ISONOMIA

Periodico di informazione giuridica

Anno I, n. 2

Settembre 2001

Direttore responsabile Lillo S. Bruccoleri. Condirettori Antonio Acquaroli e Oreste Flamminii Minuto. Mensile della Associazione culturale "Isonomia". Presidente Mario Almerighi. Consiglieri effettivi: Gianfranco Amendola, Antonio Fiorella, Franco Ionta, Ugo Longo (segretario), Gianni Melillo, Fabrizio Merluzzi, Tommaso S. Sciascia, Rosalba Turco (tesoriere). Consiglieri supplenti: Erminio Amelio, Anna Argento, Giovanna Corrias Lucente, Paola Di Nicola, Paolo Iorio, Mattia M. La Marra, Marcello Marinari, Laura Nissolino, Carlo Testori, Paolo Vadalà, Andrea Vardaro, Giuseppe Zupo. Aut. tribunale di Roma n. 236 dell’8 giugno 2001. Sede: 00136 Roma, via Giovanni Gentile, 22. Numeri telefonici: 06 39735897, 06 39735051 (associazione); 06 39735052, 06 39735900, 06 39733192, fax 06 39735101, fax 06 39743333 (direzione e redazione). E-mail: isonomia60@libero.it. Internet: http://digilander.iol.it/isonomia. La collaborazione è, di norma, gratuita. Testi e materiali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Spediz. in abb. postale 45 % ex art. 2, c. 20, lett. b), legge n. 662 del 1996. Stampa: Romaprint S.r.l., 00156 Roma, via di Scorticabove, 136, tel. 06 41217552, fax 06 41224001

NON SOLO ROGATORIE

di Lillo S. Bruccoleri

Dalle cronache parlamentari di questo mese sono emersi scottanti argomenti che hanno diviso le forze politiche intorno a temi di stretto interesse giuridico processuale: la questione del rilievo da attribuire alle acquisizioni probatorie filtrate da autorità giudiziarie straniere assurge in primo piano più per il gioco delle pulsioni emotive e delle reciproche diffidenze che per il desiderio di conferire una congrua disciplina alla materia. Finché si rimanga sul piano delle dispute politiche non v’è motivo di meravigliarsi; diverso discorso si impone allorquando si registri il coinvolgimento degli operatori del diritto: dunque magistrati e avvocati, cui sta a cuore la ricerca delle soluzioni più adeguate ai problemi della giustizia, anche ponendosi dal punto di vista del cittadino. A nessuno può sfuggire l’importanza del principio di legalità; se questa opinione è condivisa, riteniamo che debba essere presa a spunto iniziale per ogni dibattito. Possono legittimamente manifestarsi orientamenti diversi e contrastanti, ma con un obiettivo unico e incontrovertibile: l’interesse pubblico a una giusta normativa.

Già nel nostro convegno su garanzie ed efficienza nel processo, di cui continuiamo a riferire in altra parte del giornale, sono state sottolineate le difficoltà di contemperamento tra i due concetti, l’efficientismo richiedendo l’attenuazione del dato formale a beneficio di quello sostanziale e il garantismo imponendo il rispetto di una serie di cautele contro ogni pericolo di sviamento. Così inquadrato l’argomento, impropria e riduttiva, per non dire semplicistica, appare la impostazione che vedrebbe schierati su fronti opposti giustizialisti e garantisti; è necessaria viceversa una riflessione più pacata che può essere raggiunta con il tempo e che consiglierebbe per il momento di rinviare a meno infuocate sedi un confronto critico piuttosto che dialettico. Karl Raimund Popper ebbe a distinguere tra l’arte di parlare per convincere e quella di parlare per ragionare, sottintendendo nel primo caso la propensione a basarsi su idee preconcette: vizio dal quale desidereremmo fortemente che il legislatore non venisse condizionato.

Un secondo terreno di scontro, anche qui eminentemente politico, ha investito la novellazione in tema di falso in bilancio, del quale pure ci occupiamo ampiamente pubblicando nelle pagine interne il contributo del procuratore della repubblica di Pescara. Ed anche qui ci sentiamo di ripetere le stesse riserve sui rischi di fuorvianti semplificazioni, tenendo presente che non può ritenersi soddisfacente, quali che siano le preferenze di merito, una legislazione scritta e concepita in un remoto contesto storico economico le cui le realtà aziendali e budgetarie non possono in alcun modo paragonarsi a quelle sviluppatesi nelle moderne economie di mercato, per di più in un sistema politico soggetto in tutta Europa a forti tensioni innovative accentuate dal processo di integrazione continentale in atto, fenomeno non ancora recepito come converrebbe nello stesso ambiente giudiziario. È naturale che l’innesto della nuova disciplina in un impianto normativo datato al punto da sembrare arcaico susciti diversità di atteggiamenti ed opinioni, non meno di quanto avverrebbe in altri settori del diritto, come per esempio quello fallimentare tuttora ancorato a una produzione legislativa elaborata in pieno periodo bellico o quello familiare saldamente derivato da princìpi e istituti nati a cavallo delle due guerre mondiali. Ma allora occorre soffermarsi sulle esigenze concrete da soddisfare e studiare i modi più corretti per rispondere alle richieste e alle aspettative della società civile complessivamente intesa. Se il giudice, oltre ad essere imparziale, deve anche apparire tale, a maggior ragione questo principio è applicabile a chi approva le leggi.

Infine, il referendum costituzionale. Anche questa è una prima esperienza e non c’è da sorprendersi se viene vissuta con una significativa dose di passionalità dai contendenti, dovendosi peraltro immaginare che anche qui le divisioni pertengano piuttosto al metodo che al merito, non risultando più in discussione la valorizzazione delle autonomie locali e il decentramento istituzionale sancito dalla Carta del 1948 e completato esattamente venti anni dopo con l’aggiunta delle regioni a statuto ordinario agli enti ad autonomia speciale.

Su tutto, un filo conduttore: l’effettuazione di scelte concrete in un contesto di legalità, nel rispetto e talora nella attuazione dei princìpi fondamentali. È a questi che occorre riferirsi, meditando con calma e serenità; scivolare su altri più insidiosi terreni – sia notato con tutto il rispetto per Carlo Goldoni – rischierebbe di scatenare la corsa non troppo nobile verso insipide baruffe chioggiotte.

Verso un nuovo titolo del codice penale dedicato ai reati contro l'ambiente

ECOMAFIA: QUALCOSA SI MUOVE

di Adelmo Manna

L’attuale disciplina penale dell’ambiente è stata connotata, fino ad oggi, da due caratteristiche: una tipologia di reati, di natura contravvenzionale, improntati al pericolo astratto, ed il rinvio da parte della normativa penale a quella amministrativa al fine di individuare l’area di liceità delle attività inquinanti. Conseguenza della opzione di avvalersi esclusivamente di fattispecie contravvenzionali è stata la impossibilità di utilizzare i più sofisticati strumenti investigativi (intercettazioni telefoniche, ambientali eccetera) e le misure cautelari personali, nonché i ridotti tempi di prescrizione del reato. A fronte, così, di una tutela a "maglie larghe" per quanto attiene all’anticipazione della tutela penale, vi è la scarsa operatività della medesima in ragione del rapido verificarsi dell’estinzione dovuta a prescrizione. Il panorama legislativo appena tracciato è stato oggetto di un tentativo di radicale modifica negli scorsi anni, ad opera dei governi della XIII legislatura repubblicana. Al fine di adeguarsi agli indirizzi europei, il Ministero dell’ambiente aveva dato incarico ad una commissione composta da accademici, magistrati e qualificati esponenti delle forze dell’ordine, che ho avuto l’onore di coordinare, di elaborare un disegno di legge che modificasse la disciplina penale dell’ambiente. Il progetto licenziato da detta commissione prevedeva l’introduzione nel codice penale di una serie di delitti, nell’ambito di un nuovo titolo VI bis ( da 452 bis a 452 nonies) da rubricarsi "delitti contro l’ambiente", denominati inquinamento ambientale, distruzione del patrimonio naturale, traffico illecito di rifiuti e frode in materia ambientale.

La commissione si è trovata di fronte ad un bivio nelle scelte di tutela. Da una parte, una visione del bene giuridico ambiente in un’accezione ecocentrica; dall’altra, invece, un’accezione antropocentrica. Quest’ultima è stata la via percorsa che, in una prospettiva di "seriazione dei beni giuridici", ha prestato tutela a beni strumentali e consentito che i beni finali avessero comunque un’efficacia selettiva delle condotte penalmente rilevanti. Da un modello di tutela caratterizzato da reati di pericolo astratto presunto, dunque, si è passati ad una tutela incentrata sui reati di pericolo astratto concreto; quest’ultima scelta rende meno drammatico il passaggio dal modello contravvenzionale al modello delittuoso, né comporta un sacrificio del principio costituzionale di offensività.

Le fattispecie in questione acquistano, inoltre, una maggiore autonomia rispetto alla disciplina amministrativistica di riferimento; tuttavia non si accoglie un modello penalistico puro in quanto, in tale materia, la normativa extrapenale sopra indicata assolve già "a monte" ad un’imprescindibile funzione di bilanciamento degli interessi coinvolti. Il connesso innalzamento del carico sanzionatorio avrebbe inoltre consentito, se la riforma fosse stata varata, innanzitutto di collegare ad esso un più ampio termine prescrizionale, nonché la possibilità, in sede processuale, di attivare strumenti di ricerca probatoria altrimenti inibiti, a causa dell’attuale livello più ridotto del carico medesimo. Il modello delittuoso, così per sommi capi delineato in materia ambientale, trova del resto ampi riferimenti, nella prospettiva comparatistica, sia in quegli ordinamenti, come la Francia, la Spagna ed il Portogallo, che utilizzano ancora la distinzione fra delitti e contravvenzioni e che, in materia, hanno optato per la prima delle due opzioni, sia in quegli altri sistemi penali, come quello tedesco-occidentale, che, pur avendo espunto dal diritto penale la materia contravvenzionale sin dagli anni ottanta, contiene un ampio settore di reati ambientali nell’ambito del codice penale, con pene assai elevate.

Ciononostante, il disegno di legge sui delitti ambientali si è arenato, nel corso della precedente legislatura, a causa di due fondamentali obiezioni che sono state mosse e che riguardano da un lato l’eccessivo carico sanzionatorio e dall’altro l’indeterminatezza delle fattispecie. Entrambi detti rilievi non convincono: il primo perché del tutto infondato alla luce anche di un semplice sguardo comparatistico ai sistemi penali europei vigenti in materia; il secondo, che peraltro contiene indubbiamente una parte di vero, è tuttavia spiegabile proprio nel passaggio dal pericolo presunto al pericolo astratto-concreto, in relazione al quale non può non emergere un evento di pericolo, che si distacca così dalla mera condotta inosservante e dunque dal puro "diritto penale del comportamento", che di per sé non può non comportare un maggiore coefficiente di indeterminatezza della fattispecie. Quest’ultimo è comunque un prezzo che si deve pagare se si vuole passare dal modello contravvenzionale a quello delittuoso, tale tuttavia da non ledere il principio di legalità, giacché sarà in definitiva la costruzione della fattispecie ed in particolare l’insistere più sulla pericolosità della condotta che sulla pericolosità dell’evento a far utilizzare al giudice penale massime di esperienza e dunque a scongiurare possibili dubbi di costituzionalità.

Unico reato tra quelli previsti dalla commissione ad essere inserito nell’ordinamento è stato "il traffico illecito di rifiuti" previsto dall’appena introdotto art. 53 bis del decreto legislativo n. 22 del 1997. Quest’ultimo punisce con la reclusione da uno a sei anni "chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti". Esso delinea pertanto una fattispecie associativa "a struttura mista" in cui la punibilità è subordinata non al solo associarsi per un fine illecito, ma, altresì, alla parziale realizzazione dello stesso. Il fatto tipico risulterà integrato solo quando siano state realizzate più operazioni di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti.

Ma la novità indubbiamente più significativa della recente modifica legislativa è rappresentata dalla previsione del reato in questione come delitto. Per la prima volta nel nostro ordinamento ci si è avvalsi del tipo delittuoso per assicurare protezione al bene ambiente. La rilevante novità che, tramite la previsione dell’art. 53 bis, si è realizzata induce a domandarci quale possa essere il futuro sviluppo della disciplina penale a tutela dell’ambiente in Italia. Una importante svolta che era sul punto di realizzarsi consisteva nella previsione di una responsabilità penale delle persone giuridiche laddove i loro dipendenti od i loro organi direttivi si fossero resi responsabili di reati contro l’ambiente. La legge n. 300 del 2000 conferiva, infatti, delega al Governo di prevedere una responsabilità (nominalmente) amministrativa per gli enti in tutti i casi in cui l’omesso controllo da parte degli stessi avesse agevolato la commissione di una serie di reati ad opera dei dipendenti e degli organi apicali di detti soggetti. Tra questi reati erano incluse anche le fattispecie a tutela dell’ambiente. Il progetto elaborato dalla commissione di studio incaricata non è stato però integralmente trasposto in quello che poi è divenuto il decreto legislativo n. 231 del 2001. In esso, infatti, si fa menzione, per la delineata responsabilità delle persone giuridiche, solo dei reati di corruzione, concussione, malversazione e truffa ai danni dello Stato. Considerazioni di opportunità hanno suggerito al Consiglio dei ministri di soprassedere, per il momento, ad una più estesa responsabilizzazione delle persone giuridiche. Deve peraltro rilevarsi come, per la materia de qua, si sia trattato senza dubbio di una "occasione persa". Le forme più gravi di offesa al bene ambiente sono frutto, infatti, di determinate attività economiche e, quindi, una responsabilizzazione dei più importanti operatori economici sarebbe stata quanto mai opportuna.

Al di là della abortita modifica appena delineata, altre ne sono in cantiere presso le aule parlamentari. Le iniziative in questione possono ripartirsi in due categorie: la prima in senso "riduttivo" del trattamento sanzionatorio, la seconda sostanzialmente "riproduttiva" dell’indirizzo di politica criminale espresso dalla commissione che elaborò il disegno di legge relativo all’introduzione nel codice dei delitti contro l’ambiente. Quanto alla prima delle due accennate tendenze, viene in rilievo il disegno di legge n. 373 del 2001 intitolato "norme per incentivare l’emersione dall’economia sommersa". Nel secondo comma dello stesso si prevede che gli imprenditori che aderiscono ai programmi di emersione di cui al detto provvedimento possono regolarizzare i loro insediamenti produttivi. A tale regolarizzazione consegue un "condono ambientale". Nel medesimo senso va altresì il disegno n. 374 di iniziativa governativa, presentato al Senato il 3 luglio 2001. Anche esso prevede forme di semplificazione amministrativa e di condoni in materia ambientale. Per quanto concerne la seconda tendenza, deve essere segnalato il disegno di legge n. 66 del 2001, presentato al Senato il 5 giugno dal senatore Specchia. Quest’ultimo propone di introdurre nel codice penale una serie di delitti a tutela dell’ambiente, tra cui quello di "traffici contro l’ambiente", "frode in materia ambientale", "alterazione dello stato dell’ambiente". È prevista altresì la punibilità a titolo di colpa.

UNA ROSA PER LA PACE

Una rosa è comparsa su milioni di telefoni cellulari in questi giorni; una rosa che viene spedita in segno di pace e in ricordo delle vittime brutalmente massacrate nell’attacco terroristico dell’11 settembre alle twin towers. È un piccolo simbolo, ma che urla con forza l’indignazione e il dolore degli uomini di tutto il mondo che hanno bandito per sempre il ricorso alla violenza dalla loro vita e dalle loro coscienze. Di fronte all’aggressione sconvolgente che è stata attuata da oscure forze contro cittadini inermi a New York le parole sono esaurite; probabilmente valgono di più i comportamenti e l’atteggiamento responsabili sia dei governanti che di tutti gli abitanti dei paesi civili. Torneremo sicuramente sull’argomento per evidenziare le molte lacune legislative e normative che rendono particolarmente difficoltoso il contrasto al fenomeno terroristico internazionale, ma in questo frangente il diritto deve necessariamente aspettare, sospesi come siamo tutti in attesa delle decisioni dei potenti della terra.

Franco Ionta

PAGINA DUE

GARANZIE ED EFFICIENZA NEL PROCESSO

Convegno tenutosi a Palazzo Baldassini in Roma

ALFREDO GALASSO. UNA CULTURA DELLA GIURISDIZIONE

Dico subito che applaudo a questa iniziativa e alla nascita di questa Associazione di cui c’era, c’è particolarmente bisogno. Mario Almerighi giustamente ha detto stamane che ciascuno di noi deve essere in qualche modo qui presente o presentato per quello che ha fatto, non solo per quello che ha detto; le cose della vita mi hanno consentito di poter fare praticamente, in un lungo periodo di tempo, quasi tutti i mestieri di giurista ad eccezione di quello di notaio nelle cui scuole mi sono limitato ad insegnare. Nel nostro ruolo di giuristi complessivamente intesi ci sentiamo investiti da ciò che in maniera drammatica sta percorrrendo tutte le regioni del mondo: credo che sia questa l’altezza della questione che un’Associazione di questo genere oggi pone; in questo senso credo di averla colta. Consentitemi conseguentemente qualche rapidissima, telegrafica annotazione su ciò che ho sentito. Credo che dobbiamo occuparci del processo civile e del processo penale sapendo che, per quanto riguarda l’uno e l’altro, è necessario avere un disegno complessivo: lo ha detto chiarissimamente Giovanni Arieta, non ho altro da aggiungere.

Mi posso permettere, se mi consentite, di fare qualche riflessione sinteticissima di carattere generale per aprire qualche tema o qualche percorso per questa neonata e spero feconda Associazione. La prima cosa che vorrei sottolineare è che la cultura della giurisdizione o la cultura giuridica in generale in un paese civile non può che essere parte consistente di una cultura complessiva. Il distacco tra la cultura giuridica, la cultura della giurisdizione e la cultura della stragrande parte della popolazione è sicuramente un dato negativo ed è ciò che attualmente credo si possa registrare con qualche preoccupazione.

L’osservazione immediatamente conseguente è che questa cultura giuridica o cultura della giurisdizione credo debba misurarsi, pur essendo molteplici le suggestioni che vengono dai tanti importanti temi che qui sono stati affrontati, sulla base di alcuni princìpi, di alcuni valori fondamentali, nel profondo del tormento anche di una elaborazione culturale, con temi come quello dell’uguaglianza formale e sostanziale, della solidarietà, del principio pacifista, più in generale – o più specificamente, forse è giusto dire – con il tema dei diritti e delle libertà fondamentali.

Nel dicembre scorso è stata approvata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che è stata salutata, pur priva purtroppo di forza vincolante, come una sorta di bozza della futura Costituzione europea. Bene: lo spirito che circola dentro questa Carta dei diritti e delle libertà fondamentali è qualche cosa che ha a che fare sicuramente con la cultura giuridica e con la cultura della giurisdizione con la quale credo che dovremmo ricominciare a confrontarci; cioè non ci interessa – non credo che interessi questa Associazione; non interessa, credo, i presenti – una discussione che rimanga all’interno delle pur rispettabilissime categorie di avvocati, magistrati, professori universitari e notai se non si aprono porte e finestre verso ciò che succede nel mondo. Come trovano attuazione princìpi, valori fondamentali? Come si coniuga questa espansione, che non ha mai avuto precedenti a livello planetario, di diritti e di libertà individuali con un bisogno, una esigenza di difesa e di sicurezza sociale? Qual è il punto di equilibrio che si riesce a trovare?

Per quanto riguarda il processo civile e il processo penale ho questa idea: è necessario un disegno complessivo senza il quale litigheremo furiosamente come dentro una stia di polli; ma non credo che si possa perdere di vista, almeno per un’Associazione come la nostra, un dato di questo genere. Aggiungo però che il processo civile e il processo penale – anche qui non facciamo questo errore di fondo – o sono riferiti a codici e a valori sostanziali oppure rischiano di ricevere tutte le contraddizioni che vengono dalla mancata elaborazione e dalla mancata definizione o chiarimento di alcuni diritti e di alcune libertà fondamentali. Bisogna riconsiderare il codice penale e il codice civile (sicuramente ci sono parti dell’uno o dell’altro che sono vecchie o sono invecchiate e vanno riconsiderate) come sistema di valori, come sistema di princìpi.

Sono stato uno dei più accesi sostenitori del processo penale quando si preparò ed entrò in vigore nel 1989; mi riconosco pienamente in ciò che ha rivendicato stamane Ettore Gallo e non aggiungo niente. Ma quel disegno complessivo è stato deformato, sforbiciato malamente rispetto all’intento originario. Dico anche una cosa che può essere contro corrente: sono assolutamente contrario all’idea che si continui a praticare il doppio binario; dico per esperienza che un sistema come quello del 1989 andava e va benissimo anche per i processi penali. Altro è il problema dell’esecuzione della pena: questo è un altro settore; ma non facciamo confusione.

Non credo che qui valga la pena di discutere a lungo in tema di difesa sociale oppure accertamento di responsabilità dell’imputato nel processo penale; però vorrei ricordare al collega Oreste Flamminii Minuto che si sono aperte le questioni della possibile ambiguità del processo penale perché per lunghi anni, per decenni, starei per dire per secoli, in alcuni settori che riguardano il potere economico e il potere criminale ad altissimo livello, ha dominato l’impunità; e, quando si è cominciato ad aprire nel processo penale l’accertamento della responsabilità di alcuni imputati di reati di mafia o di corruzione, immediatamente è scattato un attacco politico senza precedenti nei confronti dei magistrati che cercavano di accertare la responsabilità penale di coloro che per anni e anni erano stati assolutamente garantiti da un sistema generale di impunità di cui magistrati e avvocati erano protagonisti fondamentali.

Alcuni punti mi sembrano essenziali nel recupero di una prospettiva che riguarda appunto diritti, libertà fondamentali, princìpi, valori essenziali di una cultura giuridica o di una cultura della giurisdizione. C’è una enorme quantità di persone, di uomini, di donne che non riescono ad accedere alla giustizia.

Il discorso del gratuito patrocinio qui è stato appena accennato; ma, signori, la legge che è stata approvata imbroglia l’opinione pubblica – scusatemi se uso questa espressione – perché dovete dirmi come possiamo considerare che non resti di classe (scusate se uso questa vecchia espressione da vecchio marxista) una giustizia che consente l’accesso al gratuito patrocinio ad una famiglia il cui reddito è di diciotto milioni.

Allora i casi sono due: o sono evasori fiscali o mafiosi con patrimoni che sono stati confiscati – ed infatti c’è il meccanismo obbligato di chiedere alla questura se sono o non sono mafiosi e via dicendo – oppure, se è gente che non ha assolutamente nulla, probabilmente non pensa nemmeno ad un accertamento di diritti e di libertà fondamentali. Invece ho l’esperienza di centinaia di persone, uomini, donne, gruppi sociali, che sono rimasti esclusi dall’accesso alla giustizia, civile o penale che sia (perché nella giustizia penale si può accedere anche essendo parti civili e quindi dalla parte della vittima), perché non hanno i soldi per le spese legali.

Oggi le investigazioni sono finalmente consentite all’avvocato: che ben vengano; francamente trovo eccessive tutte le lamentazioni dei giudici; ma il problema è che si potranno permettere le investigazioni che costano soltanto i ricchi e i ricchi sono i potenti sul piano economico e sul piano criminale: dunque con questa legge si accentuerà la giustizia di classe. Questo è un punto essenziale: la mancanza di effettività delle garanzie, che nella sostanza sono poi i diritti e le libertà da far valere, che un avvocato deve promuovere e un giudice deve garantire; questa è la cultura della giurisdizione.

Dobbiamo sapere che non c’è riforma della giustizia o della scuola che si possa fare a costo zero; allora questa è una rivendicazione che, secondo me, va avanzata con molta determinazione: non può esserci riforma della giustizia o della scuola nel senso dell’effettività che sia a costo zero. E’ inutile illudersi.

Questo è ciò che ci appartiene. Rivolgersi al mondo della politica per la questione giustizia ha determinato in questi anni una ragione prima di scontro, piuttosto che di dialettica e convergenza su soluzioni possibili, e poi – peggio ancora – di scambio.

Questo è accaduto: ce lo ha ricordato Ettore Gallo questa mattina. Alla politica – lo dico semplificando – bisogna presentarsi con le carte in regola; e non credo che noi, come categoria di giuristi, avvocati, giudici, professori abbiamo le carte in regola. Credo che questo storicamente debba essere presente e debba essere detto; se invece dimentichiamo tutto ciò, trasferiamo su una generica ambiguità qualche cosa che non è affatto ambigua, perché qui non è in discussione se il processo debba essere difesa sociale o altro.

Mi domando come la sacrosanta regolamentazione del fenomeno della collaborazione si concili con il fatto che gli avvocati dei collaboratori di giustizia sono considerati in maniera diversa dagli avvocati degli imputati mafiosi, come se gli imbrogli potessero essere fatti esclusivamente dagli avvocati dei collaboratori di giustizia, che almeno son quelli che raccontano un po’ di cose e non fanno, come è accaduto storicamente, la combine tra gli avvocati penalisti, molti dei quali per anni sono stati avvocati delle cosche piuttosto che dei singoli imputati, spesso andando deontologicamente contro l’interesse dei singoli imputati che andavano a difendere. Ma, ripeto, questo è un discorso che meriterebbe di essere approfondito.

Ritorno alla lunga esperienza di molti mestieri di giudice per esprimere non una nota amara ma una considerazione realistica: in questi anni si è determinato da tutte le parti un deperimento culturale e professionale. Dobbiamo sapere che le persone che qui sono intervenute con un livello di professionalità e di consapevolezza notevole, e quindi hanno espresso una cultura, sono purtroppo una esigua minoranza; la stragrande maggioranza di giudici e avvocati (non so i notai) è molto lontana dalla consapevolezza delle questioni che qui abbiamo affrontato. E allora c’è da compiere un grande sforzo in questa direzione, perché è essenziale la professionalità intesa non solo come competenza tecnica ma come coscienza del ruolo e quindi di quei valori e di quei princìpi a cui ho accennato inizialmente. Così si può assicurare una garanzia di correttezza e di indipendenza nell’esercizio di mestieri che hanno a che fare con i diritti e le libertà fondamentali; e quando dico garanzia di correttezza e di indipendenza mi riferisco sia ai giudici che agli avvocati, perché anche per gli avvocati esiste un problema serio di garanzia, di correttezza e di indipendenza, naturalmente ciascuno nel proprio ruolo.

C’è un’occasione nella quale la cultura giuridica, la cultura della giurisdizione può dare una spinta, un impulso comune – consentitemi l’espressione – di civiltà senza ulteriori aggettivi ed è la scuola di formazione comune di magistrati, avvocati, notai. Spero che gli avvocati, piuttosto che riservare ai propri studi professionali il compito del tirocinio, invitino i giovani praticanti a frequentare questa scuola. Anch’io faccio parte del direttorio che dovrebbe l’anno prossimo far partire la scuola di formazione comune: mi auguro che i miei colleghi professori universitari sappiano valutarne la grande rilevanza sociale e culturale. Un'Associazione di questo genere può rappresentare la linfa in questa direzione. Agli altri il compito di definire gli ambiti e i contenuti di una responsabilità politica.

PHILIPPE LABREGERE. COOPERAZIONE

Vorrei fare i miei auguri alla nuova Associazione "Isonomia", che farà da trait d’union tra le varie parti nel processo penale in Italia, magistrati, avvocati, ma anche singoli cittadini, perché mi sembra che anche loro debbano essere coinvolti nella discussione su questo aspetto. Il professor Almerighi parlava prima dell’importazione positiva di altri paesi dall’Italia. Non so se mi posso ritenere un’importazione positiva, però devo dire che l’idea del magistrato di collegamento è effettivamente un’importazione dalla Francia di un’idea italiana. L’idea è stata lanciata nel ‘92 ed è stata attivata per la prima volta dalla Francia a partire dal ‘93; e adesso questa figura del magistrato di collegamento è un po’ più diffusa in Unione Europea; la Francia ha anche dei magistrati di collegamento fuori dell’Unione Europea, in particolare negli Stati Uniti. Penso che l’Italia seguirà tra poco questo esempio, perché mi sembra che dovrebbe avere il secondo e il terzo magistrato di collegamento in Spagna e nel Regno Unito. Essendo un magistrato di collegamento, è principalmente operante in campo penale; e dunque il mio intervento, breve, si limiterà piuttosto all’aspetto delle garanzie del processo penale.

Vorrei dire soprattutto e sottolineare una cosa che mi pare molto importante: quanto incide la legislazione interna sulle procedure e anche sui procedimenti di altri paesi in materia di garanzia. Questa situazione si verifica in materia di cooperazione penale. La cooperazione penale è principalmente una cooperazione tra autorità, due autorità e anche di più. E dunque, quando c’è una situazione del genere, c’è necessariamente un problema di confitto di legge. Questo problema di conflitto è normalmente risolto dalle convenzioni. In materia di cooperazione penale le convenzioni finora risolvevano il conflitto di legge dicendo che in materia di cooperazione penale spettava allo Stato richiesto applicare la propria legge. Però negli ultimi anni si è verificato che in materia di garanzia ogni paese ha sviluppato il suo proprio sistema, che ha avuto come conseguenza un conflitto che non è potuto più essere risolto con l’applicazione della Convenzione. Faccio un esempio in materia di mutua assistenza: quando un’autorità giudiziaria italiana vuole eseguire una rogatoria in Francia, fino a qualche anno fa si limitava ad accertare che questa rogatoria fosse eseguita secondo la legge francese; siccome da qualche anno il sistema italiano è diventato molto più garantista del sistema francese, i verbali di esecuzione o gli atti eseguiti dalla Francia non sono stati più accolti dall’autorità italiana. E dunque ci siamo trovati di fronte a questa novità: cioè la necessità dello Stato richiesto di applicare delle norme che non conosceva e che erano le norme dello Stato richiedente.

Tutto questo per dimostrare già l’importanza a livello internazionale delle norme interne in materia di garanzia. Noi abbiamo potuto risolvere questo conflitto inserendo nella nostra legislazione delle disposizioni che hanno consentito di eseguire queste rogatorie in modo che è più vicino a quello italiano ed europeo. Però sono comunque rimaste delle difficoltà, soprattutto in senso contrario, quando la Francia chiede degli atti all’Italia; e penso alla figura del testimone, che in Italia potrebbe diventare l’indagato; o ancora, più difficilmente da risolvere direi, la situazione del testimone francese, che sarebbe testimone però imputato in processo connesso. In una situazione del genere purtroppo non possiamo arrivare a una soluzione, perché quando c’è una differenza di livello di garanzie è la legge che offre maggiori garanzie che si applica. E dunque, nel rapporto tra la Francia e l’Italia, è la legge italiana che si applica, anche se questo sistema è un po’ contrario alla pratica che abbiamo sviluppato, cioè permettere allo Stato richiedente di ottenere da parte dello Stato richiesto un’applicazione che sia la più vicina alla sua legge.

Questo sistema non è ancora molto soddisfacente, perché non consente la cooperazione giudiziaria. Ho avuto delle situazioni in cui dei magistrati francesi sono venuti in Italia per assistere a un’audizione che si è limitata al fatto che la persona si è rifiutata di rispondere, mentre, secondo la legge francese, questa persona era solo un testimone.

In materia di estradizione è la stessa cosa. Abbiamo delle regole sulla prescrizione che sono molto diverse rispetto alle vostre, cioè che ci consentono di processare una persona molto più a lungo rispetto al vostro sistema; di fare eseguire una pena dopo un termine di sette, otto, anche dieci anni; invece nel vostro sistema i termini sono molto più brevi. La conseguenza è che ancora una volta si applica la legge italiana che offre maggiori garanzie; questo significa che l’estradizione non è consentita.

Perché faccio questi riferimenti? Perché mi sembra che sarebbe necessario approfondire a livello europeo questo argomento, in modo che tutti i paesi possano avere delle regole minime comuni in materia di garanzia. Si vede che la Convenzione per i diritti dell’uomo non basta, anche se c’è una giurisprudenza che dà degli orientamenti ai singoli paesi. Non basta perché sia la Francia che l’Italia applicano le convenzioni, però hanno sistemi diversi. E dunque ho l’impressione che questo dovrebbe essere un compito futuro, anche vicino, soprattutto se vogliamo veramente creare questo famoso spazio giudiziario europeo, che a un certo momento porrà questa difficoltà. E giustamente mi sembra che l’oggetto di questa Associazione potrebbe essere anche quello di approfondire il tema della garanzia e vedere quali sarebbero i princìpi comuni che potrebbero essere esercitati da tutti i paesi dell’Unione Europea.

ISONOMIA è l’organo ufficiale della prima Associazione nata in un tribunale che riunisce magistrati ed avvocati (insieme con altri operatori del diritto, tra cui periti ed interpreti), i quali si sono ritrovati nel comune sforzo di confrontare opinioni ed esperienze al servizio della giustizia. Questa esigenza di confronto nasce proprio nel momento in cui a Roma e in altre città d’Italia il rapporto tra magistratura e avvocatura aveva raggiunto punte di aspra polemica, tanto da determinare un clima di insanabile conflittualità. Ancora una volta le logiche di appartenenza sembravano prevalere sull’obiettivo principale: rendere al cittadino un servizio degno del nome giustizia. Consapevoli di questa situazione, i promotori della iniziativa hanno inteso, da una parte, stimolare un dialogo costruttivo all’interno di tutte le categorie operanti nel settore e, dall’altra, rivolgersi ai cittadini-utenti per favorirne la conoscenza del mondo giudiziario con il quale le circostanze della vita possono metterli a contatto. In questo senso la divulgazione di conoscenze specifiche aiuta le persone a non trovarsi impreparate in ogni caso di necessità.

PAGINA TRE

GARANZIE ED EFFICIENZA NEL PROCESSO

Convegno tenutosi a Palazzo Baldassini in Roma

MARCELLO MARINARI. UNA PROPOSTA PER IL PROCESSO CIVILE

L’organizzazione della giustizia nei suoi aspetti più concreti di "macchina giudiziaria" è stata sempre largamente trascurata nel nostro paese, privilegiandosi invece in modo quasi esclusivo l’intervento legislativo in materia procedurale come strumento per affrontare e risolvere i problemi del processo. La gestione degli uffici giudiziari nei suoi aspetti strettamente finalizzati allo svolgimento dell’attività giudiziaria e la "gestione dei processi", intesa come individuazione di criteri di programmazione generale ed individualizzata delle cause, hanno cominciato a divenire oggetto di esame solo da poco tempo, benché, di fatto, siano sempre esistite in materia "prassi" locali più o meno spontanee (da ultimo si segnala la preziosa esperienza degli "osservatori" creati spontaneamente in alcune sedi giudiziarie da avvocati e magistrati, collegati tra loro attraverso internet).

Il quadro di riferimento concreto dell’analisi e delle eventuali proposte è ovviamente rappresentato dall’attuale assetto normativo procedurale così come successivo alla riforma del 1995 e, sul piano strutturale, così come articolato tra giudice di pace e tribunale unico di primo grado. Ritengo che tale quadro di riferimento, peraltro, debba comprendere anche le disposizioni del recente disegno di legge governativo sull’accesso alla giustizia e sulla risoluzione alternativa delle controversie, che, anche a prescindere dalle scelte di merito, delinea i contorni di un sistema organico, inserendosi, sul piano dell’impostazione, nelle linee di tendenza espresse dai più recenti interventi legislativi stranieri (si vedano, ad esempio, i recenti documenti programmatici civil justice 2000 e modernising civil courts del Governo inglese). Ugualmente dovrà essere attentamente considerata la prospettiva del sempre maggiore uso della tecnologia informatica nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, a partire dalla tenuta in via informatica dei registri per passare allo stesso supporto informatico dei processi, che va ormai sotto il nome di "processo elettronico". Il concetto fondamentale alla base di queste riforme è infatti quello di passare da un sistema tradizionale imperniato sul processo ordinario quale strumento indifferenziato di risoluzione della conflittualità civile ad un sistema integrato di giustizia. Una corretta impostazione del problema dell’organizzazione del processo non può infatti prescindere dalla complessiva organizzazione del sistema-giustizia e dal ruolo che in tale ambito si assegna al processo, per il rapporto tra la problematica dell’organizzazione del processo e quelle dell’organizzazione dell’ufficio giudiziario da un lato e del ruolo dell’accesso facilitato all’informazione ed alla consulenza legale e di quello dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie dall’altro.

La nozione di gestione del processo rispetto alla quale confrontarci si fonda su un modello che prevede un attivo e tempestivo coinvolgimento del giudice nella causa per assumere il controllo dei suoi tempi e per giungere, insieme alle parti ed ai loro avvocati, ad una rapida e completa individuazione dei punti in discussione e dello schema di procedimento più appropriato, sulla base di una programmazione individualizzata e flessibile. Ciò allo scopo di realizzare la più rapida ed economica definizione possibile della controversia, attraverso una fase in contraddittorio dinanzi al giudice che si concluda con una sentenza o attraverso una procedura alternativa. Naturalmente non si può trascurare che il modello di gestione appena delineato si è prevalentemente sviluppato nel contesto anglo-americano, vale a dire in un contesto caratterizzato da un processo bifasico, la cui definizione avviene in oltre il 90 per cento dei casi nella fase predibattimentale. Ma tutto ciò non sembra decisivo, perché ci si può chiedere se ed in quale misura il nostro modello processuale, sia pure con uno schema diverso, si ponga (e riesca a raggiungere) gli stessi obiettivi.

Paragonando i due modelli, si può constatare che nel processo italiano il giudice ha un ruolo assolutamente dominante in termini di gestione, e non solo di controllo, del processo, almeno sul piano normativo astratto, e che esiste un sistema di preclusioni e di termini particolarmente severo, ai fini dell’individuazione dei temi della causa e dei mezzi di prova. Tuttavia i termini e le preclusioni previsti dal nostro codice, se sono indubbiamente efficaci ai fini di una immediata ed integrale discovery dei documenti e della definitiva precisazione delle domande, interessano singole fasi del processo e non la sua durata complessiva, la cui riduzione costituisce uno degli scopi principali del case management.

Questo può essere già un primo elemento di riflessione: il nostro sistema attribuisce al giudice il pieno controllo del processo, ma non ne prevede una programmazione complessiva. E’ un sistema che richiede al giudice di depositare la motivazione della sua decisione entro trenta giorni dalla scadenza dei termini per le difese delle parti, ma non si cura dei troppi anni di durata del processo. Ciò, tuttavia, malgrado i concetti di durata e di gestione complessiva del processo non siano in assoluto estranei al codice, considerando l’obbligo del giudice, secondo l’articolo 175 del codice di procedura civile, di esercitare "tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento", nonché l’esistenza di altre norme specifiche, come quella sugli intervalli tra un’udienza e l’altra, che hanno un collegamento con la durata del processo. Nella realtà degli uffici giudiziari, gli intervalli tra le udienze sono determinati dal numero delle cause pendenti e da quello dei giorni di udienza. La durata del processo, in questo modo, diventa una variabile legata a fattori organizzativi non solo esterni al processo, ma anche lasciati all’improvvisazione dei singoli. L’idea stessa di una gestione complessiva, pertanto, è assente, in quanto tale, nel nostro sistema.

Esiste un accordo generale sul fatto che la durata delle cause, civili e penali, è eccessiva e l’esigenza di intervenire in questa materia appare quanto mai attuale non solo per le ripetute condanne riportate dall’Italia proprio per questo motivo dinanzi alla Commissione europea dei diritti dell’uomo ed ora dinanzi alla Corte, ma anche a seguito della recente modifica costituzionale dell’articolo 111, che ha inserito il principio della "ragionevole durata" del processo tra quelli fondamentali garantiti sul piano costituzionale. Alla ragionevole durata del processo fa riferimento esplicito il disegno di legge n. 7327 recentemente approvato dal Senato; ma, in concreto, manca un’indicazione temporale precisa, preferendosi un riferimento all’articolo 6 della Convenzione di Roma e quindi rimettendosi ai criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo, criteri che, peraltro, indicano più propriamente una serie di limiti massimi per i vari gradi di giudizio, concetto diverso da quello di uno standard di durata articolato ricollegato a corretti criteri di gestione.

Per quanto riguarda poi gli strumenti, si deve porre in evidenza l’importanza determinante non solo e non tanto delle norme procedurali in senso stretto, che non sono propriamente finalizzate all’efficienza dell’organizzazione giudiziaria, ma anche, e prima ancora, degli strumenti organizzativi, senza i quali è molto difficile, per non dire utopistico, pensare che anche le migliori previsioni processuali possano trovare attuazione nella realtà. Tra gli strumenti organizzativi comprendo senz’altro la previsione di un monitoraggio continuo (e di una seria sperimentazione delle innovazioni, almeno nei limiti in cui la sperimentazione è ammissibile in un ordinamento come il nostro). Anche rispetto ai problemi strettamente organizzativi, inoltre, l’esperienza anglo-americana della court administration offre indubbiamente spunti di grande utilità per la sua attenzione all’organizzazione degli uffici giudiziari in relazione ai requisiti di efficienza, concretezza ed economicità. Per individuare un punto di particolare interesse concreto per il lavoro quotidiano del giudice si potrebbe dedicare una speciale attenzione a figure professionali attualmente assenti in Italia e la cui introduzione costituirebbe un elemento di grande importanza in termini di recupero di efficienza, sia in senso quantitativo sia, soprattutto, in senso qualitativo: mi riferisco alla figura dell’assistente legale del giudice, in qualche modo rapportabile ai law clerks americani, oltre che a figure professionali collegate alla stessa gestione dell’attività processuale di udienza.

Si tratta, in effetti, della pratica realizzazione di quell’ufficio del giudice del quale si parla in Italia da molti anni e che si propone di realizzare una struttura di personale che assista il lavoro quotidiano del magistrato. Nei nostri tribunali civili è estremamente raro riscontrare l’esistenza di una struttura di personale che segua ed assista la programmazione e lo svolgimento dell’attività del giudice, che si sente talvolta – ed è esperienza personale – quasi un ospite in una struttura che fa "altre cose". La presenza di collaboratori del giudice specificamente destinati allo studio, alla programmazione ed alla stessa gestione dei processi potrebbe avere effetti assai più rilevanti dello stesso incremento di organico della magistratura, del resto recentemente oggetto di un nuovo intervento legislativo. Nella assoluta maggioranza dei casi, in effetti, il giudice civile deve condurre l’udienza da solo, senza alcuna assistenza, così che, anche senza considerare la violazione di specifiche disposizioni di legge in materia, viene meno anche un requisito minimo di dignità della stessa attività giudiziaria, oltre che un fattore di efficienza e rapidità nella esecuzione delle decisioni prese nel corso dell’udienza.

L’uso della tecnologia informatica, poi, potrebbe modificare radicalmente la stessa gestione della singola udienza, dal punto di vista della verbalizzazione e della immediata ed automatica registrazione degli adempimenti di cancelleria. La stessa tecnologia potrebbe poi assistere il giudice nella redazione dei provvedimenti, mettendo a disposizione on line il fascicolo elettronico del processo, la cui realizzazione avrebbe effetti molto positivi anche per il lavoro delle cancellerie e per l’attività difensiva. Sono prospettive che sembrano avveniristiche, ma che sono invece molto più vicine di quanto non si pensi, la cui cornice legislativa è già in parte presente, e già realizzata in pratica o in via di realizzazione, in altri paesi.

Sul piano della gestione tecnico-giuridica del processo in senso stretto, invece, è innanzitutto possibile valorizzare gli strumenti che già ora il codice prevede e sono spesso disapplicati: mi riferisco specificamente allo svolgimento dell’udienza di prima trattazione ed all’interrogatorio libero delle parti, che potrebbe divenire un momento realmente determinante del processo e consentire, con la partecipazione attiva degli avvocati, una significativa riduzione almeno dei punti di fatto e di diritto in contestazione, e quindi dell’istruttoria necessaria. Uno studio più attento ed organico dei problemi di gestione del processo consentirà poi una maggiore consapevolezza nella applicazione degli strumenti già oggi offerti dalle norme, in particolare i provvedimenti anticipatori, così come una migliore programmazione della causa, con la concentrazione delle udienze, ove possibile, e la stessa programmazione delle decisioni, valorizzando le diverse opzioni già esistenti in materia di discussione. La valorizzazione dell’udienza, e quindi dell’oralità, del resto richiamata dallo stesso codice, è indubbiamente un passaggio obbligato, se vogliamo modificare realmente la situazione, e richiede un forte impegno non solo ai giudici, ma anche agli avvocati. Appaiono indispensabili, a questo proposito, iniziative in materia di formazione nel campo dell’advocacy training. D’altra parte, l’aumento dei giorni di udienza che sarebbe necessario per rendere effettivo e con tempi adeguati lo svolgimento della nostra udienza di trattazione potrebbe essere compensato dai maggiori risultati e condurre ad una forte limitazione del numero delle udienze complessive.

Sul piano dei possibili aggiustamenti procedurali, per rendere possibili tali meccanismi anche in assenza di accordo delle parti, si potrebbe pensare ad una prima udienza sul tipo della case management conference, con la concentrazione delle attuali prime due udienze in una sola per l’interrogatorio libero delle parti e la definitiva precisazione dei temi in discussione, ed una (sola) seconda udienza, come nel caso della pre-trial conference, per precisare i punti ancora rimasti in discussione e decidere sulle prove da svolgere. Tra le due udienze sarebbe possibile un’attività di verifica incrociata tra le parti, anche in forme diverse da quelle di una vera e propria istruttoria, con l’inserimento di meccanismi di risposte a domanda anche gestiti dagli stessi uffici giudiziari e con il coinvolgimento, oltre che degli avvocati, di giudici diversi da quello della causa. Nella seconda delle udienze di cui ho parlato, una volta definito il quadro dell’istruttoria da svolgere, il giudice potrebbe fissare un vero e proprio calendario della causa, fino alla fase della decisione.

Si tratta solo di qualche ipotesi, ma ciò che più conta è che si tratta di adattamenti, e non certo di stravolgimenti, della nostra attuale procedura, concretamente attuabili, anche se, indubbiamente, richiedono un notevole sforzo di adeguamento della magistratura e dell’avvocatura, considerando anche, per quest’ultima, la struttura fortemente parcellizzata e la quasi generale individualizzazione dell’organizzazione professionale, sicuramente in contrasto con un aumento dell’attività di udienza.

La realizzazione di un programma di intervento come quello ipotizzato richiede il coinvolgimento attivo dei magistrati, del personale dell’amministrazione giudiziaria e degli avvocati. Non c’è dubbio che occorrerà in materia un forte impegno del Governo ed un incremento delle risorse destinate alla giustizia, già cresciute, per la verità, negli ultimi anni. Tuttavia la magistratura e l’avvocatura italiane possono fin d’ora contribuire in modo assolutamente determinante al processo riformatore qui auspicato, attraverso la costituzione di veri e propri gruppi di lavoro su base locale, per l’analisi della situazione esistente e la definizione degli obiettivi da raggiungere, articolati in relazione alle specifiche realtà giudiziarie delle singole sedi, che richiedono certamente soluzioni anche molto differenziate sul piano strutturale.

La descrizione e l’analisi della situazione esistente può permettere di individuare le prassi operative di gestione del processo che già esistano nell’attuale panorama degli uffici giudiziari italiani e che potrebbero rivelarsi estremamente utili per l’esperienza acquisita. L’elaborazione di linee guida e di parametri di carattere nazionale, che costituirà la sintesi di tutte le proposte operative locali, è perfettamente compatibile con lo sviluppo da parte dei singoli uffici di un proprio specifico modello organizzativo, adattato alle rispettive esigenze, e con una forte autoresponsabilizzazione ai fini dei risultati da raggiungere.

Quanto alla definizione degli obiettivi, si può indicare, sul piano strettamente metodologico: 1) la fissazione di standards di durata massima dei processi; 2) la fissazione di standards di durata massima di singole fasi del processo; 3) l’eliminazione o la forte riduzione dell’arretrato, rispetto agli standards così determinati. Si può pensare alla predisposizione di veri e propri programmi di lavoro annuale o pluriennale, con obiettivi a breve, medio e lungo termine, che coinvolgano tutti i magistrati operanti nell’ufficio e individuino standards di rendimento complessivi, e non collegati, certamente, al solo numero delle sentenze emesse. Soprattutto occorre che la giustizia civile italiana riparta, dopo anni di rassegnata sfiducia, con iniziative che possano immettere un po’ di ottimismo, se non proprio di entusiasmo, in coloro che vi dedicano pur sempre la maggior parte della propria giornata e soprattutto negli utenti, che possano esperimentare in concreto i segni di un cambiamento per il quale i tempi sono ormai maturi.

QUALITA’ DELLA VITA E TUTELA DELL’AMBIENTE

DALLA CONTRAVVENZIONE AL DELITTO

Roma, piazzale Clodio, aula Occorsio

Venerdì 28 settembre 2001, ore 15

Presiede Giovanni Conso, Presidente emerito della Corte costituzionale

Presentazione del convegno: Mario Almerighi

"L’attuale sistema sanzionatorio": Gianfranco Amendola

"Il legislatore e l’ambiente": Nando Dalla Chiesa

"Genesi del primo delitto contro l’ambiente": Pierluigi Vigna

Interventi programmati: Ennio Cillo (Legambiente), Giuseppe Cotturri (Cittadinanza attiva), Patrizia Fantilli (Wwf)

DIBATTITO

Conclusione dei lavori: Ugo Longo

PAGINA QUATTRO

GARANZIE ED EFFICIENZA NEL PROCESSO

Convegno tenutosi a Palazzo Baldassini in Roma

GIOVANNI ARIETA. LA DURATA DEL PROCESSO CIVILE

In pochi minuti credo sia impossibile dare un quadro anche sommario sullo stato della giustizia civile. Riterrei pertanto di dedicare queste poche considerazioni all’analisi della principale inefficienza della giustizia civile, cioè il problema della durata del processo, legando questa inefficienza alla storia recente delle riforme in Italia. Delle riforme si occuperà il dottor Sciascia; io mi limiterò soltanto, e ai soli fini del discorso che intendo svolgere, a ricordare quello che si è fatto dagli anni novanta fino ad oggi. Le riforme non sono state organiche. Non abbiamo avuto una riforma del codice di procedura civile ma abbiamo avuto una serie di interventi parziali, non coordinati tra loro, con l’ampia utilizzazione della tecnica della novellazione. Questi interventi di novellazione hanno riguardato il processo di cognizione in primo grado. Al riguardo richiamo: la introduzione del giudice di pace; l’ampliamento crescente della sfera di competenza del giudice di pace; la riforma del processo di cognizione di rito ordinario di primo grado con la reintroduzione delle preclusioni; la riforma del processo di appello con l’introduzione della collegialità piena; la introduzione dei Goa e delle sezioni stralcio per lo smaltimento dell’arretrato (parliamo delle cause sottoposte a vecchio rito e cioè quelle cause pendenti al 30 aprile 1995); la soppressione degli uffici di pretura; l’introduzione del giudice unico di primo grado e infine la riforma che sicuramente non interessa soltanto il processo di cognizione di rito ordinario e cioè la riforma dell’articolo 111 della Costituzione. Poi abbiamo avuto e abbiamo oggi ancora, addirittura con leggi che attendono di essere pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, riforme che hanno riguardato: il processo di cassazione, il nuovo testo dell’articolo 384 e quindi la cassazione sostitutiva con decisione nel merito; il nuovo testo dell’articolo 375 con l’ampliamento delle decisioni in camera di consiglio da parte della suprema corte. Interventi, peraltro molto limitati, hanno riguardato anche il processo di esecuzione: la legge n. 302 del 1998 con la delega ai notai delle operazioni di vendita nelle esecuzioni immobiliari. Altri interventi hanno riguardato il processo cautelare: ricordiamo tutti dal l° gennaio 1993 la introduzione del blocco delle norme di cui agli articoli 669 bis e seguenti sul rito cautelare uniforme.

Nonostante tutte queste riforme – che, come dicevo, hanno utilizzato la tecnica della novellazione e quindi si sono innestate nell’impianto codicistico del 1940 – in realtà dobbiamo ancora oggi lamentare questa gravissima inefficienza del processo civile anche in termini di durata. Ma direi – e questo è un primo aspetto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione – che non è tanto a questo punto un problema di durata del processo nel singolo grado perché dopo la riforma del processo di cognizione di primo grado, quanto meno per le cause sottoposte al nuovo rito, sicuramente una diminuzione dei tempi di durata e quindi di decisione in primo grado del processo c’è stata ed è stata anche notevole. Il problema è la durata complessiva del processo che è ancora fortemente in crisi perché all’accorciamento dei tempi del processo di primo grado fa da pendant l’allungamento dei tempi di definizione del processo in appello: e questo perché le corti di appello, come tutti quelli che si occupano della materia civile hanno potuto constatare, sono state invase da una marea di impugnazioni determinate dalla spinta a un altro grado di merito dopo la conclusione del giudizio relativo alle vecchie cause. Parliamo delle sentenze dei giudici onorari aggregati che hanno determinato una maggiore necessità di adire il giudice di appello e quindi i tempi del processo di appello si sono allungati. I tempi del processo di cassazione, seppure ridotti rispetto a qualche anno fa, sono sempre notevoli. Ma poi dobbiamo anche pensare che il più delle volte, dopo il processo di cognizione, c’è un processo di esecuzione i cui tempi di svolgimento sono ancora molto lunghi, sia perché la riforma sulla delega ai notai funziona piuttosto male e comunque non opera con la stessa diffusione su tutto il territorio nazionale, sia perché il processo di esecuzione da tempo attende una riforma organica che valga ad abbreviare l’intollerabile durata.

Cosa possiamo dire, in assoluta sintesi, proprio come stimolo per una riflessione? Che le innumerevoli riforme che hanno interessato la giustizia civile dagli anni novanta fino ad oggi in realtà sono state introdotte in mancanza di un disegno complessivo e unitario, cioè un disegno in grado di governare prima i modi e poi i tempi di attuazione delle richieste di tutela giurisdizionale dal primo grado alla formazione del giudicato fino al processo di esecuzione. Ciascuna di queste riforme, presa singolarmente, può magari essere condivisibile, anche se in Italia, ahimè, non vi è la consuetudine che c’è in altri paesi europei di testare una riforma relativa al rito processuale e intervenire, a distanza di tre-quattro anni, per eliminare le distorsioni, per capire gli sbagli: perché anche i riformatori sbagliano e se avessimo un pochettino più di tempo potremmo analizzare, alla luce proprio delle riforme più recenti degli anni novanta, gli errori dei riformatori. A prescindere da questo, ciascuna di queste riforme potrebbe anche essere condivisa; ma quello che è mancato è – dicevo e ribadisco – il disegno complessivo, vale a dire un programma di riforme in grado di assicurare sì certe garanzie, ma anche la efficienza del processo civile soprattutto in termini di durata.

Ora facciamo un passo in avanti, prendiamo atto che questo disegno unitario e complessivo è mancato; ritengo che questo sia oggi il passaggio fondamentale per cercare di riprendere le fila di un discorso riformatore e quindi complessivo in materia civile. Cerchiamo di capire in particolare quali sono i punti di crisi. Ma qui la lista è lunga, per cui mi limiterò a segnalare soltanto alcuni aspetti. Innanzitutto, per quanto riguarda il processo di cognizione ordinario di primo grado, a me pare che l’errore più grosso che ha compiuto il legislatore del ‘90 sia stato quello di non prevedere una diversità di tipologie, cioè di introdurre un processo riformato di tipo unico con un sistema di preclusioni di tipo rigido, con un appesantimento eccessivo dell’iter processuale per certe tipologie, che probabilmente sono quelle numericamente più consistenti.

Secondo punto: scarsissima applicazione degli strumenti veramente acceleratori che la riforma del ‘90 ha introdotto; mi riferisco in particolare alla sentenza incorporata nel verbale di udienza prevista dall’articolo 281 sexies che, come dicevo, è forse uno dei pochi, pochissimi strumenti di vera accelerazione del processo perché consente al giudice di pronunciare la sentenza in realtà studiando le carte processuali alla stregua di uno studio che il giudice compie per provvedere con ordinanza e modellando anche la sentenza sul modello dell’ordinanza e quindi eliminando lo svolgimento del processo, le conclusioni delle parti proprio perché è un provvedimento che si lega poi ai verbali di causa. Questo strumento, che abbatte totalmente la fase di deposito della sentenza, oggi dobbiamo dire che è pressoché fallito. Ci sono dei volenterosi, anche qui al tribunale di Roma, che utilizzano e magari anche cercano di far utilizzare questo strumento; ma se andiamo a vedere, se andiamo a fare una verifica sul territorio nazionale ne constatiamo il fallimento. Perché è fallito? È fallito perché questo strumento presuppone un mutamento di cultura del giudice. Il giudice civile oggi è abituato ad uno studio cartaceo possibilmente presso la propria abitazione, uno studio tranquillo con tempi che lo stesso giudice si dà, mentre questo strumento presuppone uno studio anticipato rispetto alla discussione orale delle parti. Tra l’altro è anche abbastanza significativo che questo momento di oralità, che è un momento importantissimo perché riguarda proprio la fase di decisione del processo, sia in realtà un momento che nella pratica applicativa è totalmente fallito. Ripeto: le cause del fallimento sono probabilmente anche altre, ma su ciascuno di questi aspetti dovremmo poi approfondire il nostro livello di riflessione.

Ulteriore punto: eccessiva proliferazione dei riti processuali. Qui la riforma non ha aggiunto nulla e anzi ha forse complicato di più le cose perché ha introdotto, per il procedimento davanti al giudice di pace, un modello processuale in buona sostanza autonomo rispetto a quello davanti al tribunale. Oggi la eccessiva proliferazione dei riti processuali è un elemento che incide anche sulla durata del processo soprattutto nei casi, abbastanza frequenti, di errore e quindi di patologia del processo. Un giudice che si occupa della stessa materia controversa esaminata magari un mese prima dal collega della stanza a fianco riparte daccapo nello studio e quindi in pratica impiega molto tempo. Avere la possibilità invece di partire da uno studio già fatto e poi chiaramente scegliere se aderire o non aderire a quell’orientamento sarebbe altra cosa. La scarsa o assolutamente inesistente conoscenza degli orientamenti locali tra l’altro incide anche sul fronte dell’avvocatura perché spesso l’avvocatura non è in grado di sapere quali sono gli orientamenti di quell’ufficio giudiziario e quindi è costretta ad assumere iniziative processuali che magari sono del tutto inutili tenendo conto che quell’orientamento è da tempo consolidato.

Ancora: forte contrazione – e questo è un principio di carattere più generale – del principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Questo è un discorso molto serio e credo che nei pochissimi minuti che ancora mi restano non sia nemmeno il caso di iniziare a parlare della funzione nomofilattica della Corte di cassazione; però ho il dovere di segnalare che anche ai fini della durata del processo, soprattutto in relazione agli sviluppi impugnatori della causa, la mancanza di un punto di riferimento univoco e quindi, come dicevo, la evanescenza del principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie è una delle cause che incidono a monte sulla proliferazione dei processi e a valle anche sui tempi di trattazione e di svolgimento.

Un ultimo punto vorrei richiamare alla vostra attenzione: intollerabile durata del processo significa anche avere consapevolezza della assoluta inesistenza di qualsiasi collaborazione tra giudici ed avvocati. A me pare che se si vuole ridare un minimo di efficienza al processo civile questo sia un percorso assolutamente necessario; cioè non è possibile pensare di recuperare una efficienza complessiva del sistema senza recuperare appunto dei princìpi di collaborazione tra giudici ed avvocati. Sto tentando – non a Roma perché a Roma mi rendo conto che questo è un discorso assai difficile, ma in ambito più ristretto e cioè in distretti di corte di appello territorialmente più contenuti e anche con un minor numero di operatori – un esperimento che chiamo delle regole locali e cioè delle regole che magistrati ed avvocati si danno per far funzionare meglio il processo civile.

Tutto quello che a titolo esemplificativo ora vi dirò ha una sua precisa conseguenza in termini di durata del processo. Faccio l’esempio di quella che chiamo pulizia dei ruoli del giudice civile. Il giudice civile ha in media il 10, 15, talvolta 20 per cento di cause fantasma e cioè cause già morte, già transatte che intasano i ruoli e quindi fanno lavorare le cancellerie e gli stessi giudici inutilmente. Se gli avvocati hanno transatto stragiudizialmente la lite, cosa ci vorrebbe? Fanno una istanza congiunta al giudice e si utilizza uno strumento in grado di portare alla cancellazione della causa dal ruolo e cioè appunto alla pulizia, alla espulsione di quel numero di cause dai ruoli attivi nel giro di una settimana, perché ormai quella è una causa finita, morta. Assistiamo a questo transitare nei ruoli del giudice di cause morte anche da due-tre anni (e ci sono problemi di notifiche).

La stessa migliore gestione dei ruoli è un problema che riguarda i capi degli uffici giudiziari: si pone cioè la necessità di consentire al giudice di specializzarsi di più per cercare di abbattere i tempi di redazione delle sentenze. Anche per i tempi di svolgimento delle udienze si tratta di una tipica materia che potrebbe essere oggetto di regole locali. Pensate, per esempio, che sarebbe sufficiente mettersi d’accordo sul tempo di chiusura dell’udienza generalizzando, come peraltro ha fatto la Cassazione, quella regola dell’articolo 59 delle disposizioni di attuazione, la famosa ora contumaciale che era stata introdotta per i giudizi davanti al pretore e che oggi la Corte di cassazione ha generalizzato anche per i processi davanti al tribunale. Dire che per un’ora non si prendono provvedimenti in assenza delle parti o di una di esse eviterebbe magari agli operatori di spiegare la ragione per la quale si è provveduto prima. Queste mi paiono regole convenzionali, di buona fede, indispensabili per tentare di migliorare l’efficienza del processo civile.

Ovviamente – e qui concludo – bisogna recuperare un disegno complessivo. La stagione delle riforme che si è ultimata deve fermarsi per recuperare il disegno unitario, capire dove le riforme hanno fallito, intervenire soprattutto sui punti ai quali facevo riferimento prima e cioè l’eccessivo appesantimento del modello processuale unico di procedimento davanti al tribunale. Bisogna quindi recuperare questo disegno unitario e se è possibile, nell’attesa di questo recupero del disegno unitario, tentare con le regole locali e cioè provocare, attivare quei princìpi di collaborazione tra giudici ed avvocati per far funzionare meglio il processo.

 

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Fin dall’antica Grecia il principio "la legge è uguale per tutti" era considerato essenziale alla vita della polis. In quei tempi lontani quel principio (isonomia) era radicato nelle coscienze del popolo ateniese e costituiva un sicuro ancoraggio dei livelli di civiltà sui quali si fondava la vita di quella società. Nella nostra società, sempre più affascinata da ciò che appare piuttosto che da ciò che è, quel principio, fondamento essenziale per uno Stato di diritto, sembra ormai scritto nelle aule di giustizia per rammentare una realtà virtuale. La realtà virtuale riguarda ormai lo stesso processo. Un processo che dura mediamente dai dieci ai quindici anni, infatti, pone dei seri interrogativi sulla sua stessa ragion d’essere.

PAGINE CINQUE-SEI-SETTE

LA RIFORMA DEL FALSO IN BILANCIO

ALCUNE PREOCCUPANTI PROSPETTIVE

di Enrico Di Nicola

E’stato appena approvato dal Senato della Repubblica il disegno di legge di delega al Governo per la riforma del diritto societario presentato dal ministro Castelli (atto n. 608 trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati il 3 agosto 2001). L’articolo 11 di tale disegno di legge dispone, tra l’altro: "1. La riforma della disciplina penale delle società commerciali e delle materie connesse è ispirata ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere i seguenti reati e illeciti amministrativi: falsità in bilancio, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, consistente nel fatto degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori i quali, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico, ovvero omettono con la stessa intenzione informazioni sulla situazione medesima, la cui comunicazione è imposta dalla legge; precisare che la condotta posta in essere deve essere rivolta a conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto; precisare altresì che le informazioni false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie quantitative; estendere la punibilità al caso in cui le informazione riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi; prevedere autonome figure di reato a seconda che la condotta posta in essere abbia o non abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori, e di conseguenza: 1.1) quando la condotta non abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori la pena dell’arresto fino a un anno e sei mesi; 1.2) quando la condotta abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori: 1.2.1) la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la procedibilità a querela nel caso di società non soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; 1.2.2); la pena della reclusione da uno a quattro anni e la procedibilità d’ufficio nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del citato testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; regolare i rapporti della fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione; prevedere idonei parametri per i casi di valutazioni estimative".

Quasi tutti i commenti di stampa e le valutazioni concernenti questa riforma fino ad oggi si sono concentrati soprattutto su quei punti della nuova disposizione che avranno effetti immediati su importanti procedimenti pendenti per falso in bilancio – caratterizzanti l’azione di "mani pulite" nel periodo di "tangentopoli" – e che saranno destinati, con la nuova disciplina, a concludersi necessariamente con il proscioglimento e/o l’assoluzione degli imputati. Ritengo che il vero significato della riforma in questione non possa essere pienamente colto ove si ponga esclusiva attenzione, come troppo spesso sta accadendo, alla prospettiva, importante ma del tutto riduttiva, del conflitto di interesse riguardante questo o quel personaggio, ma debba essere afferrato ed approfondito riflettendo sulla funzione svolta nel sistema (soprattutto dalla fine degli anni ottanta, dopo l’abolizione della cosiddetta "pregiudiziale tributaria") dalla previsione del reato previsto e punito dall’articolo 2621, n. 1, del codice civile, applicata in relazione alle esigenze: della trasparenza nella gestione societaria anche per effetto della attuazione delle direttive comunitarie; della tutela dell’affidamento incolpevole, non soltanto dei soci, ma anche dei terzi; della tutela degli interessi privati e pubblici riconducibili al bilancio e alle altre comunicazioni sociali e, soprattutto, in relazione al fatto che i falsi in bilancio sono lo strumento essenziale della criminalità economica e che a fondamento del tema vi è il confronto tra ordinamento giuridico e mercato, tra cultura individualistica e cultura istituzionale, tra concezione dell’impresa vista come monade isolata, sottratta al controllo sociale e come strumento fine a se stesso, e concezione dell’impresa vista come libera iniziativa economica privata nel senso, nel modo ed ai fini prefigurati dalla Costituzione della Repubblica nel titolo III sui rapporti economici (articoli da 35 a 47), oltre che come centro di "lavoro", imprenditoriale, autonomo e dipendente (articolo 1) in cui si svolge la personalità dell’uomo (articolo 2).

Occorre quindi: in primo luogo, accertare se effettivamente i falsi in bilancio ed in comunicazioni sociali siano, come si è detto, strumenti di criminalità economica; poi, stabilire se e come la vigente disciplina abbia svolto la sua funzione in relazione ai beni da tutelare; infine, esaminare la proposta di riforma in discussione per trarre, dal confronto, le logiche conseguenze e per comprendere funditus di che cosa effettivamente si tratta.

Non è qui il caso di analizzare i problemi di definizione della cosiddetta "criminalità economica" perché ai fini che interessano si ritiene sufficiente ricordare soltanto che, mentre alcuni studiosi, rifacendosi all’opera di Edwin M. Sutherland ed incentrando il metodo di ricerca sugli aspetti criminologici e sociologici dei reati economici, si occupano più del criminale e dell’ambiente criminale che dei reati stessi, altri, prendendo le mosse da una visione normativa del problema, si occupano, viceversa, più dei reati che del criminale.

In particolare, i primi, pur non ignorando una tipologia di condotta consistente nella violazione di leggi destinate a regolamentare le attività professionali dell’autore del reato che vengono sviate dal loro scopo sociale per il conseguimento di lucrosi e rilevanti vantaggi economici, pongono l’accento sull’autore del reato stesso e cioè sul fatto che il delitto - proprio per questo originariamente definito "dei colletti bianchi" – sia commesso da persona con status socioeconomico e politico derivante dalla sua appartenenza alla classe dominante, al gruppo di coloro che sono titolari o detentori di centri di potere o, comunque, di coloro che contano. Essi, pertanto, hanno segnalato, sotto la formula "criminalità delle imprese", i reati commessi nell’impresa o dai dirigenti dell’impresa a profitto di quest’ultima; hanno rinvenuto il fondamento dei reati economici nell’abuso di fiducia nei rapporti economici; hanno studiato il settore degli affari quale strumento ed oggetto di atti criminosi; hanno, insomma, evidenziato che l’ambiente proprio della criminalità economica è principalmente quello delle grandi società e che i responsabili di questa forma di criminalità sono soprattutto i managers, i funzionari direttivi del mondo degli affari e coloro che derivano da questo mondo il loro elevato status socioeconomico e politico.

I secondi, definendo i reati economici come atti i cui effetti turbano o compromettono la vita economica o il sistema economico, a prescindere dai danni recati agli interessi individuali, citano quali esempi di reati economici quelli che incidono sugli scambi internazionali, sul mercato, sui prezzi, sulla libera concorrenza, sulle istituzioni della vita economica eccetera, ma segnalano concordemente, in modo specifico, le evasioni fiscali, gli abusi e le strumentalizzazioni del finanziamento pubblico, i reati finanziari commessi nell’ambito dell’impresa e, soprattutto, i reati societari (commessi professionalmente nel campo delle società commerciali) e di bancarotta (commessi dall’imprenditore dichiarato fallito), tra i quali ruolo preminente assumono le falsificazioni dei bilanci.

Qualunque sia la definizione data o da dare alla "criminalità economica", tutti gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che si tratta della "più dannosa di tutte le violazioni e deviazioni non soltanto perché è la più costosa ma anche perché minaccia e distrugge la fiducia nelle fondamenta della vita economica e perché nessuno di noi riesce a proteggersi adeguatamente da essa". Infatti, a prescindere per ora dalle conseguenze terribili che derivano allo Stato democratico da tale tipo di criminalità, è certo che il danno economico prodotto ha raggiunto in Italia livelli tali da incidere in modo rilevante sull’economia della nazione. Basta ricordare i danni prodotti dalle grosse evasioni fiscali, dalle esportazioni di capitali, dalle distrazioni di finanziamenti pubblici utilizzati per fini consumistici anziché per investimenti produttivi e dalle speculazioni finanziarie per rendersi conto di tale triste realtà. E si tratta di un fenomeno che purtroppo cresce anche per l’incapacità del sistema penale, nelle indagini di polizia, negli accertamenti giudiziari, nel sistema sanzionatorio e di attuazione della sanzione, di farvi adeguatamente fronte.

Fermando ora l’attenzione sulla criminalità economica commessa nell’ambito delle imprese ed in particolare delle società commerciali tenute per legge alla redazione dei bilanci, si rileva preliminarmente che questa restrizione di campo dell’indagine è meramente apparente e non svaluta in alcun modo quanto si è detto a proposito della criminalità economica in generale perché la consumazione dei reati economici più rilevanti passa attraverso l’attività di gestione delle maggiori imprese strutturate prevalentemente in società per azioni. Inoltre, anche quando l’effettiva attività imprenditoriale non viene esplicata attraverso una distinta persona giuridica, è normale avvalersi della società commerciale per occultare, dietro lo schermo di questa, spesso attraverso interposte persone che la rappresentano all’esterno, il centro di interessi e di potere effettivo cui fa realmente capo l’attività. Infine il fenomeno delle holdings e delle partecipazioni incrociate è oggi talmente connaturale all’attività imprenditoriale di un certo rilievo ed è talmente esteso da potersi definire tranquillamente di modeste dimensioni, se non quasi trascurabile, l’azione di criminalità economica che rimanga fuori dall’ambito delle gestioni societarie specie se si ricordi che la tipologia d’autore a cui si fa riferimento è quella del soggetto qualificato da uno status socioeconomico e politico elevato derivante dalla sua appartenenza al gruppo di coloro che "contano". Specificato, così, il settore di criminalità economica che interessa, si osserva che nessun reato economico può essere commesso senza la falsificazione dei bilanci della società nell’ambito di gestione della quale l’atto delittuoso sia stato compiuto. È sufficiente considerare qualche fattispecie indubbiamente inclusa nella criminalità economica per dimostrare la verità dell’assunto.

L’evasione fiscale – che costituisce il punto cruciale della "criminalità finanziaria" – sarebbe resa impossibile per la società commerciale dall’assoluta completezza e veridicità dei bilanci dell’impresa i quali poi, consentendo l’agevole accertamento dei redditi conseguiti dai terzi che avessero comunque lucrato dall’attività di gestione dell’impresa stessa, indirettamente renderebbero oltremodo difficoltose e rischiose le evasioni fiscali aventi ad oggetto tali redditi. Altrettanto deve dirsi per tutte le illecite speculazioni finanziarie e valutarie; per l’illecita strumentalizzazione dei rapporti finanziari all’interno dell’impresa e tra imprese; per i non consentiti squilibri nelle strutture finanziarie con particolare riguardo alle posizioni debitorie più macroscopiche evidenzianti lo stato di insolvenza. E, tenendo conto che il bilancio completo e veridico presuppone una contabilità regolare e documentata, quello che si è detto vale anche per le grosse frodi commerciali ed assicurative, per la strumentalizzazione illecita delle leggi di mercato, per l’impiego di procedure di produzione meno costose di quelle previste dalle leggi, per la produzione di beni diversi per qualità da quelli che si afferma di produrre o che si è obbligati a produrre eccetera. Né si può pensare ad abusi del finanziamento pubblico da parte di una impresa societaria senza la falsificazione dei bilanci della società, dato che nella procedura di erogazione e nella fase di utilizzazione sono sempre previsti controlli pubblici e parapubblici che in tanto possono essere elusi o, peggio, illecitamente condizionati in quanto siano falsi i dati di bilancio riguardanti l’erogazione o l’utilizzazione del finanziamento stesso.

Tutto questo, pertanto, sta a significare che il campo in cui l’abuso del finanziamento pubblico può facilmente esplicarsi e si esplica è quello della impresa che agisce con strumenti societari di diritto privato in una situazione che vede la crescente presenza finanziaria pubblica nell’economia (ancora attuale malgrado le "privatizzazioni") strumentalizzata ad interessi personali o di gruppo difficilmente coincidenti con gli interessi della collettività se non dal punto di vista di coloro che, essendone gli esclusivi titolari e gestori, cercano di sottrarsi non solo al controllo popolare e dell’opinione pubblica, ma anche al controllo delle pubbliche istituzioni. È appena il caso di aggiungere, infine, che anche altri gravi reati – alcuni dei quali considerati comuni ma aventi un enorme rilievo economico-politico se commessi da amministratori di imprese di certe dimensioni – possono essere di fatto consumati attraverso la falsificazione dei bilanci. I casi delle appropriazioni e distrazioni di beni sociali eventualmente commessi per finanziare segretamente gruppi politici ed organi di stampa o, peggio, per corrompere pubblici amministratori o per subire concussioni comportanti comunque controprestazioni metagiuridiche a livello di potere personale nella azienda e fuori dell’azienda costituiscono una esemplificazione concreta quanto mai illuminante. In proposito, basta pensare ai "fondi neri" utilizzati per commettere corruzioni oppure per riciclare denaro sporco (condotte che non danneggiano certamente la società e i soci) per rendersi conto di tale realtà. Si può quindi concludere affermando che le falsificazioni dei bilanci delle imprese non soltanto rappresentano una delle forme più rilevanti di criminalità economica, ma costituiscono lo strumento indispensabile per la consumazione di tutti i più gravi fatti di criminalità economica.

Da tale conclusione derivano due conseguenze: la prima è che, dal punto di vista della ricerca, i caratteri del fenomeno della criminalità economica nell’ambito della impresa vengono a identificarsi con il fenomeno dei falsi bilanci e viceversa; la seconda è che, dal punto di vista della lotta alla criminalità economica, non si può pretendere di condurre a termine efficacemente la lotta stessa se non iniziando a colpire in modo deciso il meccanismo di cui i delinquenti economici si servono per l’espletamento della loro attività delittuosa, cioè la falsificazione dei bilanci. Si tratta, quindi, di un tema complesso e concretamente attuale ed importante non solo dal punto di vista giuridico e contabile, ma soprattutto dal punto di vista dello sviluppo economico, politico e civile del paese e della difesa dell’ordine pubblico democratico: complesso perché, avendo per oggetto le false comunicazioni sociali, con i conseguenti risvolti in materia fallimentare e tributaria, non può ignorare i problemi della trasparenza gestionale, della funzione del bilancio, della pratica utilizzazione delle forme giuridiche delle società commerciali – e delle società di capitali in particolare – per occultare l’impresa economica e le sue attività; attuale ed importante perché concerne i tipici reati che costituiscono strumento di criminalità economica e, come tali, anche strumento di criminalità politica e di criminalità organizzata – mafiosa o comune che sia – con la conseguenza che al tema che interessa sono strettamente collegati i fenomeni di "tangentopoli", dell’attività mafiosa e dei centri di potere occulti, del riciclaggio di danaro sporco, dei traffici illeciti di ogni genere che oggi come ieri accentrano le attenzioni e le preoccupazioni dell’opinione pubblica non solo nazionale.

A questo punto sarebbe necessario analizzare i singoli punti sopra enunciati con particolare riferimento al rapporto tra criminalità economica e potere, all’azione del criminale economico per la conquista del potere all’interno ed all’esterno dell’impresa, alla connessione tra reati societari e reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e, insomma, alla illegalità diffusa che ha caratterizzato e continua a caratterizzare il settore che interessa e che, in gran parte, è causata o incrementata o tollerata dalla inefficienza e inefficacia dei controlli interni ed esterni all’impresa: il che è impossibile. Sono convinto però che con uno scenario talmente ampio di fronte, anche se non possono essere compiutamente illustrate in modo credibile le varie prospettive accennate, l’esame degli aspetti tecnico-giuridici del tema presi normalmente in considerazione assumano un diverso e più consistente significato ed uno spessore culturale maggiore: ed è quello che mi sono proposto di fare con queste preliminari osservazioni di carattere generale, alla luce delle quali, a mio avviso, devono essere esaminati i vari problemi tecnici da affrontare nelle sedi proprie. D’altra parte lo strumento ideale del sistema capitalistico è costituito, proprio per le loro caratteristiche, dalle società di capitale, nell’ambito delle quali le società per azioni rappresentano il mezzo più efficiente e rilevante per l’attuazione dell’organizzazione capitalistica della società. La differenza tra società a responsabilità limitata e società per azioni non va infatti ravvisata soltanto nella diversa misura del capitale minimo ma soprattutto nel fatto che l’assoluta spersonalizzazione della partecipazione e la facilità di circolazione delle azioni secondo le regole cartolari, unite alla limitazione del rischio al solo capitale conferito, rendono possibile la formazione di cospicui capitali necessari per le grandi imprese senza che i singoli risparmiatori escano allo scoperto e partecipino effettivamente all’attività imprenditoriale, che viene ad essere così delegata ad un vertice di tecnocrati al servizio di questo o quel leader che assume il potere. Da qui l’enorme sviluppo delle società per azioni nel mondo industriale e consumistico moderno con aumento di potere crescente proporzionato, si badi bene, alle dimensioni, ai profitti ed in modo sempre più pericoloso per la vera democrazia, ai collegamenti nascosti con il Governo e l’amministrazione pubblica tramite clientele, associazioni e forze, palesi ed occulte.

Del resto, proprio il complesso intreccio di interessi privati contrastanti e di interessi pubblici esistente nelle società ed attorno alle società per azioni rende particolarmente importante l’istituto del bilancio per le molteplici finalità che l’ordinamento giuridico con esso si propone e che consistono, in definitiva, nell’impedire abusi e lesioni di interessi e diritti privati e collettivi. Infatti, nelle società per azioni, l’esigenza di tutelare contemporaneamente i soci, i creditori sociali, i piccoli azionisti e la minoranza, la stessa società nei confronti dei soci speculatori, i terzi, l’economia locale e nazionale, i lavoratori dipendenti e l’occupazione, i corsi dei valori azionari eccetera determina conflitti continui. Questi conflitti devono essere composti con l’uso corretto degli organi sociali, con controlli interni ed esterni e con il contemperamento dei vari interessi contrapposti, tutti però subordinati agli interessi costituzionali dell’indirizzo e coordinamento a fini sociali dell’attività economica – che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – e del riconoscimento del diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende: il che, evidentemente, può essere ottenuto esclusivamente – ove non ci si voglia accontentare, come oggi purtroppo avviene, di mere finzioni e di ipocriti formalismi fine a se stessi – con il deposito di bilanci di esercizio rigorosamente rispettosi delle norme che li disciplinano – e che richiedono, come si vedrà, chiarezza, completezza, precisione e veridicità – perché non si può valutare ciò che non si conosce e perché senza intendere non si può volere.

Esaminando i punti essenziali della normativa vigente, nella sua pratica applicazione, si osserva quanto segue. L’art. 2621, n. 1, del codice civile stabilisce: "Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire due milioni a venti milioni: 1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime". Tale delitto consiste in una particolare ipotesi di falso ideologico in scrittura privata avente ad oggetto la rappresentazione di circostanze fattuali inerenti alla costituzione o alle condizioni economiche della società in relazione alla tutela dell’affidamento incolpevole dei soci e dei terzi (Cass. pen., sez. 1ª, 3 dicembre 1996, n. 10381). Si tratta, pertanto, di delitto plurioffensivo posto a tutela non solo della fede pubblica – intesa come interesse alla genuinità e veridicità dei segni rappresentativi di alcuni fatti determinati – ma anche della economia pubblica – intesa come ordine economico (Cass. pen., sez. 5ª, 9 aprile 1991, n. 3949) – e degli interessi patrimoniali della società, dei singoli soci, dei creditori e dei terzi che entrano in rapporto con la società (Cass. pen., sez. 5ª, 10 novembre 1994, n. 4073). Primario oggetto della tutela penale sono però gli interessi riconducibili alla funzione economica che un’impresa è chiamata ad assolvere nella realtà sociale, specie allorquando tale impresa si fa carico della gestione dell’altrui risparmio: non è un caso che l’ordinamento abbia predisposto un capillare sistema di controlli che in tanto ha una sua ragione d’essere in quanto diretto a prevenire i pregiudizi che alcuni comportamenti possono determinare all’economia collettiva (Cass. pen., sez. 5ª, 22 aprile 1998, De Benedetti, in Cass. pen. 1999, 279, p. 708). È, inoltre, reato di pericolo, per cui è sufficiente la mera possibilità che i soci o i creditori della società o i terzi siano tratti in inganno dalle false dichiarazioni sulla reale situazione patrimoniale della società, con correlativa messa in pericolo dell’interesse tutelato (Cass. pen., sez. 3ª, 1° luglio 1998, Salemi, in Cass. pen. 1999, 280, pp. 709 e 710). Infine, stante la sua natura plurioffensiva, il reato sussiste anche nell’ipotesi in cui tutti i soci siano consapevoli delle falsità delle comunicazioni, delle relazioni e del bilancio (Cass. pen., sez. 6ª, 1° marzo 1983, n. 1800). La falsità punibile nel reato di cui all’art. 2621, n. 1, del codice civile può essere commessa non solo mediante esposizione non veridica, ma anche mediante occultamento di fatti rilevanti, sicché l’omessa esposizione di un fatto assume il significato della negazione della sua esistenza quando la sua rilevanza ne avrebbe imposto la manifestazione ai fini della rappresentazione delle effettive condizioni economiche della società o di quelle che attengono alla costituzione della società medesima (ad esempio, modifiche dell’atto costitutivo e degli elementi indicati nell’art. 2518 del codice civile).

Ad integrare il dolo specifico del delitto di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 n. 1, del codice civile è sufficiente la volontà di determinare un errore negli organi sociali, nei soci o nei terzi, allo scopo di indurli a tenere comportamenti (quanto ai terzi, ad esempio, concedere nuovi fidi bancari ovvero non revocare quelli già concessi o continuare i rapporti di affari con la società) diversi da quelli che terrebbero se fossero a conoscenza della realtà della situazione e dei rischi effettivi. Ne consegue che il dolo specifico espresso dall’avverbio "fraudolentemente" prescinde dalla rappresentazione – anche sotto il profilo della semplice possibilità (dolo eventuale) – del danno che potrà derivare al terzo dal compimento o non compimento di quegli atti in vista dei quali sono state poste in essere le false comunicazioni sociali.

Una segnalazione particolare merita la ipotesi delle false comunicazioni sociali sulla costituzione della società non più prevista dal disegno di legge Castelli e già eliminata, in precedenza, dalla Commissione Mirone e dalla proposta Fassino ed altri presentata alla Camera dei deputati il 21 giugno 2001. Infatti si tratta di ipotesi largamente praticata, sia pure con una tolleranza del tutto ingiustificata anche se spiegabile (specie quando le "forze reali" predominano sulla "politica"), in cui l’impresa effettiva – che non potrebbe operare o non potrebbe operare impunemente, se agisce palesemente – si nasconde, mediante "prestanomi" prezzolati, talora vecchi ed analfabeti, dietro mere forme societarie (scatole cinesi) per occultare la effettiva attività imprenditoriale esplicata, che così può essere svolta al di fuori di qualsiasi legge e controllo, alimentando quella "illegalità diffusa" e quella "ricchezza sommersa" che costituiscono veri e propri "cancri maligni" della nostra democrazia, la quale di fatto, sul piano economico, praticamente non ancora esiste (cosiddetta "democrazia economica").

Si pensi al caso di un costruttore, titolare di una grandissima impresa, che "crea" tante società fittizie per ogni cantiere che apre per la costruzione di un singolo edificio, mettendo in liquidazione le società fittizie alla fine di ogni singola costruzione ed incamerando, al di fuori di ogni controllo, i pur "leciti" profitti. Si pensi al caso di società costituite al solo scopo di riciclare denaro sporco o di nascondere flussi finanziari illeciti destinati, nel mercato globale, anche a finanziare organizzazioni criminali mafiose o terroristiche che agiscono attraverso "teste di legno" che di solito sono persone "insospettabili" e notoriamente ritenute "gente per bene". Si pensi infine al fatto che oggi qualunque associazione a delinquere, più o meno organizzata, agisce dietro le forme dell’impresa avvalendosi degli schermi societari e che certamente le interposte persone messe a gestire tali società mai daranno false informazioni sulle "condizioni economiche della società" (art. 2621, n. 1, del codice civile) o sulla "situazione economica, patrimoniale o finanziaria" della società (art. 11 del disegno di legge Castelli).

In questo quadro, è utile ricordare la sentenza della Cassazione, sez. 5ª, del 21 gennaio 1992 in causa Nava (Cass. pen. 1993, 1100) in cui si legge: "il reato di falso in comunicazioni sociali di cui all’art. 2621, n. 1, del codice civile prevede non solo le comunicazioni sociali che abbiano come contenuto le condizioni economiche della società, cioè lo stato patrimoniale della stessa, ma anche quelle che attengono alla costituzione della società medesima. Tra le vicende che attengono alla costituzione della società debbono ricomprendersi le modifiche dell’atto costitutivo e in genere tutte le modificazioni degli elementi indicati nell’art. 2518 del codice civile. Ed invero anche di tali variazioni devono essere informati i soci, i futuri soci, i creditori, i possibili creditori e, in genere, i terzi interessati". Ultimamente, con sentenze della Corte di cassazione, sez. 2ª pen. n. 237 del 6 marzo 1997 e sez. 5ª pen. n. 207 del 20 novembre 1998, è stata confermata la sentenza del Gip del tribunale di Pescara in data 14 gennaio 1994 con la quale si è deciso che integra il delitto di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2621, n. 1, del codice civile la costituzione di una società di capitali a mezzo di prestanome, qualora l’intestazione fittizia delle partecipazioni sociali risulti preordinata ad ingannare i terzi, dissimulando l’appartenenza dell’impresa a persona i cui notori precedenti penali e commerciali dissuaderebbero gli interessati dall’instaurare rapporti con la società o li indurrebbero a maggiori cautele.

È ben vero che contro quest’ultima sentenza si è osservato che il ricorso a prestanome nella costituzione di una società di capitali al fine di dissimulare l’appartenenza dell’impresa a persona non affidabile (e che intende servirsi dell’organismo in fieri onde perpetuare i pregressi illeciti) non costituisce esposizione di un "fatto storico", ma costituisce una mera "simulazione", che vale a dire una "finzione" diversa dalla "falsità"; è anche vero però che tutto questo presuppone che la simulazione non determini la "esposizione di un fatto" falso quando invece, nel caso di specie, concerneva certamente un "fatto falso" la comunicazione di soci non veri e di organi societari diversi dagli effettivi al Rec o ad un comune o alla regione per ottenere autorizzazioni che non sarebbero state concesse se non fosse stato occultato il vero socio o il vero amministratore. D’altra parte non riesco a comprendere che differenza c’è – ai fini che interessano – tra la rappresentazione di una "finzione" e la rappresentazione di una "falsità", posto che l’interesse sottostante da tutelare è quello alla veridicità e completezza della informazione societaria.

Tutti sono d’accordo nel constatare che più sono gli interessi tutelati dalle norme regolanti il bilancio e, in certi casi, contrapposti: ergo, più sono gli scopi. Parimenti comune è l’opinione che individua, tra tali funzioni, le seguenti: 1) la funzione informativa della situazione patrimoniale della società; 2) la funzione accertativa – in relazione ai risultati dell’esercizio – degli utili (per stabilire il dividendo spettante agli azionisti, per determinare la quota da destinarsi a riserva, per calcolare l’imposta sul reddito eccetera) o delle perdite (per decidere se la società debba ridurre il capitale o eventualmente trasformarsi eccetera); 3) la funzione di garanzia per i creditori, i quali devono sempre poter contare sull’esistenza nel patrimonio sociale di attività almeno pari al capitale sociale ed alle riserve indisponibili. I contrasti sorgono nel momento in cui si tende a far prevalere una funzione sull’altra – e, quindi, interessi su altri – specie nel caso in cui si tratti di funzioni ed interessi contrapposti. Infatti coloro i quali sostengono che lo scopo principale del bilancio è quello di tutelare i creditori sociali e di evitare la distribuzione ai soci di utili fittizi o comunque non certi attribuiscono agli amministratori amplissimi margini di discrezionalità in tali valutazioni, parlano di "politiche di bilancio", ravvisano una funzione "dispositiva" del bilancio ed ammettono la liceità delle riserve occulte realizzate per scopi sociali attraverso la sottovalutazione delle poste attive e la sopravvalutazione delle poste passive. Coloro i quali invece considerano principale lo scopo di informazione inteso come rappresentazione oggettiva della situazione patrimoniale, ravvisando nei criteri legali di valutazione soltanto dei limiti al principio di verità, negano qualsiasi accoglimento alle cosiddette "politiche" di bilancio, alle cosiddette "politiche dei dividendi" ed alle riserve occulte anche di valutazione e, pur ammettendo una discrezionalità degli amministratori, la vedono limitata all’aspetto esclusivamente "tecnico" essendo il bilancio non una dichiarazione di volontà negoziale ma una dichiarazione di verità.

La disputa di cui sopra non è soltanto teorica ma ha un significato pratico molto rilevante specie in relazione alle conseguenze che ne derivano in materia di "riserve occulte" e di valutazioni. Per ora è bene osservare, comunque, che sia le ricordate opinioni contrapposte, sia quelle che hanno cercato di mediare tale contrasto, facendo perno sull’esposizione della "redditività dell’impresa" o della "struttura economico-finanziaria" della impresa stessa, hanno tutte in comune la caratteristica di evidenziare esclusivamente funzioni ed interessi privatistici del bilancio e della sua normativa ricacciando sullo sfondo gli interessi collettivi o pubblici che invece, a mio avviso, non possono né debbono essere ignorati. La questione però è stata ultimamente e più facilmente risolta prestando maggiore considerazione agli interessi collettivi e pubblici sottostanti al bilancio. La funzione informativa del bilancio va considerata, infatti, non soltanto in relazione ai rapporti privati esistenti tra società, soci e creditori, ma anche e soprattutto in relazione alle funzioni che l’impresa è chiamata a svolgere in una "Repubblica democratica fondata sul lavoro" (art. 1 Cost.), che "riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (art. 2 Cost.) e che, infine, ha il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese" (art. 3, cpv., Cost.).

Alla luce di tali princìpi fondamentali, oltre che delle norme costituzionali che regolano i rapporti economici (articoli da 35 a 47 Cost.), vanno rilette ed interpretate le disposizioni che disciplinano la materia e specialmente quelle che garantiscono, attraverso la pubblicità, l’informazione esatta, vera e completa del patrimonio e dell’attività imprenditoriale dei complessi produttivi da cui dipende la sorte non solo e non tanto degli amministratori, dello staff dirigenziale di vertice, dei soci, dei capitali impiegati, dei finanziatori (i quali, tutti, sono o possono essere altrimenti informati), ma dei piccoli risparmiatori, dei lavoratori dipendenti, dei disoccupati in cerca di occupazione, dei giovani (che, affacciandosi sul mercato del lavoro, devono fare scelte di specializzazione professionale), delle forze politiche specie di opposizione (in relazione alla programmazione ed alle scelte politiche nazionali) e, insomma, del divenire economico-sociale di tutto il paese e del benessere della collettività dei cittadini.

La necessità di tale rilettura ed interpretazione trova inoltre conferma nell’esistenza dei controlli giudiziari; nella tipizzazione dei reati societari e nella configurazione come grave delitto del falso bilancio; nell’assoggettamento di alcune imprese, per la particolare attività esercitata, ai controlli ed alla vigilanza dell’autorità amministrativa (ad esempio banche ed assicurazioni); nel fatto, oltremodo sintomatico, che negli ultimi anni il tema del controllo esterno e pubblico delle società per azioni – sulla scia delle legislazioni straniere più evolute – è stato particolarmente sentito e discusso anche a livello politico; nel rilievo che la legge 7 giugno 1974, n. 216, nell’istituire la Consob e nell’attribuire a tale commissione sia pur limitati poteri di controllo, e la legge n. 127 del 1991, nell’attuare le direttive Cee, hanno parzialmente modificato in materia il codice civile sostituendo ed aggiungendo alcune norme dirette proprio a rendere più ampia, veridica, garantita l’informazione; nella circostanza, infine, che la tutela della concorrenza e del mercato di cui alla legge n. 297 del 1990, la legge n. 1 del 1991 sull’attività di intermediazione mobiliare e sull’organizzazione dei mercati mobiliari, la legge n. 157 del 1991 che disciplina l’insider trading, il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (in particolare gli articoli 166 e seguenti) e il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, come modificato dal decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (in particolare gli articoli 130 e seguenti), hanno costituito e costituiscono tappe dimostrative che la lunga marcia sulla trasparenza si sta conducendo in nome di interessi collettivi e pubblici.

Se così stanno le cose, è logico attribuire preminenza alla funzione informativa del bilancio. Si tratta di funzione che peraltro è necessaria per l’esplicazione delle altre funzioni in una prospettiva che vede in una giusta e sana gestione un corretto bilanciamento tra interessi privati e pubblici ed una discrezionalità degli amministratori estrinsecantesi nell’operare e nel gestire piuttosto che nell’informare su come si è operato e gestito: fermo restando, nella redazione del bilancio, il potere degli amministratori di scegliere – assumendosene ogni responsabilità – le forme tecniche da adottare, naturalmente nel rispetto della legge e sempre che dietro la discrezionalità tecnica non si celi l’intento e non si ottenga il risultato di effettuare scelte di diverso tipo in modo da rendere l’atto dispositivo anziché dichiarativo come deve essere. In tale modo la libertà dell’iniziativa economica privata – che pur trova i suoi limiti nella Costituzione – non è assolutamente pregiudicata – a meno che non si voglia ravvisare un danno nella responsabilità – dalla più ampia e completa informazione del bilancio che, si badi bene, comporta non una limitazione nell’azione imprenditoriale, ma la semplice possibilità di effettivo controllo successivo di tale azione.

D’altra parte negli Stati Uniti d’America – paese capitalistico per eccellenza – la massima informazione costituisce il motivo ricorrente nella disciplina dell’attività imprenditoriale sottoposta anche a controlli esterni e pur se si guarda soprattutto all’efficienza dell’impresa lo si fa con riferimento agli interessi sociali connessi alla sua progressiva istituzionalizzazione, agli interessi della proprietà azionaria quale "vincolo per una razionale distribuzione corrispondente all’ideale americano di una giusta società" ed alla funzione sociale degli amministratori di società: sicché l’obbligo della massima informazione è addirittura visto come dovere morale. La preminenza di questa funzione informativa del resto è ormai riconosciuta dalla giurisprudenza in sede civilistica ed in sede penalistica. Anche questa è stata una lunga marcia, ma ormai siamo vicini ad una meta che ci fa abbandonare, in proposito, il posto da fanalino di coda per portarci al livello dei paesi più evoluti. Le cronache di questi giorni da New York dimostrano che, sempre negli Stati Uniti d’America, il cosiddetto "patriottismo costituzionale", il rispetto e la devozione che per la loro Costituzione hanno gli americani prevalgono su qualsiasi differenza di razza, di religione, di classe, di interesse privato o corporativo. Sarebbe bello se altrettanto avvenisse in Italia in relazione alla nostra Costituzione.

Nel concludere questo punto, riallacciandomi a quanto esposto all’inizio, non posso fare a meno di sottolineare ancora una volta l’importanza pratica dei problemi posti, ricordando che uno dei motivi per cui "tangentopoli" non è esplosa prima va ricercato nel fatto, certamente rilevante, che soltanto con l’abolizione della pregiudiziale tributaria, con una diversa interpretazione del rapporto tra i reati di falso in bilancio e frode fiscale, con la modifica della disciplina della connessione introdotta con il nuovo codice di procedura penale, con la eliminazione di quello sconcio istituzionale rappresentato, prima della riforma concernente i reati ministeriali, dalla Commissione inquirente per i procedimenti di accusa (famosa per l’insabbiamento dei processi di criminalità economico-politica) ed infine con la preminenza attribuita alla funzione informativa del bilancio ed alla trasparenza della gestione aziendale dovuta alle direttive comunitarie è stato possibile, per gli investigatori di "mani pulite", accertare, procedendo per il reato di cui all’art. 2621, n. 1, del codice civile, i più gravi e complessi reati di criminalità economico-politica e di criminalità organizzata. Basta ricordare le tecniche di indagine seguite e leggere le sentenze emesse (tra queste quella contro Cusani del tribunale di Milano in data 28 aprile 1994, pubblicata su Foro Italiano 1995, II, 24) per rendersi conto della validità dell’assunto.

Già negli anni settanta, infatti, era stato scoperto, nel corso dei procedimenti penali sui fondi neri Montedison, sul finanziamento ai partiti da parte delle società petrolifere, sui fondi occulti delle banche, sulle attività di Michele Sindona e dei suoi complici eccetera, il sistema di corruzione politica esistente e mai denunciato anche per il mancato funzionamento dei collegi sindacali: pochi sanno però che tali procedimenti o furono insabbiati dalla Commissione parlamentare inquirente – che, con il sistema della connessione, riuscì ad estendere la sfera della sua azione anche alle indagini sui laici concorrenti con i ministri – oppure furono bloccati dalla tesi interpretativa dominante per cui i falsi in bilancio commessi per fini fiscali non erano perseguibili come tali ma come reati finanziari in relazione ai quali poteva essere opposta la pregiudiziale tributaria.

Anche se in questa sede non è possibile esaminare con la dovuta attenzione, anche sotto il profilo tecnico, come sarà certamente e diffusamente fatto altrove, la proposta di riforma in corso di approvazione al Senato (che pur presenta alcuni aspetti positivi in relazione, ad esempio, all’"elemento soggettivo" ed alla "lesività"), certamente non si può fare a meno, alla luce di quanto fin qui esposto, anche e soprattutto in relazione alla depenalizzazione del falso in costituzione di società, di manifestare, in linea generale, profonda preoccupazione per la impostazione seguita, non solo e non tanto per le inevitabili ricadute che vi saranno in tema di "conflitti di interessi" quanto per le conseguenze negative che potranno derivare praticamente da tale impostazione per quanto concerne i seguenti punti: la restrizione del controllo di legalità esercitato in relazione alle attività delle società commerciali dal pubblico ministero in forza delle attribuzioni conferitegli dalla legge in via generale (art. 73 ordinamento giudiziario), in materia penale (articoli 107, ultimo comma, e 112 Cost. e 74 ordinamento giudiziario) ed in materia civile ed amministrativa (art. 75 ordinamento giudiziario) con conseguente estensione dell’"economia sommersa" e della "illegalità diffusa"; il forte indebolimento dell’azione di contrasto contro la criminalità economica (connessa alla criminalità politico-amministrativa) e la criminalità organizzata (comune, mafiosa ed eversiva) ottenuta attraverso: l’enorme abbassamento della soglia di tutela dell’affidamento di tutti i terzi anche potenzialmente interessati e della trasparenza nella gestione societaria, l’affermazione di una cultura individualistica e corporativa – privilegiata rispetto alla cultura istituzionale – anche in violazione degli articoli 35, comma 1 (che si riferisce anche al lavoro imprenditoriale ed autonomo), 41 e 42, comma 2, della Costituzione in relazione agli articoli 1, 2 e 3 della stessa Costituzione; la sottovalutazione della funzione informativa del bilancio a causa di una miope visione privatistica e meramente mercantile dei beni tutelati; la riduzione della pena comportante la riduzione del termine di prescrizione e la impossibilità di utilizzare strumenti processuali oggi praticabili; la drastica riduzione delle indagini per falso in bilancio mediante le quali oggi è possibile accertare l’occulta attività economica effettiva svolta dietro lo schermo societario, specie nei casi di interposizioni fittizie di persona a fini illeciti.

Rimane la speranza nello sviluppo di una "democrazia economica" che valga a superare il gap tuttora esistente e che va aumentando tra chi gode dei diritti soltanto sulla carta e non è in grado di esercitarli e chi invece li esercita in concreto, tutti spesso dimenticando che la Costituzione della Repubblica, quando sviluppa in "titoli" la parte I, concernente "i diritti e i doveri dei cittadini", fa riferimento ai "rapporti" per chiarire che "diritti e doveri" sono facce di una stessa medaglia che si chiama "responsabilità" (art. 54). Ed è su questo valore, "responsabilità", che possono essere ancora fondate le residue speranze di chi continua a credere nei princìpi e nei valori di quella "prima parte" della Costituzione della Repubblica che tutti dicono di condividere e sono comunque tenuti a rispettare e che molti hanno giurato di attuare.

PAGINA SETTE

MARIO FRANCO. IL RUOLO DELL'ESPERTO

Saggiamente, in questa Associazione culturale, accanto ai magistrati ed avvocati siedono anche i consulenti tecnici. Dico saggiamente, in quanto la figura dell’esperto deve essere riqualificata, perché spesso è questi che contribuisce a dare un’impostazione al processo penale e il suo parere viene utilizzato per la stesura della sentenza. Di qui la necessità di un’adeguata preparazione professionale ed anche di un più ampio spazio al dialogo con magistrati ed avvocati, che giovi all’affinamento e alla completezza delle indagini. In questo modo si otterrebbero accertamenti mirati e pertanto contenuti in tempi meno lunghi di quelli che la prassi odierna deve purtroppo registrare.

Ma non basta. Pur se ad ogni operatore di giustizia è assegnata una mansione propria, non è ammissibile che tali figure siano talvolta digiune di conoscenze tecniche sufficienti a comprendere i pareri espressi dai vari esperti. Per questo, in ogni seminario al quale ho partecipato, mi sono sempre adoperato per favorire un dialogo tra giuristi e tecnici, finora con modesti risultati, forse perché molti "esperti" preferiscono evitare confronti che metterebbero a nudo la loro scarsa preparazione. Mi auguro che tale mentalità venga superata e possa nascere quella collaborazione che faccia bene sperare per il futuro. Tale collaborazione è indispensabile se si vogliono superare quelle barriere di diffidenza, disdicevoli per affrontare serenamente i problemi che diuturnamente si affacciano nell’espletamento delle indagini richieste.

Il sottoscritto, che dal ‘60 si occupa del linguaggio scritto e parlato, non condivide assolutamente gli atteggiamenti dei soliti "faciloni" che tendono a sottovalutare l’impegno dei consulenti. Perizie come quella grafica e quella di trascrizione non sono affatto semplici: tutto il contrario. L’indagine di analisi e comparazione della grafia richiede, oltre ad una indispensabile conoscenza della grafologia, anche il conforto di accurati esami strumentali, senza i quali l’accertamento in questione non può ritenersi adeguatamente esperito; così pure, per la trascrizione di conversazioni registrate su supporti magnetici, non si tratta soltanto di riportare sulla carta ciò che si ascolta: difficoltà possono insorgere anche per la cattiva registrazione, per un eventuale impatto dialettale, per sovrapposizione di voci e per la presenza di rumori di fondo che in parte possono essere superati, se in possesso di idonee apparecchiature. I maggiori problemi si pongono però con l’indagine fonica, ossia quella destinata al riconoscimento della voce. Il continuo evolversi delle strumentazioni elettroniche ha fatto sì che l’indagine fonica non venga più svolta con le prove di ascolto e con l’analisi fonetica: attualmente esistono centri altamente qualificati che possono operare strumentalmente. Ovviamente, non sono solo questi i problemi inerenti l’attività peritale, ma sono sicuro che questa Associazione si impegnerà per la loro risoluzione.

Nel prossimo numero di ISONOMIA è prevista la pubblicazione delle relazioni e degli interventi svolti nel convegno sul tema: "Qualità della vita e tutela dell’ambiente. Dalla contravvenzione al delitto". Abbiamo ritenuto di anticipare la relazione di Adelmo Manna sotto forma di articolo in prima pagina, così come avevamo fatto per quella di Gianfranco Amendola nel numero precedente. Ricordiamo che l’attività dell’Associazione è ampiamente documentata nel sito internet: http://digilander.iol.it/isonomia. Tornando al convegno, l’Associazione è convinta che i processi di crescita della democrazia debbano passare attraverso lo sviluppo di nuove culture. Ma la condizione essenziale è che esse vengano recepite dagli organi istituzionali del paese. La legge che configura per la prima volta un delitto contro l’ambiente si muove in questa direzione. Essa, però, dovrà essere accompagnata da una adeguata presa di coscienza da parte della collettività e degli organi amministrativi locali. Protagonisti del mutamento in atto saranno anche i magistrati e gli avvocati. È proprio per questa ragione che ISONOMIA invita caldamente gli operatori della giustizia e quanti siano comunque interessati al tema a partecipare a questa iniziativa, rivolta agli addetti ai lavori ma aperta all’attenzione e al contributo dei cittadini tutti, con il coinvolgimento di qualificate rappresentanze della società civile. Si tratta del secondo convegno organizzato dall’Associazione, la cui attività – giova ricordare – tende a soddisfare la esigenza: 1) di recuperare i princìpi ispiratori della nostra civiltà giuridica – forse troppo frettolosamente accantonati – e di porli a confronto con le realtà dei paesi europei; 2) di affrontare i problemi reali e concreti del funzionamento della giustizia al fine di evitare che l’affermazione dei princìpi rimanga un fatto fine a se stesso; 3) di percorrere nuovi metodi di ricerca in ordine alla soluzione dei problemi che, partendo dal superamento delle divisioni corporative tra magistrati ed avvocati, consentano la partecipazione di tutti quei soggetti disponibili ad affrontare i problemi della giustizia su un piano avulso da qualsiasi logica d’appartenenza e dal punto esclusivo dell’utente della giustizia. Su queste basi si confida che gli aderenti a ISONOMIA vogliano ritrovarsi nel comune intento di dare un segno fattivo e concreto al proprio impegno, arricchendo gli incontri con l’insostituibile apporto delle proprie idee e delle proprie esperienze, in modo che dai dibattiti possano scaturire sempre nuovi spunti per ragionare e crescere insieme.

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