei concorsi: e pensare che avevamo proposto un decreto legge che accelerasse i concorsi e non ci è stato mai approvato.

In queste condizioni, si pone la prospettiva di andare verso un’integrazione tra i giudici ordinari e i giudici che provengono dall’avvocatura, però con adeguate garanzie. E di qui la prima garanzia, sulla quale si è parlato poco questa mattina; ma mi sembra che sia il caso di approfondirla. Ed è un po’ anche la ragione per cui sono stato chiamato io: bisogna arrivare il più celermente possibile a unificare le basi culturali di formazione dei magistrati, degli avvocati e dei notai, soprattutto essendo entrata in vigore (ancora non sappiamo se funzionerà, e poi bisognerà farla funzionare meglio) la legge sulle deleghe ai notai, che possono esercitarle in molte cause, che sono lunghissime; pensiamo a quanto sono lunghe le cause di divisione ereditaria: con le deleghe ai notai è possibile arrivare a delle accelerazioni. Però bisogna creare il clima culturale comune, realizzato il quale molti problemi che si sono posti negli ultimi anni attorno alla divisione della magistratura – magistratura requirente da una parte, magistratura giudicante dall’altra – non avrebbero più senso, sarebbero già risolti di per sé. Bisogna arrivare a una integrazione culturale sempre più forte tra magistrati, avvocati e notai. Solamente su questa base, più una base finanziaria, riforme ben congegnate possono incominciare ad avere i loro effetti.

Questa mattina si è parlato di tante cose che si possono fare e che sono state indicate sia dall’avvocatessa Nissolino, sia da Arieta e da Sciascia; ma richiedono finanziamenti adeguati. Insisto sulla formazione comune, che vorrei suggerire al mio successore al Consiglio superiore della magistratura che si occupa tanto di queste cose come noi ce ne siamo occupati a nostro tempo. Vedo che l’attuale Consiglio occupandosi della formazione dei magistrati distingue tra la formazione preventiva e la formazione in servizio. Ma se arriveremo a utilizzare molti avvocati nelle diverse funzioni (giudice di pace, Goa, quelli che una volta si chiamavano i pretori onorari, che adesso si dovranno chiamare giudici onorari) perché non pensiamo anche a una formazione di questi? Dobbiamo preoccuparci non solamente dei magistrati effettivi, ma anche di quelli onorari.

C’è poi il discorso sulla informatizzazione, che ormai diventa una cosa fondamentale ma richiede anche spese. Oggi funziona abbastanza bene per le cause della Cassazione e del Consiglio di Stato; ma bisogna pensare anche alle cause a livello di sentenze locali, per dare le nozioni formative e informative necessarie, che insieme con la funzione nomofilattica della Cassazione possono avere un certo effetto. Perché è andata così in decadenza la funzione nomofilattica della Cassazione? Perché c’è stata da parte degli stessi magistrati la preoccupazione, che in qualche momento era giusta e in altri momenti no, che la funzione nomofilattica della Cassazione fosse usata per togliere la libertà di decisione ai giudici. E invece i giudici devono conoscere qual è l’orientamento della Cassazione e se vanno di avviso diverso devono essere in grado di motivarlo adeguatamente.

Così pure va affrontato un problema di cui tanto si parla: non è possibile che i magistrati – si fa grande scandalo – vadano avanti nelle loro carriere esclusivamente sulla base dell’anzianità. Sì, però guardiamo i precedenti storici e domandiamoci perché siamo arrivati a questo. Ci siamo arrivati perché un tempo c’era stato un eccesso da parte della Cassazione, che aveva praticamente collegato le promozioni all’osservanza di questa nomofilachia; per cui si è reagito, si è detto: non dobbiamo essere subalterni nelle promozioni né al potere politico, né al potere di vertice della Cassazione. Qualche cosa di diverso si potrebbe fare. Un’idea mia, da tanto tempo, quando ero al Consiglio superiore, era quella che a un certo momento, rendendo obbligatoria la formazione di servizio per tutti i magistrati, si potesse dare a ogni magistrato una valutazione anche sulla base delle relazioni che facevano e delle attività, dei risultati ottenuti in quella sede; e che questi fossero elementi che potessero contare anche ai finì degli avanzamenti e delle accelerazioni di avanzamenti di carriera rispetto all’anzianità.

Questi sono elementi che richiedono giustamente provvedimenti finanziari, così come le camere di conciliazione (meno), il gratuito patrocinio (più), la costruzione del tribunale della famiglia: anche questa è una delle nostre esigenze. Abbiamo dispersioni di trattamento sulla famiglia estremamente gravi, tra quello che si fa nella sezione apposita del tribunale di famiglia, quello che si fa in altra sede, in sede di tutela e in sede penale soprattutto; perché i problemi ritornano; ritornano e devono essere visti per quello che sono. I problemi si possono affrontare, ma in maniera organica e avendo presenti i costi che comportano. Allora si può arrivare ad un miglioramento della giustizia e anche a un acceleramento dei tempi della giustizia.

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ISONOMIA è l’organo ufficiale della omonima Associazione ed è rivolto agli addetti ai lavori e in genere ai cittadini allo scopo di favorirne la conoscenza del mondo giudiziario con il quale le circostanze della vita possono metterli a contatto. In questo senso la divulgazione di conoscenze specifiche aiuta ogni persona normale a non trovarsi impreparata di fronte ad eventi spesso imprevedibili. Nel momento in cui più aspra si presenta la dialettica intorno a scottanti problemi amplificati dalla impostazione fortemente politica con cui procede il dibattito, si dimostra sempre più utile, se non addirittura necessario, disporre di una sede dove lo spirito critico prevalga su quello polemico e con piena consapevolezza, con alta onestà intellettuale e forte dose di buona volontà personale favorisca un dialogo costruttivo da cui possano emergere soluzioni valide nell’ovvio presupposto del rispetto del principio di legalità.

GARANZIE ED EFFICIENZA NE PROCESSO

Convegno tenutosi a Palazzo Baldassini in Roma

CESARE MIRABELLI. UNA VISIONE NON PESSIMISTICA

Ci avviciniamo alla settima ora di ascolto e perciò da una parte c’è la fatica di seguire nuove voci; dall’altra devo dire che penso di avere impiegato bene il mio tempo ascoltando questa giornata di lavori, perché gli stimoli, le suggestioni sono tante, inducono ad approfondimento; ma soprattutto mi pare estremamente positivo il clima: un segno di apertura, di sviluppo, perché altre sedi di dialogo vi sono, vi sono sempre state, più o meno aperte; il segno di un cammino che può essere compiuto e che dà una impostazione di metodo su come affrontare alcuni problemi e di contenuto quanto ai rapporti.

La giurisdizione: si parla, si è sempre parlato di crisi; preferirei forse, non per una lettura ottimistica, parlare di problematicità della giurisdizione, perché ci sono profili che sono dell’oggi e che la contrassegnano in modo diverso anche rispetto al passato. Del resto, di crisi si parla altrove e si è parlato direi sempre nel nostro paese. Altrove: due sensazioni da rassegna stampa. Nei giorni scorsi, scorrendo queste raccolte di notizie, leggo che in un piccolo paese de nostra Europa, nel Portogallo, si sottolinea la drammaticità della situazione per la eccessiva durata dei processi. Sempre scorrendo queste rassegne stampa, se mal non ricordo, in Francia c’è una protesta molto vigorosa del mondo della magistratura per modifiche processuali che sembrerebbero limitarne le potenzialità di azione. Se attraverso la Manica evado in Gran Bretagna, in un mondo idilliaco sotto il profilo della giurisdizione nelle nostre visioni, seguo il dibattito che vi è stato vivessimo su quello che sarebbe l’impatto e l’effetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul loro sistema giudiziario. Una volta recepita ed entrata in vigore la Convenzione di Roma come vincolante per il loro sistema, che accade di un sistema di appelli nei quali la concessione del gravame è atto riferito idealmente al sovrano che ammette o non ammette ed è oggetto di attribuzione da parte del giudice il quale pure valuta in sede di ricorso da parte dell’interessato con una concretezza e dialogicità tra giudice e avvocato che suppone una conoscenza piena del processo da parte dell’uno e dell’altro? Che cosa c’è da dire quanto al giudice naturale in un sistema che astrattamente, ma non solo astrattamente, prevede che il Lord degli appelli, noi diremmo il presidente della Corte degli appelli, può andare in ogni ufficio giudiziario a presiedere qualsiasi giudizio, scegliendo lui quale? Certamente avremmo delle perplessità.

Questo per dire che i problemi sono generali. E nel nostro paese, se leggessimo le relazioni dei procuratori generali di inizio del secolo, troveremmo una serie di drammatici appelli al superamento dei problemi che si ripetono, con modalità diverse e contenuti talvolta affini, a distanza di un secolo. Utilizzando una frase che credo fosse di un grande e celebre politico d’oltralpe – non vorrei sbagliare nel ricordo – dovremmo dire che eravamo sull’orlo del baratro e da allora abbiamo fatto diversi passi in avanti. Non è così, perché ne inventiamo sempre una nuova. Intasata Strasburgo e avendo la gran parte dell’attività di quell’organo di giustizia internazionale dedita a condannare il nostro paese per ritardi, inventiamo questa legge di equa riparazione, che da una parte tende a sgonfiare il contenzioso altrui e dall’altra non vorrei che richiamasse alla mente quasi una obbligazione alternativa: erogo il servizio giurisdizione o provvedo alla equa riparazione?

Perciò i problemi sono tanti e spesso siamo inseriti nei micro senza vedere il moto profondo che c’è sotto. C’è un moto profondo, che non avvertiamo pienamente, che tocca complessivamente la condizione dello Stato, la sovranità, la giurisdizione in sé, i rapporti tra ordinamenti; e i giuristi su questo hanno una responsabilità e un potere: un potere nella rilettura e nella organizzazione di un sistema; una responsabilità anche in questo lavoro di integrazione. Cominciamo dalle fonti. E’ un dato di esperienza questo moltiplicarsi non solo nel numero ma nella qualità delle fonti: interne, internazionali, nazionali a diverso livello; ma anche fonti – uso questo termine impropriamente – informali. Organizzazioni relative al commercio internazionale, organizzazioni di settore non producono diritto che poi trova applicazione e in questa globalizzazione non creano mercato dei diritti; via via perdendo proprio questo requisito di esclusività nell’ambito dello Stato le parti sono idonee a scegliere la legge regolatrice del loro rapporto e aggiungerei a scegliere la giurisdizione che deciderà della loro controversia. Scherzosamente dicevo stamane che quando ci sarà la linea veloce Torino-Lione – lo dicevo io a un torinese – non vorrei che a Lione organizzassero una sezione del loro organo di giurisdizione per gli affari piemontesi. Lo dico scherzosamente, ma non è questo, perché anche altrove problemi ce ne sono: c’è da una parte un moltiplicarsi innumerevole di rapporti. Noi eravamo attrezzati e abituati a un mondo del diritto nel quale i rapporti che fanno capo a un soggetto sono limitati e duraturi nel tempo; le cause tradizionali erano quelle ereditarie, di rapporto tra vicini, di condominio se si vuole, di rapporti obbligatori; ma quanti rapporti giuridici potenzialmente contenziosi facevano capo a un soggetto cento anni fa, cinquant’anni fa, trent’anni fa e oggi? Qual è la velocità di circolazione di questi rapporti, della loro produzione e morte? Cento anni fa, cinquanta anni fa, venti anni fa, oggi, domani: commercio elettronico, attività legata alla informatizzazione.

Allora è un sistema che fatica, perché vi è un pluralismo di fonti da rimettere a regime; si assiste, sì come rango di fonti, ma sotto questo aspetto a una fittizia delegificazione: quando la fonte legge viene trasformata in fonte regolamento o in fonte che l’autonomia collettiva o l’autonomia individuale deve ricreare come assetto di rapporti, in realtà manteniamo necessariamente un livello di norme formalizzate quale che sia il loro livello. Con quelle dobbiamo poi operare.

Nei sistemi che noi siamo abituati a vedere da lontano e ad apprezzare c’è il precedente vincolante, la libertà contrattuale tale da costruire i rapporti tra soggetti nella maniera più libera; poi ci avviciniamo a dei contratti che cominciano con clausole definitorie perché il loro sistema non le prevede e per un qualsiasi contratto c’è un libro che è preparato e sottoscritto dalle parti. Lo dico anche qui esasperando ed esagerando; ma attenzione che a volte proprio una precisa ma completa disciplina normativa è uno strumento di rapidità per l’attività negoziale. I contratti più rilevanti possono essere scritti in mezzo foglio bollato, in un sistema ben codificato; un contratto di interesse certamente minore esige una completezza di produzione in altri sistemi che richiede un costo ben diverso.

C’è una esistenza di rapporti enne volte superiore al passato e una potenzialità di contenzioso che è enne volte superiore al passato. In quale logica non dico vogliamo, perché potremmo voler tutto, ma possiamo metterci: in quella dell’inseguimento della domanda? Moltiplichiamo gli apparati di giustizia e immaginiamo di risolvere complessivamente i problemi con dati puramente numerico-quantitativi per singole unità di addetti? Può far l’impressione che si ha quando per fronteggiare problemi di sicurezza pubblica si adotta un provvedimento immediato che può apparire placatorio se non si può soddisfare il bisogno: cinquemila nuovi poliziotti, cinquemila nuovi addetti alla sicurezza. E’ un dato numerico o è un dato qualitativo e di organizzazione che deve prevalere? E così indubbiamente l’incremento di coloro che sono addetti alla giurisdizione può essere un elemento rilevante; ma, se è preso per una quantità in sé assoluta nella individuazione della quantità necessaria e non attiene poi né alla qualità né alla organizzazione degli apparati, avremo un nuovo squilibrio e come scherzosamente dicono alcuni che si occupano di organizzazione ogni problema che risolviamo ne creiamo altri due. Non vorrei che fosse questa la strada che ci sia da percorrere.

Problemi ce ne sono. Vediamo: formazione. E’ vero: rituffato nell’ambiente universitario, mi avvedo di quanto complicato sia il tre più due più uno, che non è una operazione aritmetica ma è una operazione, tra virgolette, culturale, perché avremo la laurea breve triennale, la laurea specialistica biennale, il corso di formazione per le professioni legali di due anni per coloro che hanno la laurea quadriennale e di un anno per coloro che avranno la laurea quinquennale, oltre, a questo punto, alle attività di tirocinio esterne. E’ un lavoro al quale ci si dedica con interesse e certamente cercando di innovare, avendo anche d’occhio le lauree parallele, perché è nata anche – e questo non è negativo: poi vedremo perché – la laurea in servizi giuridici, che avrà un suo triennio, un suo biennio specialistico con denominazioni di scienze che si diffondono e un pochino sono abusate.

Prima domanda sulla formazione: dobbiamo tendere a un modello che diffonda alcune conoscenze per operatori che siano perciò in grado di attuare secondo schemi appresi operazioni di tipo giuridico o dobbiamo tendere a far sopravvivere un elemento che rappresenta nella nostra tradizione non solo la regola, ma il valore culturale del diritto? Dobbiamo rispettare la sua storia, la sua incidenza sociale, la sua logica, il suo essere sistema o dobbiamo formare chi leggendo quotidianamente i messaggi che gli vengono confezionati sulle novità normative riesce ad applicarle per un segmento della sua conoscenza? Ho l’impressione che se si vuol formare un giurista, cioè uno laureato in giurisprudenza, la scelta culturale sia essenziale, non disgiungibile da quella operativa e formativa; e credo che su questa linea ci sia anche il mondo delle professioni. In fondo anche la tendenza a creare o sviluppare luoghi di formazione nell’ambito degli ordini professionali – da più di cinquanta anni avviata secondo una tradizione ultrasecolare ma operativamente avviata da cinquant’anni in maniera organizzata dai notai e più di recente dagli avvocati – sia positiva, come è positiva l’azione che ha svolto con grande attenzione il Consiglio superiore su questo. Con necessità di una osmosi, certamente, e di uno scambio, perché le professioni legali si completano a vicenda: non c’è giudice senza avvocato, non c’è avvocato senza un giudice e non c’è processo senza questi protagonisti professionali del processo.

Allora una prima responsabilità è proprio quella delle università, che devono aprire un dialogo più attento con il mondo delle professioni, cercando di dare un contributo formativo che non si esaurisca nella fase iniziale, ma cercando anche nella fase iniziale di attivare questi elementi di novità. Alcuni sono previsti dalla nuova legislazione: la ipotesi dei tirocini che non siano vacanzeschi ma che siano operativi; l’apertura – perché no? – delle aule di giustizia e degli uffici dei professionisti a una attività che è di studio e di formazione.

Secondo punto: modalità di selezione. Qui bisogna vedere se prevale il modello culturale o il modello informativo. Se prevale il modello informativo, procediamo in maniera meccanica dai quiz ai superquiz. Mi dicono – non so se sia esatto questo – che, calcolati i tempi di risposta di risposta ai quiz (per la verità non nei concorsi in magistratura, ma in altri concorsi analoghi), alcuni ritengono che la risposta sia stata data senza leggere completamente le domande, ma sulla base mnemonica del collegamento della risposta alle parole iniziali del quesito. Riguarda evidentemente candidati ben dotati alla "ok Corral": chi riesce prima a fulminare la domanda che emerge sullo schermo. Ma altri sistemi ce ne sono: ne viene tentato uno, questo delle scuole di formazione, dei corsi di specializzazione post-laurea. Non sarà l’unico, non è possibile che sia l’unico; del resto nella mia università dal 1990 è stato istituito un corso di formazione forense che già l’ordinamento professionale consentiva e prevedeva, ma riguarda anche lì non più di un centinaio di giovani.

Occorre una formazione che vada oltre queste scuole e che abbia dei momenti di lavoro comune tra chi si accinge a fare il magistrato, chi si accinge a fare l’avvocato; momenti di lavoro e di vita comune come ci sono in altri ordinamenti, o attraverso le varie forme di referendariato che esistono ad esempio in Germania o anche secondo un sistema diverso, ma diversissimo anche per gli accessi: in Gran Bretagna c’è questa esperienza, questo conoscersi tra magistrati e avvocati e questa reciproca affidabilità. L’avvocato che enuncia di avere un documento o enuncia una posizione è affidabile, perché se la sua enunciazione fosse sbagliata non avrebbe più credito; ma questo implica un mondo nel quale ci sia una reciprocità di conoscenza.

Il problema più grosso è quello della organizzazione, perché la giurisdizione è a sua volta sistema: sistema negli apparati che erogano questo servizio, sistema anche per gli addetti a questo servizio che tutti concorrono a produrre. La organizzazione, se riguarda gli uffici giudiziari, riguarda – mi permetterei di segnalare – anche, tra virgolette, gli uffici degli avvocati; cioè ci si avvia alla necessità di una riorganizzazione del modo di essere dell’esercizio delle professioni, non in un senso aziendalistico, ma in quello di una attività che in rapporto alle esigenze del processo, del giudizio e della giustizia non può essere più esclusivamente individual-artigianale; va stimolato un nuovo tipo di libero rapporto nell’ambito delle professioni.

Veniamo alla organizzazione della giurisdizione. Abbiamo la visione corretta che la giurisdizione è uno dei dati che caratterizzano la sovranità; come tale dovrebbe essere senza tempo e senza costo. Infatti è senza costo perché non vi è un costo per coloro che domandano giurisdizione pari al costo del servizio; e che sia senza tempo purtroppo lo vediamo agevolmente. Ma anche questo è un elemento del passato, perché ormai il tempo è un elemento che incide direttamente sulla stessa efficacia della giurisdizione: non solo sulla auspicabile tempestività, ma sulla utilità della decisione. In una serie di rapporti che sono di estrema rapidità, quali avvengono nel mondo economico, non la vittoria nel giudizio ma la certezza nel rapporto in relazione a una situazione contenziosa è un elemento decisivo per ogni tipo di calcolo economico e perciò per qualsiasi operatore che si dedichi sul mercato a produrre qualsiasi cosa. Tanto che – e forse su questo torneremo un attimo – la stessa dislocazione di risorse produttive sul piano internazionale nell’uno o nell’altro paese diventa condizionato anche dalla funzionalità della giurisdizione e dal costo, anche costo-rischio, che questo determina per gli operatori.

Di organizzazione della giurisdizione, per la verità, la nostra Costituzione parla. Abbiamo detto che l’articolo 110 della Costituzione in genere è come linea di confine tra due vicini che si guardano non in cagnesco ma un po’ per traverso: il ministro, il consiglio superiore; chi ha l’autogoverno della magistratura, chi governa l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Ma abbiamo avuto una visione banalizzata e banalizzante dell’organizzazione e del funzionamento; non è la collocazione del personale subordinato al giudice, ma è la responsabilità generale della organizzazione e del funzionamento del servizio giustizia, cioè di quel servizio che esprime la sovranità, rispetto alla quale gli addetti decidenti, cioè chi esercita la giurisdizione, sono altri, anche se inseriti nel sistema; per fini di garanzia della loro indipendenza hanno una autonomia nella organizzazione, ma il servizio ha una sua unitarietà e vi è una esigenza di organizzazione che non è affatto banale.

Altro elemento qui tenuto ai margini se non fuori della giurisdizione: l’articolo 97 della Costituzione: i pubblici uffici – perciò si dice in generale dell’amministrazione – sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità. La nostra giurisprudenza diffusissima, anche quella della Corte costituzionale per la verità, dice che le regole processuali sono fuori della linea del buon andamento perché il buon andamento riguarda la amministrazione. Però riguarda anche la amministrazione della giustizia, la organizzazione della giurisdizione. E avrei qualche dubbio che un criterio di buon andamento non riguardi anche la organizzazione del processo e quindi, in qualche misura, la stessa norma processuale, non nel senso che se ne possa verificare la compatibilità con questo principio a fini espulsivi, ma che anche le norme processuali debbano tendere alla corretta organizzazione del processo, perché il processo possa svolgere appieno la sua funzione: un processo deve essere ben organizzato, non solamente un insieme di regole astrattamente idonee a garantire la posizione dei soggetti, ma funzionale rispetto all’obiettivo e quindi che organizzi anche gli atti, togliendo il troppo e il vano; e c’è troppo e vano in molte regole processuali, come c’è molto e vano nell’uso di troppe regole processuali in modo uniforme per i diversi tipi di processo, non macro di tipo amministrativo, civile, penale, ma all’interno di ogni singolo settore.

Pensiamo – era una sollecitazione che mi veniva – alle cause previdenziali. Se è vero che il 30 per cento del carico di lavoro del giudice civile è in materia di lavoro e previdenza e di questo 30 per cento il 60 per cento è di previdenza, allora significa che è un elemento enorme. E strutturare il processo previdenziale, che ha una scansione semplice, nella quale l’attività di perizia prevale o spesso è risolvente, e impostare secondo un modello contenzioso ben diverso questo tipo di processo ha la stessa razionalità talvolta che mettere un chiodo utilizzando una pressa anziché il martello. Allora è un elemento nel quale costo, che significa organizzazione, e funzione si unificano e bisogna tener conto di questi elementi. Perciò giurisdizione come organizzazione, come individuazione delle professionalità che sono richieste. Menzionavo prima la laurea in servizi giuridici: non è banale quanto a possibilità e potenzialità di mutamento culturale, individuando figure di professionalità diverse dal giudice, diverse dal personale di segreteria arruolato per grandi numeri. Il rapporto che c’è, credo, nel nostro paese tra magistrati e personale addetto è analogo a quello di ogni altro paese europeo: normalmente è di uno a tre; probabilmente la funzionalità non ha lo stesso rilievo, nonostante una incisiva tendenza anche alla informatizzazione.

Oggi è necessario, nel mondo delle professioni e fuori di esse, stabilire, ad esempio, chi abbia capacità di documentazione giuridica: perciò non di soluzione dei problemi, ma di ricerca delle fonti, di organizzazione dei dati, di preparazione di dossier a questi fini. E quanto un lavoro di questo tipo agevolerebbe il giudice nel decidere o anche i professionisti nello svolgere il loro ruolo e la loro attività? Cioè con un costo che è commisurato a una professionalità sprecata per la attività.

Allora vanno disegnate le funzioni in senso proprio. Così pure per la infomatizzazione è immaginabile che ci siano momenti di autoformazione o non vanno individuati anche negli accessi dei criteri di selezione del personale che abbia un tipo di qualificazione necessario a questi fini? Altrimenti avremo una funzione che viene esercitata in modo volontaristico, se occorre autoqualificarsi, e nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria occorreranno almeno dieci anni perché chi ha buona volontà acquisisca una competenza informatica. E allora organizzazione significa individuare come gli apparati debbono essere organizzati in rapporto a tali obiettivi, con quali risorse, e verificando anche quali effetti sull’organizzazione hanno i mutamenti normativi.

Quando ascolto – ed era prevedibile - che l’intasamento superato a livello di primo grado attraverso le misure esistenti significa iperintasamento degli appelli, era un dato cacolabile in modo simulato, individuando a campione qual è la massa delle decisioni, qual è la massa degli appelli, qual è l’effetto sull’incremento del primo grado in rapporto al secondo. Perciò non è una sventura o un effetto imprevedibile: si tratta di elaborare modelli, di fare delle analisi per le quali il costo è sicuramente inferiore al costo che si paga poi per effetto della disorganizzazione.

Informatizzazione: anche qui si possono avere due visioni; una informatizzazione di servizi, che può essere minimale o può essere anche macro. A volte è visibile in paesi nei quali questo è un dato necessario. Mi sorprendeva molto e lo vedevo anche con una punta di invidia, al tribunale supremo d Brasilia, che su ogni fascicolo ci fosse un codice a barre; un lettore consente non solo di individuare i listini, ma di fare gli avvisi agli avvocati, di ricevere – perché cinque ore di volo sono tante per andare da un capo all’altro del paese – gli atti giudiziari per internet e così via. Ma anche lì, se non ci si organizza per modulare la risposta in rapporto alla domanda e modificare anche la domanda quando questo sia necessario, i problemi si pongono per far fronte al sovraccarico del tribunale supremo che per la verità ha quindici giudici. Rispetto ai nostri numeri siamo ben lontani: è stato costituito un tribunale superiore di giustizia, che adesso arranca anch’esso; ma, ripeto, ogni paese ha i suoi problemi.

C’è da dire che forse bisogna non arrestarsi alla informatizzazione dei servizi, ma cercare di informatizzare non la trasmissione dei dati del processo, ma alcuni elementi stessi del processo. Mi ha divertito molto apprendere che nella mia università, nella facoltà di ingegneria, c’è un celebre collega il quale ha inventato il naso artificiale; lo dico non scherzosamente perché è così: cioè delle apparecchiature elettroniche che sono dei sensori; è un sistema che consente di distinguere gli odori; si è collocato su un piano internazionale in condizioni di vera eccellenza. Non dico che si tratta di inventare il giudice artificiale: tutt’altro; ma c’è una serie di elementi, in alcuni tipi di processo, che non sono valutativi ma preordinati rispetto alla valutazione. La valutazione spesso è il 10-20 per cento del lavoro che viene fatto per produrre la sentenza da parte del giudice; la informatizzazione di quel che c’è prima, dell’80 per cento, consentirebbe di utilizzare quelle risorse al momento della decisione.

Allora non bisogna arruolare ulteriori pale per spostare la terra, ma vedere se possiamo trovare un congegno che aiuti a modificare l’assetto. Allora attenzione alla moltiplicazione degli apparati, attenzione alle procedure che anziché semplificare iterano. Sono curioso di vedere quello che sarà l’effetto delle decisioni in camera di consiglio in Cassazione: se sarà deflattivo o moltiplicativo dei momenti decisori in rapporto allo stesso processo; attenzione ai sistemi di deflazione come arretramento rispetto alla garanzia della giurisdizione. Ma anche verifica delle situazioni di conflitto che possono trovare idonea soluzione giudiziale; altrimenti vi è una serie di situazioni di conflitto che impropriamente si riversano sulla giurisdizione o che, in rapporto a decisioni seriali o di massa, devono trovare un metodo processuale di composizione diversa, anche giudiziale.

Leggo con terrore dalla stampa di questi giorni che in rapporto ai problemi relativi all’incremento dei costi o delle tariffe relative alle assicurazioni obbligatorie per la responsabilità civile degli autoveicoli diecimila utenti sono pronti a far causa. Andiamo per questi numeri su problemi che sono di una decisione giuridica su un solo punto; ricordo nel passato una serie di questioni di questo tipo, che hanno impegnato i giudici del lavoro sulle indennità di mensa. Non c’è, per esempio, per quel che riguarda il diritto comunitario, un giudizio incidentale della Corte del Lussemburgo sulla interpretazione del diritto comunitario da applicare rispetto al diritto nazionale? E allora non ci sono modelli di giudizio che possano essere utilizzati in questo settore?

Una provocazione che riguarda sia i magistrati che gli avvocati: posto che nel processo civile non raramente la oralità è un mito, cioè la controfigura dell’oralità, è così fuori quadro pensare a una raccolta della documentazione o delle prove congiunta? Una preparazione del processo: nell’esperienza di altri paesi c’è, in contraddittorio tra le parti: la garanzia è quella del contraddittorio.

Chiudo con un riferimento anche alla gestione organizzata del processo, soprattutto del processo penale dove, come si suole o si può dire, si sa come si inizia e non si sa come e quando si finisce. Capisco che questo possa essere determinato da accidenti di percorso, ma è una domanda che pongo a tutti i protagonisti del processo: è così difficile fare un programma del processo, individuare quali possano essere i tempi, la scansione nella quale possono essere sentite le parti, i testimoni, gli impedimenti che ciascuno abbia in agenda, di modo che non emerga nel momento dell’udienza l’impedimento di uno che blocca altri dieci? E’ così difficile fare un programma del processo?

Mi si dirà che può accadere che salti il programma; se salta solamente nel 30 per cento dei casi significa che nel 70 per cento funzionerebbe e varrebbe la pena tentarlo. Ma questo anche innesterebbe un diverso rapporto tra giudici e avvocati, i quali possono reciprocamente programmare il loro lavoro e dare soddisfazione anche agli utenti. Anche qui, se andiamo in altri paesi, possiamo vedere affisso nella porta del giudice l’orario delle udienze scadenzate: quali parti devono trattare alle nove, quali alle nove e trenta e così via, nell’arco della intera giornata. Quella delle ore nove e seguenti diventa una finzione o una finzione del fatto che l’udienza sia veramente l’atto delle tre persone così come la norma processuale ci insegnerebbe.

Quindi occorre una visione direi non pessimistica delle cose, che induca a riflettere come molti problemi siano non di dettaglio ma profondi. Bisogna prenderne atto e cercare di ricostruire, ma anche pensare come una serie di innovazioni affidate a regole spesso di costume, a volte normative, possa aiutare a trovare soluzioni e come sul terreno della giustizia si decide non solamente la sorte di persone o di rapporti che possono essere minimi ma importantissimi, ma talvolta anche la sorte di settori dell’economia del paese.

TOM TYLER. IL RISPETTO DELLE REGOLE IN AMERICA: REGOLE DI PROCEDURA E SENSO DI GIUSTIZIA

Negli Stati Uniti le persone pensano ai poliziotti e ai giudici come ad autorità designate dalla legge titolari di una cospicua quantità di potere, che possono impiegare per far rispettare il diritto; essi sono considerati autorità le cui decisioni sono sostenute dalla possibilità di usare la sanzione in senso deterrente e alle quali si ubbidisce diffusamente. La realtà dell’autorità giudiziaria americana tuttavia è piuttosto diversa da questa immagine sotto due aspetti. In primo luogo, mentre è vero che gli americani sono generalmente persone rispettose della legge e di solito disponibili ad affidarsi alle decisioni dei poliziotti e dei giudici, il rispetto della legge non può darsi per scontato. Le autorità giudiziarie americane hanno sempre lottato per promuovere l’adesione della comunità alla legge e vi sono molti indizi che questa lotta stia diventando difficile. Trattando con particolari categorie di cittadini, i poliziotti statunitensi riferiscono di una crescente difficoltà nell’ottenere adesione alle regole, mentre i giudici riferiscono che si fa più arduo dare applicazione alle sentenze e indurre i cittadini a conformare la loro condotta alle decisioni del tribunale. Per quanto riguarda l’influenza della legge sulla vita quotidiana delle persone, è provato che con riferimento ad un’ampia gamma di comportamenti – che spaziano dal pagare le tasse sul reddito al fermarsi ad un semaforo rosso – gli americani prestano minore attenzione alla legge. La dimensione di questi problemi nel rispettare le norme non dovrebbe essere esagerata, ma l’attenzione delle autorità giudiziarie si è sempre più indirizzata alla necessità di una migliore comprensione dei motivi per i quali le persone rispettano la legge.

Le conseguenze di una scarsa legittimazione sono illustrate dall’esame dell’impatto della mancanza di fiducia e affidamento nella polizia e nei giudici ampiamente riscontrati tra le persone appartenenti a minoranze. Questa scarsa legittimazione conduce non solo a un maggior numero di comportamenti contrari alla legge in seno alle minoranze, ma anche a una generale mancanza di volontà tra i membri delle comunità minoritarie a cooperare con la polizia nell’affrontare i problemi connessi alla criminalità. Noti esempi dei problemi che nascono quando la legge diverge dalla morale comune, tratti dalla storia americana, includono il tentativo di rendere illegale il consumo di alcool (proibizionismo) e i perduranti tentativi di applicare le norme contro la prostituzione e il gioco d’azzardo. Ogni volta che la polizia tenta di applicare le norme contro condotte che settori della comunità non considerano moralmente sbagliate, il lavoro della polizia si fa più difficile.

Come si può affrontare questo problema? Un approccio possibile sarebbe di aumentare drasticamente le dimensioni delle forze di polizia e di dar loro maggiori poteri di ingerenza nella vita quotidiana delle persone, aumentando la probabilità che coloro che infrangono la legge siano arrestati e puniti per i loro reati. Questo, a sua volta, aumenterebbe la percezione del rischio di essere presi e scoraggerebbe in conseguenza le condotte criminali. Ad esempio, nella loro lotta per prevenire la guida in stato di ebbrezza, alcuni paesi permettono alla polizia di predisporre blocchi stradali casuali per fermare i conducenti, mentre in altri paesi alla polizia è consentito fermare ed interrogare ogni cittadino per strada o in macchina e persino condurlo in carcere senza accusa. Non è chiaro quanto effetto avrebbe sul comportamento della gente il dare alle autorità giudiziarie tali accresciuti poteri, ma è possibile immaginare strategie che potrebbero essere usate per rendere più efficace la deterrenza.

Vi sono molte difficoltà connesse con il tentativo di dare efficacia al principio di legalità attraverso un rafforzamento della deterrenza. Un problema è che il rinforzo del potere governativo negli Usa si scontra con una consolidata enfasi sulla libertà e i diritti dell’individuo profondamente radicata nella Dichiarazione di indipendenza, nella Costituzione americana e nel Bill of Rights. Questa tradizione democratica è stata affiancata da una generale volontà degli americani di rimettersi al governo e al diritto, ma questo rispetto non è automatico e il sospetto nei confronti del governo e la sfida alle leggi ritenute inutilmente invasive è un altro elemento consolidato della politica e della cultura giuridica americane. Aumentare il potere del governo, dunque, potrebbe avere l’effetto di minare la legittimazione e diminuire il rispetto della legge. Un altro interrogativo è se sia realistico pensare che strategie miranti a cambiare la percezione del rischio possano effettivamente modificare il comportamento delle persone.

Esiste un approccio alternativo per creare e conservare un sistema giuridico vitale? Studi recenti su come il pubblico americano reagisce alle leggi e alle decisioni delle autorità giudiziarie suggeriscono un possibile approccio. Poiché la polizia e i tribunali sono autorità regolatrici della società, sono spesso costretti a prendere decisioni i cui esiti sono visti come indesiderabili o persino iniqui dalle persone. La polizia, ad esempio, dice alla gente di non fare ciò che desidera fare e rafforza quest’ordine con le minacce, gli arresti e anche la forza fisica. I giudici devono spesso applicare la legge condannando le persone a pagare pene pecuniarie o a scontare del tempo in prigione. Si suppone che tali esiti infausti siano accettati solo quando le autorità giudiziarie sono assistite dalla minaccia o dall’uso della forza.

Studi sulle reazioni degli individui alle esperienze personali con la polizia ed i tribunali suggeriscono un’immagine diversa e più positiva di come i cittadini reagiscono alle decisioni prese dalle autorità giudiziarie. Questi studi dimostrano che le persone si servono di criteri etici per valutare le loro esperienze personali. In particolare, valutano le proprie esperienze con le autorità giudiziarie attraverso il filtro del diritto processuale. Le ricerche dimostrano costantemente che la prima ragione per cui una persona accetta o rifiuta una decisione presa dagli agenti di polizia o dai giudici è la sua valutazione della correttezza della procedura impiegata dalle autorità per pervenire a tale decisione.

In The Social Psychology of Procedural Justice, E. Allan Lind ed io abbiamo intervistato persone che si erano trovate coinvolte in questioni personali sia con agenti di polizia sia con giudici. Abbiamo ripetutamente riscontrato che le persone reagiscono con forza alle loro valutazioni dell’equità di queste autorità giudiziarie. Le persone che si sentono trattate equamente sono più portate ad accettare le decisioni, anche se queste sono sfavorevoli e a prescindere dal fatto che pensino di essere arrestate e punite se non le accettano. Perché accade ciò? Fare esperienza di procedimenti equi vincola all’obbedienza il senso del dovere delle persone; inoltre le porta a percepire le decisioni come più coerenti con i loro valori morali. Per queste ragioni, la gente è più disposta ad accettare tali decisioni. Questo risultato è importante perché suggerisce che le persone si concentrano sui profili etici piuttosto che su vantaggi e perdite personali quando reagiscono alle loro esperienze con la polizia o i tribunali. Tali conclusioni suggeriscono che le autorità giudiziarie possono vedere accolte le proprie decisioni se prestano attenzione al modo in cui esse vengono assunte. Da uno studio del 1997 compiuto da Paternoster ed altri emerge che il prolungarsi nel tempo dell’adesione a queste decisioni è maggiore se le persone si sentono personalmente responsabili nel conformarvisi e nell’obbedire a norme simili in futuro.

Quali elementi della procedura condizionano il giudizio che la gente si forma della sua equità? Ricerche suggeriscono che i membri della comunità hanno modelli complessi di giustizia processuale e che hanno spesso presenti otto o più diversi profili quando decidono dell’equità di una procedura. Di solito, quattro aspetti sono ritenuti importanti: 1) valutano la possibilità di partecipare e fornire elementi per la formazione delle decisioni; 2) vogliono che le procedure siano neutrali, vale a dire imparziali, basate su criteri che tengono conto dei fatti e fondate sull’applicazione coerente delle regole; 3) vogliono essere trattati con dignità e rispetto e vogliono che siano riconosciuti i loro diritti; 4) vogliono sentire che le autorità hanno tenuto conto dei loro bisogni e delle loro preoccupazioni e sono state oneste nel rivolgersi a loro. Nei dibattiti circa l’accettazione o no di una direttiva resa da un’autorità giudiziaria ognuna di queste preoccupazioni è di solito più importante delle valutazioni riguardanti l’equità o la vantaggiosità della decisione stessa.

Le persone attribuiscono un peso diverso a questi diversi elementi a seconda della natura del tema o del problema affrontato. Così, per esempio, la possibilità di fornire elementi è particolarmente importante quando le autorità devono risolvere una controversia che coinvolge una pluralità di persone. D’altra parte, l’etnia, il genere e lo status sociale degli individui non influenzano il loro punto di vista circa l’equità di una procedura.

Questo suggerisce che la correttezza della procedura possa essere un valido meccanismo con il quale risolvere controversie che attraversano confini di gruppo. Ricerche dimostrano che le persone appartenenti a diversi gruppi economici, sociali o ideologici hanno spesso percezioni molto diverse circa ciò che costituisce una soluzione equa e hanno vedute divergenti circa il tipo di soluzione che è più conveniente per loro e/o per il loro gruppo. Queste stesse persone, tuttavia, hanno molto più in comune quando vengono interrogate sugli attributi di un processo decisionale equo. Poiché si è notata la capacità di una procedura equa di facilitare l’accettazione delle decisioni, è incoraggiante che le persone sembrino concordare diffusamente su ciò che rende equa una procedura.

Risultati analoghi emergono quando esaminiamo l’osservanza quotidiana della legge da parte degli individui. Le persone sono maggiormente predisposte a rispettare la legge quando nutrono fiducia nell’equità delle procedure impiegate dalle autorità giudiziarie e dalle istituzioni. Così, rendendo decisioni eque, le autorità giudiziarie costruiscono una cultura giuridica in seno alla quale le persone avvertono una responsabilità personale nel conformarsi alle norme. Una società così autodisciplinata si fonda sul senso di responsabilità e sul senso del dovere degli individui e sulla loro volontà di seguire i propri valori morali. La chiave per creare e sostenere una tale società è l’impiego di procedure eque da parte delle autorità giudizìarie.

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