ISONOMIA

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Periodico di informazione giuridica

Anno I, n. 1 Giugno 2001

Direttore responsabile Lillo S. Bruccoleri. Condirettori Antonio Acquaroli e Oreste Flamminii Minuto. Mensile della Associazione culturale "Isonomia". Presidente Mario Almerighi. Consiglieri effettivi: Gianfranco Amendola, Antonio Fiorella, Franco Ionta, Ugo Longo (segretario), Gianni Melillo, Fabrizio Merluzzi. Tommaso S. Sciascia, Rosalba Turco (tesoriere). Consiglieri supplenti: Erminio Amelio, Anna Argento, Giovanna Corrias Lucente, Paola Di Nicola, Paolo Iorio, Mattia M. La Marra, Marcello Marinari, Laura Nissolino, Carlo Testori, Andrea Vardaro, Giuseppe Zupo. registrazione tribunale di Roma n. 236 dell'8 giugno 2001. Sede: 00136 Roma, via Giovanni Gentile, 22. Numeri telefonici: 06 39735200, 06 39735051 (associazione); 06 39735052, 06 39735900, 06 39733192, fax 06 39735101, fax 39743333 (direzione e redazione). E-mail: isonomia60@libero.it. Internet: http://digilander.iol.it/isonomia. La collaborazione è, di norma, gratuita. Testi e materiali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Spedizione in abbonamento postale 45 per cento ex articolo 2, comma 20, lettera b), legge n. 662 del 1996. Stampa: Romaprint S.r.l., via di Scorticabove, 136, telefono 06 41217552, fax 06 41224001.

Sommario:

Almerighi                 "Un Impegno comune. "

Amendola                 "Il primo delitto contro l'ambiente." 

Gallo                         "Una politica per il processo penale."

Flamminii Minuto       "Le garanzie mancanti."

Ionta                          "Le garanzie apparenti."

Resta                          "La giurisdizione minima."

Dalla Chiesa              "Troppe novelle."

Vadalà                       "Sveltire il processo penale."

Acquaroli                   "Il DNA."

Sciascia                     " Le recenti riforme sul processo civile.

Merluzzi                      " Una panoramica dalla parte degli avvocati."

Zupo                           " Un pò di dottrina."

Longo                         " Un ricordo personale."

Bruccoleri                  " prima le regole."

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"UN IMPEGNO COMUNE

di Mario Almerighi

Crisi della giustizia è crisi di efficienza. Nel civile siamo ormai giunti alla denegata giustizia. Nel penale siamo quasi allo stesso livello. Ma la crisi della giustizia è anche crisi di ruolo e di ruoli. Il vuoto della politica ha aperto spazi enormi alla giurisdizione. Il fenomeno della giurisdizionalizzazione della conflittualità politica non è solo di oggi. Esso ha radici lontane.

Quando in una società domina l'illegalità diffusa sono inevitabili i riflessi di ciò anche nella gestione della politica. Non sta a noi stabilire se il primo fenomeno sia la causa del secondo o viceversa. Sta di fatto che ogniqualvolta l'applicazione della legge sfiora interessi che investono la sfera della politica si apre un contenzioso, una conflittualità tra poteri, una lacerazione dell'unità dello Stato. Questa conflittualità ha indotto il legislatore a varare una serie di riforme dirette più a dirimere tali conflittualità piuttosto che a rendere il servizio giustizia degno almeno di un funzionamento minimale.

Nel nostro sistema costituzionale la giustizia è una funzione dello Stato e non un contropotere dello stesso: uno strumento dello Stato e per lo Stato, al servizio della collettività, col compito di applicare la legge nei confronti di tutti. Ma oggi come ieri e forse ancor più di ieri la legge non è uguale per tutti. Ormai questo principio non viene neanche più scritto nelle aule di giustizia di nuova costruzione e sembra prevalere il principio che non tutti sono uguali dì fronte alla legge. La criminalità organizzata manovra ogni anno circa 70.000 miliardi di lire.

Il cittadino comune che lamenta lesioni di suoi diritti non riesce più ad affermarli. L'imputato per sapere se è colpevole o innocente ha tempi che si aggirano tra i dieci e i quindici anni. Le vittime di reati sono quasi totalmente abbandonate a se stesse. Il processo, sia civile che penale, ha acquistato sempre più dimensioni virtuali.

In una tale situazione i protagonisti del processo sono rimasti privi di punti di riferimento collegabili con una qualsiasi cultura della giurisdizione. Il pubblico ministero ondeggia tra il ruolo di parte - proprio della cultura anglosassone - ed il ruolo tradizionale della nostra civiltà giuridica che lo configura come organo dedito all'accertamento della verità. Il difensore soffre della mancata attuazione della parità di ruolo col pubblico ministero ed anche di una sorta di diffidenza nei confronti del giudice, che vede condizionato dall'unicità dell'ordine giudiziario. Il giudice è in profondo disagio da un lato per la strisciante delegittimazione della sua terzietà, dall'altro lato per la frustrante condizione organizzativa nella quale deve operare.

Accanto al fenomeno della giurisdizionalizzazione della conflittualità politica vi è, poi, quella relativa alla conflittualità sociale. Le gravi carenze della pubblica amministrazione, l'espropriazione di vaste zone di territorio del nostro paese da parte delle organizzazioni criminali hanno contribuito a sopravvalutare i risultati ottenibili dal giudiziario aumentando a dismisura la domanda di giustizia con creazione di aspettative inevitabilmente deluse. Le frustrazioni di chi non riesce a far valere i propri diritti hanno contagiato in gran parte anche chi la giustizia dovrebbe rendere cosicchè sembra che l'unica cultura visibile tra gli operatori del diritto sia quella di un'arida burocratizzazione di tutte le funzioni.

é a tutto ciò che "Isonomia" intende reagire non certo sul piano politico che non le è proprio, ma sull'unico piano che ritiene praticabile da parte di chi dal quadro che sopra abbiamo delineato ricava grande sofferenza: quello relativo ad un impegno civile teso a riconquistare una comune cultura della legalità e della giurisdizione nel paese, che restituisca al cittadino la speranza di ottenere giustizia. Non è più pensabile, infatti, che alla situazione attuale si possa rimediare con la logica corporativa di chi mostra i muscoli più forti per l'affermazione del potere di questa o quella parte.

é per questi motivi che è stata avvertita l'esigenza di abbattere gli steccati tra magistrati ed avvocati. é per questi motivi che magistrati ed avvocati insieme chiedono aiuto a tutti, tranne a coloro che, pur di conquistare un pezzetto di potere nella realtà attuale, sono disposti a diventare chiunque tranne se stessi.

Paolo Borsellino ammoniva: "L'affermazione della legalità non dev'essere una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale, morale... che coinvolga tutti, affinché tutti si. abituino a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità".

Il manifesto fondativo dell'Associazione culturale "Isonomia"

GIUSTIZIA UGUALE DAVVERO

In questo momento storico, la crisi della giurisdizione del nostro paese presenta connotati tali da far temere lo sgretolamento di uno dei pilastri fondamentali di una qualsiasi democrazia: quello che serve per assicurare alla collettività quel minimo di garanzie che riguardano la sicurezza dei cittadini, la certezza dei propri diritti, la convinzione che il rispetto Iella legge sia condizione di progresso per tutti e che la sua valutazione sia, invece, causa di regresso e di penalizzazione della propria ed altrui esistenza.

La vita della politica è in gran parte intrappolata dalla ricerca di un consenso fondato sull'immagine e sulla gestione di essa, piuttosto che sulla ricerca di affidabilità per la soluzione dei problemi concreti, che riguardino la qualità della vita di ogni cittadino.

Frenetiche rincorse ad un garantismo prevalentemente di facciata rischiano di produrre un sistema sempre più ricco di garanzie formali e sempre più povero di garanzie sostanziali, tanto che ormai qualcuno parla più di garanzie dal processo che di garanzie nel processo.

L'affievolimento del momento repressivo - debole coi forti e forte coi deboli - non è compensato da interventi di natura preventiva ed esiste il rischio di una lesione irreversibile dei livelli minimali di affermazione della legalità e delle fondamentali garanzie del cittadino davanti all'amministrazione della giustizia.

Alla crisi delle ideologie si è accompagnata la crisi di ideali irrinunciabili per lo sviluppo di una qualsiasi democrazia avanzata, quali la solidarietà, la giustizia sociale, il rispetto della legge.

La loro riaffermazione non può certo essere affidata a sterili scontri di potere tra corporazioni.

S'impone la diffusione di una nuova cultura, che abbia come presupposto il recupero di un dialogo scevro dei condizionamenti derivanti da qualsiasi appartenenza e che tenga esclusivamente conto degli interessi e della tutela della collettività e del cittadino.

Per quanto riguarda la giustizia, la crisi del suo funzionamento non è addebitabile alle sole spinte negative esterne, ma trova solidi ancoraggi nella insufficiente presa di coscienza, da parte della magistratura, del profondo significato costituzionale dell'autogoverno e delle implicazioni a tale valore connesse e, da parte dell'avvocatura, del profondo significato di un ruolo di carattere privatistico con connessioni ed incidenze di interesse collettivo.

Siamo convinti della necessità che entrambe tali componenti abbandonino qualsiasi pretesa di egemonia in ordine alle soluzioni della crisi in atto e recuperino i reali riferimenti cognitivi delle rispettive realtà operative ed il senso dei rispettivi ruoli.

Solo attraverso un confronto che parta da un'onesta e laica disponibilità ad affrontare i problemi della giustizia non dal punto di vista della categoria di appartenenza ma dal punto di vista del cittadino sarà possibile costruire una comune cultura della giurisdizione nel rispetto delle reciproche essenziali specificità.

Al periodo della speranza dell'attuazione dei princìpi costituzionali, di quel cambiamento e di quella trasformazione, di cui lo sviluppo della nostra democrazia aveva estremamente bisogno, sta subentrando una fase di delusione, rassegnazione e scetticismo proprio in coloro che di tale speranza avevano fatto ragione di vita.

Il processo costituente europeo impone una diffusa presa di coscienza di nuovi doveri e di nuove responsabilità anche per quanto riguarda l'esercizio della giurisdizione ed il suo funzionamento.

Occorre, dunque, un grande salto di qualità nell'affrontare i temi relativi:

a) alla garanzia di sicurezza della collettività;

b) alla garanzia di un processo che, per essere giusto, deve essere innanzitutto esistente;

c) alle garanzie dell'imputato e della vittima del reato, anche non abbiente;

d) all'indipendenza e all'autogoverno della magistratura, al suo ruolo ed a quello dell'avvocatura;

e) ad una rappresentanza negli organi di governo di tali componenti che sia fondata su valori sorretti da un corretto ed imparziale impegno nell'esclusivo interesse del servizio giustizia.

Un salto di qualità che non può essere affrontato né dai soli magistrati né dai soli avvocati, ma che richiede un comune impegno di entrambe le categorie e che non può prescindere dal contributo dei vari operatori della giustizia, dei suoi utenti e degli addetti all'informazione: un confronto nel quale ciascuno possa offrire il bagaglio della sua specificità e delle sue esperienze, ma soprattutto del suo libero patrimonio intellettuale al fine di tutelare esclusivamente il servizio giustizia.

Una legge buona solo se è un punto di partenza

Gianfranco Amendola. IL PRIMO DELITTO CONTRO L'AMBIENTE

Proseguendo nell'inquinamento normativo in materia ambientale, la legge 23 marzo 2001, n. 93, intitolata, appunto, "disposizioni in campo ambientale", approvata (in commissione) in extremis pochi minuti prima della fine della legislatura, ci ha regalato una nuova miscellanea di modifiche non collegate da alcun disegno politico unitario in settori certamente diversi quali parchi ed aree protette, emissioni di gas serra, strutture del Ministero dell'ambiente, agenzie regionali per l'ambiente, contributi e finanziamenti, posidonia oceanica, rifiuti, amianto, bastoncini per le orecchie, nucleo operativo ecologico dei carabinieri eccetera. Insomma, di tutto e di più.

In questo caleidoscopio verde, pochi si sono accorti che l'articolo 22, intitolato "organizzazione di traffico illecito di rifiuti", ha operato una svolta storica nel nostro diritto penale introducendo, accanto alle contravvenzioni già esistenti nel settore, il primo delitto contro l'ambiente.

Giova, in proposito, ricordare la genesi di questa disposizione: nel marzo 1999, dopo lunghe esitazioni, su proposta del Ministro dell'ambiente, al fine di potenziare l'efficacia e di adeguare la normativa italiana di tutela ambientale (le cui sanzioni sono, al massimo, di natura contravvenzionale) agli indirizzi europei, il Consiglio dei ministri aveva approvato un disegno di legge elaborato nel 1998 da una apposita commissione, coordinata dal professor Adelmo Manna, per introdurre nel codice penale un nuovo titolo VI bis intitolato "delitti contro l'ambiente".

Intendiamoci, era già un compromesso, imposto dall'atteggiamento del Ministero di grazia e giustizia, il quale, nella fase delle "trattative", richiedeva di "rinunciare al valore simbolico di una disciplina incentrata in via esclusiva sulla tutela dell'ambiente in sé considerato, non realizzabile se non a costo di alcune rinunce sul piano della determinatezza, e di "ripiegare su un modello antropocentrico", senza uscire dai binari tradizionali.

Comunque la base della proposta, come si leggeva nella relazione introduttiva, era costituita dai delitti di "inquinamento ambientale" e di "distruzione del patrimonio naturale", costruiti entrambi sul modello di reato di pericolo concreto, salvo aggravanti se il pericolo si

concretizza in danno. L'ipotesi di "traffico illecito di rifiuti" - che evidentemente configura, invece, una ipotesi di pericolo presunto - era stata aggiunta "in quanto una corrispondente ipotesi contenuta nell'articolo 53 del decreto legislativo n. 22 del 1997, essendo di natura puramente contravvenzionale, si è già dimostrata di ridotta efficacia general-preventiva, rispetto alla invece notevole gravità del relativo illecito"; tanto più che il citato articolo 53 riguarda solo le spedizioni di rifiuti eseguite in contrasto con il regolamento comunitario n. 259 del 1993.

Eppure oggi, come si è detto, è solo questa l'unica ipotesi di delitto ambientale che il legislatore ha ritenuto di inserire nel nostro ordinamento.

Si prevedeva anche l'ipotesi colposa, peraltro non nel codice penale ma nel contesto della normativa speciale sui rifiuti. Di più: rispetto alla proposta del 1999 ha eliminato la precisazione che il reato poteva essere commesso "con una o più operazioni" (oggi occorrono "più operazioni") mentre ha aggiunto l'inciso "attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate". Restano sia il dolo specifico

("al fine di conseguire un ingiusto profitto") sia l'avverbio "abusivamente". Insomma: la montagna che partorisce il topolino!

Quanto al contenuto sostanziale, appare evidente che il delitto in esame riguarda solo chi, al fine di conseguire un profitto ingiusto, abbia allestito una vera e propria organizzazione professionale onde gestire continuativamente in modo illegale ingenti quantitativi di rifiuti.

In questo quadro, la fattispecie appare abbastanza determinata. Resta da evidenziare che comunque la disposizione in esame potrà svolgere un ruolo rilevante nella lotta all'ecomafia per le possibilità che offre nella fase delle indagini preliminari. La previsione di delitti contro l'ambiente con adeguate sanzioni, infatti, mira anche e soprattutto ad utilizzare, nei casi più gravi, adeguate forme di prevenzione cautelare ed importanti strumenti investigativi, quali le intercettazioni telefoniche ed ambientali, indispensabili in tema di ecomafia. Oggi questo è possibile ma solo nella limitata ipotesi sopra analizzata, che peraltro appare di tipo eminentemente "formale". Speriamo sia solo un punto di partenza!

Gianfranco Amendola

PAGINA 2

Fin dall'antica Grecia il principio "la legge è uguale per tutti" era considerato essenziale alla vita della polis. In quei tempi lontani quel principio (isonomia) era radicato nelle coscienze del popolo ateniese e costituiva un sicuro ancoraggio dei livelli di civiltà sui quali si fondava la vita di quella società. Nella nostra società, sempre più affascinata da ciò che appare piuttosto che da ciò che è, quel principio, fondamento essenziale per uno Stato di diritto, sembra ormai scritto nelle aule di giustizia per rammentare una realtà virtuale. La realtà virtuale riguarda ormai lo stesso processo. Un processo che dura mediamente dai dieci ai quindici anni, infatti, pone dei seri interrogativi sulla sua stessa ragion d'essere. I fondatori di "Isonomia" sono convinti dell'esigenza: 1) di recuperare i princìpi ispiratori della nostra civiltà giuridica - forse troppo frettolosamente accantonati - e di porli a confronto con le realtà dei paesi europei; 2) di affrontare i problemi reali e concreti del funzionamento della giustizia al fine di evitare che l'affermazione dei princìpi rimanga un fatto fine a se stesso; 3) di percorrere nuovi metodi di ricerca in ordine alla soluzione dei problemi che, partendo dal superamento delle divisioni corporative tra magistrati ed avvocati, consentano la partecipazione di tutti quei soggetti disponibili ad affrontare i problemi della giustizia su un piano avulso da qualsiasi logica di appartenenza e dal punto di vista esclusivo dell'utente della giustizia.

 

ETTORE GALLO. UNA POLITICA PER IL PROCESSO PENALE

Se è vero che, come fu autorevolmente detto, la civiltà di un popolo si misura dai princìpi che informano il diritto processuale penale, giunti a questo punto dovremmo convenire che, vista dalla prospettiva del nostro processo, la civiltà di questo singolare e atipico paese dovrebbe ricevere un giudizio di livello piuttosto basso.

Sennonché la verità di siffatto assioma è insita nel riconoscimento di una stretta dipendenza fra diritto processuale penale e politica giudiziaria del sistema di potere vigente, sicché sembra giusto assumere quello come espressione della politica penale di un regime e in definitiva poi della sua civiltà: a seconda delle garanzie che concede all'imputato o all'indagato, della tutela che accorda alla vittima, dell'ampiezza delle iniziative riconosciute alla difesa e al grado della sua inviolabilità; e ancora, in considerazione del suo sistema probatorio (soprattutto del modo di formazione della prova), della specie dei vari suoi eventuali procedimenti alternativi, per indicare gli aspetti su cui maggiormente s'appunta la tolleranza e il tasso di democraticità di uno Stato.

Ma, francamente, siamo davvero più in grado oggi di riconoscere quale sia la politica che regola l'ordinamento processuale del nostro paese? C'è almeno un'ideologia, c'è una matrice, una filosofia nella quale apprezzare la fonte da cui scaturisce quella massa di disposizioni, spesso contraddittorie e comunque evocate, cassate, ripristinate in parte, aggiunte, dissociate?

Siamo arrivati ormai ad una specie di babele, dove ciascuno degli stessi legislatori può soltanto ravvisare le norme che favoriscono o quelle che contrastano il suo personale interesse politico, o quello del suo gruppo, quando addirittura non si tratti del suo personale interesse tout court.

La crisi del processo purtroppo non si svolge in solitudine, ma coinvolge anche il diritto penale sostantivo che, già affetto dai pesanti problemi propri della sua perenne vecchiezza, si trova oggi sottoposto al dominio del rito, che si esercita attraverso una forma regressiva e degenerativa particolare, quale la marginalizzazione del dibattimento, tanto che la tradizionale considerazione del processo, come strumentale rispetto al diritto penale sostantivo, si è andata lentamente capovolgendo.

Si deve riconoscere che il codice dell'88, pur nelle due successive versioni della legge delega, aveva l'ideale di una grande e moderna civiltà giuridica.

Non è senza significato che il decimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei trasgressori, tenutasi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000, abbia additato l'importanza di due punti essenziali del tema del congresso: "la presunzione di non colpevolezza" e lo standard di "prova oltre ogni ragionevole dubbio", su cui era costruito il codice dell'88.

Ma, così come è stato ridotto durante questi ultimi dodici anni, qual è, amici, l'ideale, la filosofia che ora ispira questo coacervo di novellistica che lo ha adulterato?

Quale politica criminale ne è stata la matrice? Il cosiddetto "giusto processo", forse? Mi rifiuto di credere che quindici anni di dibattiti, di scritti, di tensione ideale che hanno impegnato le coscienze e l'intelletto di grandi giuristi, di magistrati eminenti, di illustri avvocati, di insigni uomini politici abbiano avuto per risultato un "processo ingiusto".

Per carità, nulla da dire sulla modifica dell'articolo 111 della Costituzione; domando però: ma in tutti questi anni dottrina e giurisprudenza avevano inteso il giudice istituzionalmente alleato di una delle parti in causa? E il contraddittorio non era mai esistito? E la parità fra accusa e difesa era stata negata? E, se poi davvero taluna di queste anomalie si fosse verificata, non ci sarebbero stati rimedi, non c'erano leggi?

Non dico la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948, ma almeno la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificata dall'Italia che l'ha ospitata, non avrebbe dispiegato alcuna influenza almeno sull'interpretazione delle nostre norme?

Gli articoli 66 e 67 dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, adottato dalla conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma il 17 luglio 1998, ratificato dall'Italia con la legge n. 232 del 12 luglio 1999? E non importa che questo Statuto non sia ancora entrato in vigore perchè non tutte le ratifiche si sono ancora avute; ciò che conta è che l'Italia, facendo propri quegli articoli, abbia inteso ribadire gli ideali dei codice dell'88.

Si è detto che sarebbe mancata un'esplicita costituzionalizzazione interna di quei princìpi. E allora? L'eventuale diversa maggioranza che emergesse dalle prossime elezioni avrebbe potuto scrivere in

qualche articolo delle leggi ordinarie che il giudice non necessariamente doveva essere indipendente e al di sopra delle parti e altre sciocchezze del genere?

Del resto, non si va già dicendo che comunque cambieranno anche la prima parte della Costituzione? Devono essere avvertiti, però, che là dentro ci sono anche i diritti dell'uomo, i diritti fondamentali, che l'ordinamento costituzionale non ha concessi, ma ha riconosciuti come appartenenti per sua natura all'uomo.

Il tentativo di ridurli o addirittura di ritoglierli determinerebbe la legittima "resistenza" del popolo: diritto di resistenza che è scritto in molte Costituzioni europee, ma che da tutti i suoi popoli è rispettato come uno dei diritti internazionali universalmente riconosciuti.

il vero è che sappiamo bene a chi e perchè il processo dell'88 apparisse "ingiusto"" nemmeno fosse stato quello di Krylenko, il "glorioso accusatore" della cosiddetta giustizia del totalitarismo sovietico.

In realtà poi non si voleva né l'una né l'altra cosa: sarebbe bastato, a farli contenti, un buon tribunale che avesse i dovuti riguardi per i detentori del potere, specie se economico.

Purtroppo temo che il rimedio alla precaria situazione attuale consista preferibilmente in un rinnovato dibattito nel paese, al fine di esprimere chiaramente e innanzitutto a quale politica debba ispirarsi un codice processuale penale che, giudicando con civiltà gli imputati, tuteli tuttavia le vittime e i cittadini onesti, utilizzando un rito celere e semplificato, che finalmente ci sottragga alle reiterate condanne da parte delle istituzioni di giustizia europee.

ORESTE FLAMMINII MINUTO. LE GARANZIE MANCANTI

Il mio intervento, come tutti i miei interventi, non passerà certo alla storia per essere un intervento di carattere dottrinario, né per essere un intervento di carattere mediatorio; ma intende rispecchiare quella che è realmente la vita di un avvocato ed essere un intervento di provocazione.

Personalmente ho vissuto un episodio che merita di essere ricordato. Era la fine degli anni sessanta e si discuteva, nell'ambito del vecchio codice di procedura penale, se fosse o meno rispondente a criteri costituzionali la presenza del pubblico ministero di fronte al giudice istruttore durante l'interrogatorio dell'imputato. Fu sollevata una questione di legittimità costituzionale, la cosa venne rimessa alla Corte, la quale la tenne per un periodo di tempo a giacere. Si riteneva che la presenza del pubblico ministero violasse il principio di parità stabilito dalla Costituzione e violasse in qualche modo i diritti della difesa, che erano posti su un piano diverso. La cosa non si sarebbe risolta se non fosse stata sollevata una ulteriore questione di legittimità costituzionale, questa volta di fronte a un pretore, che mi piace ricordare per essere stato un magistrato di trasparente limpidezza e di assoluta onestà: era il dottor Gabriele Cerminara. Fu segnalata al dottor Cerminara la necessità che una parte di lui, vale a dire quella parte che rappresentava il pubblico ministero, uscisse dall'aula. Il giorno dopo fu rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale non della assenza del pubblico ministero, ma della mancata presenza del difensore agli interrogatori dell'imputato; e, come tutti sappiamo, vi fu una pronuncia, che allora fu straordinaria, e poi il difensore venne ammesso.

Allora ecco la mia provocazione: come vediamo noi oggi questa riforma della Corte costituzionale, a distanza di trenta anni? Sorridiamo: perchè, dopo quella fiammata, fievoli luci e cupe ombre si sono alternate nell'incerto andare

della giustizia, i cui maggiori problemi restano irrisolti.

Secondo me ci si deve muovere al di fuori della logica di appartenenza, perchè altrimenti il discorso non sfocia neanche nell'ambito della comunicazione. Per ottenere un effetto dialettico al di fuori della logica dell'appartenenza, ma facendo tesoro delle proprie esperienze professionali ed anche politiche, ciascuno dovrebbe confrontarsi su alcuni temi, che appaiono assolutamente indilazionabili.

Intanto vorrei dire che una delle ragioni per le quali la giustizia sia penale che civile si ritrova nella situazione che tutti conosciamo è che qualcuno improvvidamente, non molto tempo addietro, pensò che la giustizia potesse essere una di quelle istituzioni che si potevano riformare a costo zero. Mai pensiero fu più funesto, mai la strada imboccata da quella oserei dire "sinistra affermazione" poteva pensare che portasse alle conseguenze alle quali noi oggi siamo di fronte.

Allora, per chiarirsi su un punto fondamentale: sì ai confronti, sì alle dialettiche, sì alle reciproche rinunce, ma alla condizione essenziale che siamo tutti d'accordo che il male della giustizia è innanzitutto un male di carattere finanziario. Il che per un verso significa che lo Stato o chi per esso deve pensare che la giustizia ha un costo, che è abbastanza rilevante, che è in relazione alla tranquillità che la giustizia può dare, altrimenti i discorsi teorici sui princìpi delle garanzie mancanti o delle garanzie apparenti, o delle garanzie superflue, diventa un discorso accademico, sul quale non vale la pena nemmeno di confrontarsi.

In secondo luogo, penso che quello che debba costituire oggetto di una visione così seriamente aggiornata della tematica della giustizia sia il primo drammatico scontro dialettico che è sulla funzione del processo. Siamo ancora nella fase per la quale non siamo riusciti a capire se il processo sia uno strumento di difesa sociale o se invece il processo sia un istituto, un complesso di regole predeterminate, vale a dire determinate prima, per stabilire la responsabilità di chi, sventuratamente, sia raggiunto da indizi di colpevolezza, sia indagato, o di chi invece abbia diritto a un equo processo sia pure essendo colpevole. E allora il primo nodo da sciogliere è questo.

Se pensiamo che lo strumento di difesa sociale possa essere attuato tramite il processo, entreremo subito in contrasto. Noi non riteniamo che il processo debba essere utilizzato come istituto nel quale la magistratura istituisca una ulteriore opera, che una volta si chiamava "di supplenza"; noi diciamo: a ciascuno il suo ruolo.

Se non distinguiamo questi ruoli, facciamo sì che l'opinione pubblica non riesce a capire chi ha abbandonato il territorio, ad esempio, alla delinquenza comune, alla delinquenza associata, alla criminalità organizzata e chi deve difendere il territorio da quel fenomeno.

Se si abbandona il territorio e si vuole poi attribuire alla magistratura il compito di difendere quel territorio, nel quale le indagini non possono essere più svolte e si ricorre sempre più di frequente all'opera dei pentiti, che saranno benemeriti quanto si vuole ma non fanno parte di una cultura di intelligence europea, avremmo fatto un'opera con la quale miniamo la funzione del processo, che quella non di difesa sociale, ma di accertamento delle responsabilità; e il cittadino, quando si troverà a dover analizzare le colpe o i meriti, confonderà tra compiti della polizia, compiti della magistratura; e noi dobbiamo quindi confrontarci su che cosa sia il processo.

Allora, se siamo intanto d'accordo che questo debba essere uno dei primi dati sui quali incontrarci, poi dobbiamo estendere la nostra valutazione e la nostra dialettica alla funzione del processo. Il processo, così come è, deve avere, attraverso norme aggiornate, una funzione deflazionistica ed efficientistica, per cui bisogna avere una giustizia comunque sia in tempi rapidi, anche se non risponde ai criteri dell'esigenza di un giusto processo, o vogliamo invece un processo giusto in cui le garanzie dell'imputato e quelle delle vittime siano tutelate? Ritorniamo sempre al vecchio discorso: mai più impropria fu l'affermazione di chi riteneva che questi problemi potessero essere risolti con le riforme a costo zero.

Parlo del giudice monocratico. Il giudice monocratico " di per sé una garanzia mancante nel processo rispetto al giudice collegiale. La solitudine decisionale di alcuni magistrati giovani, non preparati ad affrontare tematiche che comportano responsabilità di irrogazioni di pena veramente enormi, può servire a risolvere l'inflazione del processo deflazionandolo, può dare anche un senso di giustizia efficace, ma non darà mai un senso di giustizia giusta.

é tutto vero, ma non si risolve questo problema togliendo una garanzia qual " quella del grado di appello, anche perchè " vero che le statistiche sono menzognere, nel senso che vanno interpretate in forma diversa; ma se prendiamo i dati di riforma dei processi di primo grado nel grado di appello ci rendiamo conto che mai come in questo momento il giudizio d'appello " è stato utile per riformare in un senso o nell'altro le sentenze di un primo giudice, soprattutto quando il primo giudice, come oggi "è", ripeto, un giudice monocratico.

Ulteriore tema di confronto su eventuali mancanze di garanzia è quello sul quale da anni ci si batte: la esigenza ormai riconosciuta di separazione tra le funzioni accusatorie e quelle giudicanti. Finora ho parlato dicendo "noi avvocati", arrogandomi una impropria rappresentanza politica, che in tempi passati ho avuto, perchè sono stato presidente di una camera penale, ma che oggi evidentemente non ho. Però non temo smentita se affermo che uno dei dati sulle garanzie mancanti nel processo sia questo irrisolto conflitto sul ruolo del pubblico ministero nel processo penale. Non voglio addentrarmi nella distinzione tra funzioni, tra ruoli; non voglio assolutamente affrontare questi problemi. Però è un dato di fatto che un pubblico ministero non inserito organicamente, come è oggi, nell'ordinamento giudiziario costituisce una garanzia mancante in un processo a tre parti.

Questa riconosciuta esigenza, che mi pare derivi anche dall'Associazione nazionale magistrati allorquando parla di separazione di funzioni e non di carriere, è una sorta di mito sul quale nessuno riesce a mettere una parola definitiva. Nel frattempo si continua a lasciare le cose come stanno. E sicuramente questa è una anomalia che noi avvocati vediamo, ripeto, come una garanzia mancante nel processo.

Non è vero che noi avvocati difendiamo i delinquenti e quindi siamo sodali con essi: noi difendiamo i cittadini; le nostre esigenze sono le esigenze di un cittadino imputato. Quello che ci preoccupa è che in un sistema fino a prova contraria democratico l'istituto della custodia cautelare nell'arco di quattro anni sia stato riformato cinque volte ad opera del Parlamento: sull'istituto della custodia cautelare è intervenuto tre volte pubblicamente l'allora Presidente della Repubblica, perchè si affermava che se ne faceva uso distorto.

Tutto questo sta a significare che vi è non dico una prova, ma un indizio concreto che la funzione del processo sia stata utilizzata come strumento di difesa sociale da una parte della magistratura che rappresenta una certa cultura giuridica. Vorrei dire che tutto questo deve in qualche modo cessare.

Noi siamo pronti a dare il nostro contributo, consapevoli delle implicazioni sociali che il nostro ruolo riveste; sempre disponibili al confronto su ogni tema e questione, incluse le critiche che ci vengono rivolte, non sempre immeritate. Però vi è una cosa di cui molti di noi sono certi ed è che i baluardi di garanzia dei cittadini, se travolgono l'avvocatura, travolgono l'intero paese.

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FRANCO IONTA. LE GARANZIE APPARENTI

Il processo penale deve necessariamente subire una semplificazione, ma la semplicità deve essere appresa nel suo giusto significato: non sinonimo di superficialità o approssimazione bensì valore in sé e coerenza con gli obiettivi che si intende perseguire. La nostra società è sicuramente complessa e a una società complessa corrisponde una regolamentazione complessa giacché essa deve tener conto di ogni possibile evenienza nello specifico settore ove interviene a porre delle delimitazioni di comportamento. Il processo penale non sfugge a questa esigenza ma nel contempo non elude la critica della iper regolamentazione.

L'unica ragione per la quale la regola può essere accettata è quella per cui certe garanzie devono essere riconoscibili, sostanziali, condivise e tendenti alla salvaguardia di ineludibili princìpi generali.

Credo che la imprescindibilità del diritto di difesa, l'oralità di un dibattimento pubblico in parità di posizioni tra accusa e difesa dinanzi a un giudice terzo, la tutela dell'imputato e delle persone offese dal delitto e la indipendenza del pubblico ministero siano conquiste ormai acquisite al nostro ordinamento e prima ancora al nostro bagaglio culturale. Dunque a questi irrinunciabili parametri dovrebbe uniformarsi il processo penale evitando che essi vengano compromessi o posti in discussione e che si affatichi il protocollo di gestione dell'indagine e del dibattimento con adempimenti soltanto formali.

In uno Stato correttamente organizzato e rispettoso del dettato della Costituzione l'organo inquirente fornito di idonee protezioni istituzionali deve avere la responsabilità di rintracciare gli elementi di prova per fondare un giudizio di responsabilità o anche per escluderlo; occorre che sul suo comportamento debba e possa interloquire la difesa e un giudice in posizione equidistante e che tuttavia tale capacità di esplicazione funzionale non debba trovare ostacoli in disposizioni penalizzanti o quanto meno defatiganti.

Qual è il senso di tante indicazioni legislative per le quali di fronte a situazioni assolutamente pacifiche si debbano tenere comportamenti cosiddetti di garanzia ma che ben guardati appaiono soltanto adempimenti burocratici? Cito qualche esempio: la necessità della convalida motivata del sequestro del corpo di reato quando questo sia nella disponibilità dell'indagato e la sua detenzione sia di per sé illecita e incriminante. Quale sarà mai l'indagato che ne chiederà in sede di riesame la restituzione? E così l'intervento, sempre possibile, anche dinanzi a sentenze di corti d'assise di secondo grado che adottino provvedimenti in materia di libertà, del tribunale del riesame.

Il regime delle incompatibilità del giudice delineatosi progressivamente e sulla base di decisioni giurisprudenziali e di effetti di legislazione positiva rende possibile e quasi fisiologica la reiterazione di processi dinanzi a giudici ovviamente diversi in ciò contraddicendo il sano principio che sia chi meglio conosce a conoscere completamente e a decidere; il sistema del giudizio abbreviato ove manca la partecipazione attiva del pubblico ministero nella fase della ammissione delinea spesso delle situazioni di difficoltà gestionali dei vari procedimenti separati non in base a criteri di omogeneità bensì in base alle scelte dei singoli imputati.

Abbiamo scelto il sistema accusatorio per disciplinare il processo penale in Italia ma siamo venuti nel corso della sua stessa applicazione a tali modifiche e aggiustamenti in corso d'opera da far fondatamente dubitare che l'assetto attuale possa definirsi come tale; abbiamo puntato sempre più l'indice sull'aspetto delle garanzie e la risposta in termini sanzionatori si presenta sminuita, se non in tanti casi annullata, tanto da far mettere in dubbio da parte soprattutto dei cittadini lesi nei loro legittimi interessi che la sanzione sia ancora connaturata al sistema giudiziario; non riusciamo a sfuggire al circuito per il quale ogni decisione presa debba essere obbligatoriamente e superiormente vagliata tanto da

rendere meno "responsabili" gli stessi decidenti.

Lancio dunque un grido, di allarme no ma di preoccupazione sì, per l'efficienza complessiva del sistema che in queste condizioni e senza gli opportuni, credo improcrastinabili correttivi appare destinato all'implosione.

ELIGIO RESTA. LA GIURISDIZIONE MINIMA

Porto il saluto del Consiglio superiore della magistratura. Vedo in questa Associazione un'apertura che ritengo importante e che sicuramente porterà dei risultati. Innanzitutto qual è il motivo di particolare simpatia? é un piccolo dettaglio, ma il nome dell'Associazione, "Isonomia", mi ricorda profumo di polis, non della polis antica, quella della democrazia degli antichi dove c'erano disuguaglianze, ma della polis moderna, dove la giustizia è servizio. é stato ricordato qui dall'avvocato Nissolino ed io sono profondamente convinto che dobbiamo guardare non a questo senso della virtù, ma ai contorni di un servizio pubblico che ogni Stato deve dare.

Il secondo motivo di simpatia è stato appena descritto da Mario Almerighi: è uno sguardo sovranazionale alla questione della giustizia, che ci è imposto non soltanto dai tempi, ma anche dalle contingenze. Ho sentito il discorso appena fatto dal giudice Sciascia. Devo dissentire un molta durezza, anche se con molto garbo. Non amo, ci ho tenuto sempre a dirlo nel Csm, questa lettura un po' da furbizia, da acutezza tutta italiana che pensa alle condanne di Strasburgo come qualche cosa che dovrà essere aggirata attraverso qualche sotterfugio. é vero che c'è stato anche questo, che il decreto Pinto sicuramente non è tutto rose e fiori; probabilmente arriverà prima o poi alla Corte costituzionale per una serie di ragioni; ma credo che si debba avere un atteggiamento più propositivo nei confronti del diritto alla ragionevole durata del processo. C'È anche in una norma del decreto Pinto una possibilità evolutiva che non vorrei che venisse dimenticata ed è l'idea che il giudice, per evitare tutto questo, può imporre alle parti alcuni comportamenti che non devono essere contrari all'idea della ragionevole durata. C'È un elemento positivo. Dove invece bisogna cominciare a staccare il cappello è proprio su quella idea di "isonomia" legata all'economia del tempo; il tempo non è una risorsa uguale per tutti e questo si vede anche dalle condanne italiane a Strasburgo. Tanto per incominciare noi veniamo condannati per il 90 per cento per procedimenti civili e non penali. Chi ha interesse a ricorrere lo fa nel civile, non nel penale; cioè l'interesse a ricorrere sta in un gioco in cui la causa è più disponibile: nessuno ha interesse a ricorrere per non essere condannato; e questo è il primo dato.

Il secondo è che il tempo in un procedimento non è uguale per l'attore e per il convenuto; chi ha interesse a dilazionare i tempi della causa non è lo stesso soggetto che ha interesse a non dilazionarlo. Solo le banche se lo possono permettere; invece chi ha interesse a ricorrere a forme arbitrali o conciliative diverse è il soggetto contrattualmente più debole. Quindi dobbiamo ripensare

il meccanismo dell'economia del tempo del processo rispetto alle altre idee di giurisdizione alternativa. Questo è un punto importante.

L'idea della giurisdizione minima vuol dire non soltanto aumentare i magistrati: questa è una condizione necessaria ma non sufficiente; giurisdizione minima vuol dire che ci sono una quantità di con tutti che arrivano alla giurisdizione e che probabilmente non trovano nella giurisdizione il luogo ed il linguaggio adeguato per la risoluzione dei conflitti. Non dobbiamo attribuire al giudice compiti che non gli sono propri.

C'È in Italia una tendenza a riversare sul giudice, sul terzo, sulla giurisdizione una quantità di contraddizioni che non possono essere mediate dal giudice; e allora bisogna trovare altri filtri e altre soluzioni del conflitto, perchè ci devono essere altri linguaggi più adeguati. Qui la cultura degli avvocati deve essere una cultura cooperativa, propositiva; guai ad arrivare alla soluzione dell'avvocato, come dico fra virgolette, collaboratore di giustizia, con tutte le ambiguità che questo porta; ma nel caso di una diversa canalizzazione delle cause e dei conflitti credo

che la funzione dell'avvocato sia importante. Però a questo punto l'idea della giurisdizione minima non può essere disgiunta dalla questione della formazione e dalla questione del reclutamento Non è una questione di dettaglio: bisogna preoccuparsi di quale giudice vogliamo reclutare. Pensate a chi si deve costruire il modello del combinato disposto con una risposta automatica e poi deve dismettere tutta questa grande formazione per andare a fare una prova scritta in

cui c'è bisogno di argomentazione. questo è contraddittorio, è schizofrenico

Ultimo problema che lancio qui come tema di riflessione è il tema del reclutamento e della formazione legato ad un altro nodo che quotidianamente sperimentiamo nel Csm ed è il nodo del giudice specializzato o del famoso giudice generalista, come la televisione, competente a parlare di tutto e di più. Se riteniamo che la specializzazione debba essere un valore da tutelare, non credo che la specializzazione debba portare necessariamente ad una forma di incrostazione di potere. Mi preoccupo, invece, di una specializzazione dove il Csm, per esempio, non riesce a rimuovere alcuni specialisti che ci stanno là e che invece dovrebbero andar via, perchè non sono bravi, perchè non hanno una buona professionalità. Se il criterio è valutare la professionalità, si deve scegliere una volta per tutte se i magistrati devono essere specialisti o generalisti.

L'esperienza mi dice che nel Csm - ma in questo faccio soltanto opers di autoaccusa - si scelgono nei giorni pari gli specialisti, nei giorni dispari i generalisti.

NANDO DALLA CHIESA. TROPPE NOVELLE

Affronterei un tema solo, anche per ragioni di tempo, che mi è stato stimolato da alcuni interventi di questa mattina, che riguardano il quadro non unitario dell'introduzione di norme che vi è stato nel corso dell'ultima legislatura; quindi parlerò facendo tesoro della mia veste di parlamentare che ha potuto

osservare, anche con occhio sociologico, alcuni processi decisionali e alcune dinamiche tipiche del sistema parlamentare politico di questi anni. Credo che sia profondamente vero che non c'è stata una produzione unitaria e che questo sia dovuto al fatto che noi abbiamo riscontrato dentro la vita del Parlamento che è stato appena chiuso tre fondamentali impulsi alla produzione di norme in tema di giustizia, che vorrei riassumere con tutti i gradi di semplificazione, magari anche di banalizzazione impliciti in queste operazioni tipologiche.

Il primo impulso è quello di una produzione che è stata sostenuta da un intento riformatore, cioè che è partita dalla considerazione dell'arretratezza del sistema della giustizia in alcune sue branche, è partita dalla verifica di alcune disfunzioni, ha cercato di ovviarvi. Se vogliamo è stato l'impulso più nobile che ha operato comunque dentro la legislatura.

Un secondo tipo di impulso è stato invece legato alla situazione di emergenza dell'ordine pubblico e al forte dibattito che vi è stato sulla criminalità; quindi un impulso riformatore e un impulso emergenziale che ha tenuto conto di una forte incertezza ambientale, dell'elevato grado di utilizzabilità politico-ideologico dello stesso impulso nella competizione tra gli schieramenti politici e che ha generato una sua produzione all'interno della giustizia per un difetto organico del Parlamento, il quale, come cerco di ripetere da alcuni mesi, manca di una commissione parlamentare che si occupi di sicurezza. Questa è una delle anomalie più pesanti del nostro processo decisionale, per cui tutto ciò che riguarda l'ordine pubblico, la sicurezza passa dalla giustizia, a volte viene messo in fondo nel calendario della commissione giustizia e comunque cerca delle soluzioni giudiziarie e non di organizzazione o di prevenzione, di coordinamento delle forze di polizia.

Va denunciata una certa schizofrenia, perchè non c'è disegno riformatore, perchè gli impulsi che sono entrati dentro le decisioni parlamentari sono impulsi di varia natura, disomogenei, contrastanti, tutti perseguiti - e qui viene il grande paradosso della vita di questa legislatura - con una forte determinazione. Qual è il paradosso? Che il quadro normativo non unitario è stato perseguito all'interno di un quadro politico unitario; non c'è stato alcun altro ambito di interesse dell'attività parlamentare che abbia prodotto risultati enormi con così larghi consensi come quelli che si sono tenuti sulle norme che riguardavano la giustizia, a qualunque dei tre impulsi corrispondessero.

Questo è un paradosso interessante. Come mai? Perchè questa era una legislatura all'intero della quale su alcuni grandi princìpi si era realizzata una straordinaria ed inedita omogeneità? No. é una legislatura all'interno della quale si è arrivati ad avere l'opposizione che lascia l'aula quando si vota una finanziaria. Si è arrivati ad avere una divisione fortissima degli schieramenti anche su un'innovazione costituzionale come quella sul federalismo. Quindi non abbiamo avuto questa unità di intenti almeno sui grandi princìpi, quelli che richiamava Alfredo Galasso, per esempio. Non c'è stata o almeno non si è espressa in termini di posizioni, di decisioni politiche.

C'È stato un idem sentire sulle questioni della giustizia? Questa è una domanda che si può porre legittimamente; se hanno deciso sempre insieme sulle questioni della giustizia vuol dire che per una serie di combinazioni, che oserei dire storico-chimiche, si è ottenuta una fortissima analogia di modi di sentire sulle questioni della giustizia. E neanche questo è vero, perchè proprio sulla giustizia è finita l'esperienza della bicamerale e comunque neanche lì la legislatura ha sperimentato nei fatti una forte unità di intenti.

Allora credo - ed è un tema che sottopongo volentieri a questa Associazione, proprio per le finalità che si prefigge e per la composizione dei suoi aderenti - che dobbiamo ragionare su un fatto che, a mio avviso, è accaduto nel corso di questa legislatura e che si riflette anche nella genealogia degli impulsi normativi, ossia una profonda distorsione del rapporto tra politica e diritto. So che la politica è il luogo del diritto perchè è in una sede politica per eccellenza che esprimendo la sovranità popolare si producono le leggi. So che il diritto a sua volta è il luogo della politica perchè in maniera insensibile, a volte incosciente, il momento dell'attuazione delle leggi risente del clima politico e culturale del paese. So ancora che il diritto è il luogo della politica ed anche della negoziazione politica perchè quando si scrive una legge, quando si scrive una Costituzione, si trova una negoziazione che produce una sintesi più alta che esprime le ideologie che convergono all'interno del quadro condiviso da tutti. Ma altra cosa è pensare al diritto che diventa luogo di negoziazione della politica nel senso che si negoziano le posizioni che garantiscono l'equilibrio tra i partiti in quel momento. Questo non era mai avvenuto, questa è un'esperienza assolutamente inedita, che produce dei fatti inediti.

Cito due esempi. Uno è quello del rapporto tormentato con la Corte costituzionale. Non si era mai verificato il conflitto aperto su alcune parti della Costituzione: sia sull'articolo 111, sia sull'applicazione dell'articolo 68 sulla insindacabilità delle opinioni dei parlamentari.

Il secondo esempio è una conseguenza che può apparire soltanto di forma, ma non lo è: la lunghezza di quella che, con la terribile terminologia tecnica, voi avvocati e magistrati chiamate la novella e la novellazione. Le famose novelle o novellazioni scritte in questa legislatura hanno un dettaglio, una minuzia, un'articolazione, una pletoricità di espressioni e di riferimenti concreti che fanno violenza allo spirito astratto della legge e questo nasce semplicemente dal fatto che la legge viene ritagliata su misura ad interessi concreti, esattamente come le leggine e come le sanatorie.

Credo che quando si adotta questo sistema in Costituzione o nel codice penale si possa verificare con mano quale sia l'influenza che gli interessi esterni esercitano sulla produzione normativa, che perde la sua forza di astrattezza e perde dunque la pulizia concettuale che è associata normalmente con la sua astrattezza.

Questi mi sembrano dei temi non secondari; mi sembra che il rapporto tra politica e diritto si proponga dunque in modo nuovo e molto rischioso e penso che un'Associazione come "Isonomia" abbia tutte le carte per affrontarlo in modo libero, aperto e adeguato all'altezza dei problemi che si sono posti in questa legislatura.

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Il convegno sul tema "Garanzie ed efficienza nel processo" si è concluso con la assemblea costitutiva della Associazione. Il successivo appuntamento è stato fissato per le ore 15 di venerdì 15 giugno 2001, in un'aula della Corte di appello civile di Roma gentilmente concessa. In quella sede si terrà un'assemblea, alla quale sono invitati tutti i soci (già numerosi) e coloro i quali siano d'accordo con lo spirito che ha animato i promotori della iniziativa e pronti ad apportare il loro prezioso sostegno.

 

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PAOLO VADALA'. SVELTIRE IL PROCESSO PENALE

La lentezza del processo penale: rimedi. Il tema che mi è stato affidato è talmente serio ed abusato da farmi seriamente dubitare di fornire un contributo concreto di discussione, soprattutto dopo aver riconquistato, dopo un'esperienza ultradecennale nel settore penale, da pochi mesi e faticosamente, il piacere della lentezza che appare tipico del processo civile, ciò per una sorta di tacita acquiescenza degli avvocati e delle parti, oramai abituati ai tempi biblici del rito che né le riforme, né qualche timido tentativo di noi giudici riesce a scalfire.

Visto che di processo penale si deve parlare ed in particolare dei meccanismi che il legislatore più recente ha elaborato, nel tentativo di dare una soluzione ragionevole a tutti i processi (non soltanto quelli più soggetti all'attenzione della pubblica opinione), resta aperta la questione se la rapidità di decisione sia stata in qualche modo raggiunta o se anche le ultime riforme siano un fuoco destinato a spegnersi ben presto, come tutti i tentativi successivi all'approvazione del codice del 1989. Se cioè, in rapporto ad una questione criminale da risolvere e che lede i beni primari del cittadino, oltre a quelli dello Stato come istituzione, il valore della rapidità, che il Calvino delle Lezioni americane esaltava come una delle qualità fondamentali dell'opera letteraria - e che, per diverse ragioni, può essere traslato all'interno dei meccanismi processuali - sia rispettato nel dato formale e, quel che più conta, nella sostanza della difesa dall'aggressione a quei beni. Davanti a una platea così autorevole non vi è bisogno di ricordare come non necessariamente la rapidità di decisione dei procedimenti sia sinonimo di giustizia.

Mutatis mutandis, si potrebbe dire quel che Calvino sostiene a proposito del tempo in letteratura, che non è necessariamente "una ricchezza di cui disporre con agio e distacco; non si tratta di arrivare prima ad un traguardo stabilito; al contrario l'economia di tempo è una buona cosa perchè più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere" (o impiegare, a seconda della visuale). Nel caso del

processo penale, decisione sollecita equivale, se non a decisione giusta, a decisione efficace, il che non è poco, considerato che una sanzione irrogata a distanza di diversi anni dal fatto può dimostrarsi totalmente inidonea allo scopo della prevenzione speciale o della diversa finalità della rieducazione del condannato.

Una prima considerazione di ordine generale può farsi in rapporto al rito. Il rito accusatorio presuppone l'oralità del processo. Non si comprende, allora, per quale motivo la garanzia dell'oralità, soddisfatta da lunghe, spesso estenuanti e concentrate udienze dibattimentali, sia destinata a spegnersi all'interno dei successivi gradi di giudizio, che hanno uno svolgimento quasi esclusivamente documentale e sono distanti dall'attività di acquisizione della prova. Presuppone, allo stesso modo, la parità effettiva delle parti all'interno del processo.

Si è ipotizzato per anni uno squilibrio in favore dell'accusa, che disponendo della polizia giudiziaria e di uno strumento agile e incontrollato, qual era il codice Vassalli nella sua prima redazione, poteva agire al coperto per mesi, senza che la persona sottoposta ad indagini fosse al corrente della esistenza di un procedimento.

Si è, infine, trasformato lo strumento delle indagini in un guscio vuoto, dove l'interrogatorio di garanzia - che poteva avere una sua ragione logica in un contesto inquisitorio - è diventato un modo per contrastare, sullo stesso piano e davanti allo stesso organo dell'accusa (esercitata, però, tramite la riaffermazione dell'ibrido concetto dell'interesse pubblico), anche l'evidenza della prova contraria, quando vi è oramai la piena conoscenza dell'intero incartamento processuale. Rapidità si accoppia a semplificazione. Non è dato capire, allora, per quale ragione il legislatore più recente abbia intriso la fase delle indagini preliminari di trabocchetti formali, quando in sistemi analoghi, dove forse i poteri della polizia sono più ampi ma le garanzie sono effettive e concretamente maggiori, rispetto alle restrizioni alla libertà personale, al trattamento del detenuto ed alla correttezza del dibattimento, i formalismi in quella fase sono ridotti all'osso.

Qualche breve notazione s'impone in rapporto al diritto sostanziale ed agli strumenti di deflazione che vengono oggi adottati. Ogni buona risoluzione sul tema è comunque destinata ad arenarsi, di fronte al vero e pressante problema dell'inefficacia della sanzione. Questa, che nella maggior parte dei casi è legata all'esito finale del completo esperimento dei mezzi d'impugnazione, viene applicata raramente e soltanto per i casi di massima evidenza della prova o, peggio, quando chi è sottoposto ad indagini non è stato in grado, tramite un'efficiente difesa tecnica, di demolire in rito o nel merito l'impianto dell'accusa.

Viene quindi il sospetto che le ragioni della politica, utilizzate per teorizzare lo sbilanciamento dei poteri che si era creato dopo l'insorgere di "tangentopoli", siano state messe al servizio di un meccanismo che non è in grado di reprimere efficacemente, allo stato attuale, né la criminalità comune, né quella dei "colletti bianchi".

Alla lentezza del processo contribuiscono anche sclerosi ordinamentali non superate o ulteriori create da interventi del legislatore o della giurisprudenza. La suddivisione dei magistrati sul territorio continua ad essere legata a campanilismi di maniera mentre manca un serio accertamento della professionalità dei singoli che favorisce rendite di posizione. Nessuno dei meccanismi premiali, pur sperimentati in altri settori della pubblica amministrazione (settori non necessariamente più efficienti, ma forse più aperti alle innovazioni al loro interno), funziona seriamente per la magistratura. I tentativi di favorire la professionalità specifica per le nomine agli incarichi direttivi o gli stessi avanzamenti di carriera sembrano un lontano ricordo ed il ristabilito primato della politica non consente un obiettivo accertamento della qualità del lavoro, che pare sfuggire anche a sistemi più analitici di valutazione, sperimentati dal Consiglio superiore della magistratura e dai consigli giudiziari.

Il meccanismo delle incompatibilità creato dalla Corte costituzionale con fondate ragioni giuridiche, che peraltro non tengono conto delle carenze di organico dei piccoli tribunali, ed un uso distorto di strumenti processuali come la ricusazione per finalità dilatorie da parte di alcuni avvocati ostano alla rapida celebrazione delle udienze preliminari o dei dibattimenti.

Ne deriva che frequentemente i tempi dei processi giocano a favore degli imputati più danarosi, favoriti da una difesa tecnica più efficace, o di quelli realmente colpevoli, che tutto hanno da guadagnare da una sanzione non più certa e non più immediata.

Nella pratica giudiziaria spesso sembra improprio definire l'avvocato come colui che collabora all'attuazione del diritto, mentre l'uso di strumenti processuali in modo difforme dalla funzione per la quale sono stati creati - gli esempi abbondano e non appare questa la sede per farli - contrasta con le superiori esigenze dell'ordinamento.

Dal libro di Marco Travaglio Il manuale del perfetto impunito si possono ricavare dati sconcertanti sull'efficienza della macchina giudiziaria italiana, sotto il profilo della rapidità nella celebrazione dei processi. Un'indagine preliminare, che nel 1990 durava mediamente 94 giorni, nel 1997 ha già raggiunto mediamente i 185; un processo di primo grado davanti al tribunale, che durava 124 giorni, è passato ai 345 giorni medi del 1997 ed ai 401 giorni medi del 1998; in corte d'appello dai 266 giorni medi del 1990 si sono raggiunti i 573 del 1997 e poi i 647 del 1998.

Chiunque abbia un minimo d'esperienza di ordinamenti stranieri che praticano un rito di stampo accusatorio sa bene che vi sono limiti molto rigidi di ricorso al giudizio d'appello, che il numero degli avvocati è incomparabilmente minore e più selezionato, che ci si può permettere di far durare una settimana un processo ad esempio per lesioni colpose, quando da noi vengono patteggiati - se lo sono, ma qui s'aprirebbe l'ulteriore capitolo del fallimento dei riti alternativi - reati come l'associazione per delinquere, la corruzione, lo spaccio di droga, lo. sfruttamento della prostituzione, ma residua un numero notevole di processi pervenuti al dibattimento. S'innestano su queste considerazioni le consuete valutazioni d'ordine culturale sul maggior effetto deterrente della sanzione penale rispetto a quelle alternative, che però vengono sperimentate da non molti anni e ancora in misura limitata.

Ci si potrebbe chiedere, invece e con maggior fondamento, il motivo per il quale la scelta del patteggiamento, operata dallo stesso imputato, non debba essere irreversibile, prevedendosi il ricorso per cassazione; il motivo per il quale persiste la possibilità d'impugnare una sentenza resa all'esito del giudizio abbreviato, dipendente anch'esso da una scelta dell'imputato; se il giudizio di legittimità debba continuare ad essere solo apparentemente tale, mentre involge in concreto ulteriori accertamenti in fatto; se non sia il caso di sperimentare una più diffusa ed incisiva partecipazione di giudici popolari all' amministrazione della giustizia, come accade nei paesi in cui vige il rito accusatorio.

Forse è troppo presto per valutare gli effetti sulla lentezza dei processi della riforma del giudice unico. Per quel che è dato sapere, il primo periodo di applicazione ha ingenerato una grande confusione logistica ed organizzativa e la figura del giudice monocratico non sembra abbia sortito effetti benefici sulla rapidità di celebrazione dei processi in tribunale.

Quel che è certo è che l'unificazione delle procure, in sé non censurabile per il riconoscimento del fallimento delle vecchie procure circondariali e della mancata repressione della piccola criminalità, ha comportato effetti devastanti per gli unici uffici che realmente funzionavano, che erano le procure della Repubblica presso i tribunali, indipendentemente dal giudizio di valore che può darsi dell'operato di alcune di esse.

Se dietro queste riforme vi sia un preciso disegno politico o vi siano soltanto legittime iniziative di riorganizzazione delle risorse umane e materiali esistenti è giudizio che forse dovrà essere affidato agli storici. Oggi possiamo dire soltanto "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".

ANTONIO ACQUAROLI. IL DNA

Nessuno può negare che ci caratterizzi una certa dose di originalità. Noi siamo qui insieme, magistrati e avvocati, che per lungo tempo sono stati categorie contrassegnate dalla incomunicabilità. Questo deve richiamarci ad un proposito - spero condiviso da tutti - nel quale sta la natura vera di questa singolare e un po' eterodossa Associazione. Noi ci definiamo oggi "Isonomia", un termine accattivante, aulico se volete, ma forse meno adeguato allo spirito dei fondatori di questa Associazione. Quando ci siamo incontrati, magistrati e avvocati, se volete anche casualmente, ci siamo detti: perchè non cambiare strada? Perchè non tentare una via che le due categorie si sono sempre ben guardate dal percorrere insieme? La nostra prima divisa era: insieme per la giustizia; forse oggi un po' superata. Accettiamo volentieri questa più aulica denominazione: "Isonomia". Ma guardino: al fondo di tutti noi che siamo qui radunati, se non v'è una particolare tensione ideale verso questa nostra missione innovatrice, tanto varrebbe che non ci fossimo incontrati.

Vedano: in noi c'è una dose di coraggio che finora non è stata sperimentata nel nostro ambito, quello appunto della giustizia. Noi di buon grado abbiamo dichiarato, in queste riunioni preparatorie, che rinunciamo alla nostra specificità. Ma che vuoi dire questo: che ci dimentichiamo di essere magistrati o avvocati? Ma no! Se siamo qui riuniti è perchè il nostro vissuto professionale ci distingue. Ma questo non sarebbe sufficiente: dovremmo trovare un tertium genus che ci accomuni. Sono convinto, anche se non osiamo professarlo, che questo tertium genus stia in un Dna che ci accomuna, che ci supera: quello della affezione, anzi della passione per la giustizia; noi dovremmo poter porre, valutare e risolvere questioni che man mano interessano questa nobilissima arte della civiltà umana che è la giustizia, fondamento di ogni società, senza essere condizionati dalla nostra posizione di origine. Noi dovremmo poter modificare la nostra forma mentis, il che non significa abiurare noi il nostro vissuto professionale, perchè allora sarebbe inutile la nostra compartecipazione a questo scopo nobilissimo: significa che noi, disinteressatamente, quando affrontiamo questi problemi vitali, siamo liberi, siamo vergini, li affrontiamo senza interesse di categoria.

Questa è la nostra collocazione originaria, alla quale teniamo quale che sia la nostra denominazione ufficiale. Lasciate dire a uno degli occasionali fondatori di questa Associazione alla quale si auspica il migliore avvenire: noi non siamo qui per essere dei reggitori di popoli, per essere dei facitori di leggi. Bisogna agire ed operare in modo che i problemi della giustizia trovino una soluzione che ripeta le sue premesse proprio dal nostro impegno profondo, che deve essere incondizionato. Le nostre formae mentis categoriali cedano il passo al nostro comune Dna che è: passione per la giustizia.

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TOMMASO SCIASCIA. LE RECENTI RIFORME SUL POCESSO CIVILE

Parlando di riforme nel settore civilistico, occorre menzionare quella del giudice unico di primo grado, quella delle sezioni stralcio, nonchè il riordino delle circoscrizioni giudiziarie attuato con i tribunali metropolitani. Si tratta di cambiamenti che hanno notevolmente inciso sul panorama giudiziario italiano, ma che non sembra abbiano ancora dato luogo ad una effettiva inversione di tendenza rispetto all'attuale trend negativo che ci vede purtroppo ancora nella scomoda posizione di "imputati" innanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo.

é stato detto recentemente, e molto autorevolmente, dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel discorso tenuto in data 5 marzo 2001 innanzi al Consiglio superiore della magistratura che quello della durata dei procedimenti resta tuttora il "problema dei problemi" e può essere senz'altro considerato come il "centro delle comuni preoccupazioni in materia giudiziaria". Si è parlato in passato, con un richiamo ad antiche e dolorose vicende belliche, di una vera e propria Caporetto della giustizia italiana. Sono state anche ricordate Sedan e Waterloo, invocando poi, di fronte all'imminente e sicura disfatta, una sorta di "linea del Piave" ed una vera e propria "riscossa di Vittorio Veneto". Nel lontano 1980, in occasione della nota vicenda Artico si disse che "i giuristi italiani avrebbero dovuto arrossire di vergogna ed alcuni addirittura diventare paonazzi" (l'espressione venne usata da Alessandro Pizzorusso e comparve su un articolo pubblicato sul Foro Italiano dal titolo: "Rossi dalla vergogna, anzi paonazzi"; si ricorda che la sentenza Artico venne pronunciata dalla Corte di Strasburgo nell'aprile del 1980 e si riferiva ad una ipotesi di carente difesa di ufficio in sede penale; in tale occasione il Governo italiano eccepì che ogni onere probatorio spettava all'interessato e che comunque il Governo non era in grado di rispondere in sede europea in quanto il fascicolo era andato smarrito; di fronte a tali espedienti formali e -sia detto chiaramente - da "avvocati di provincia", la Corte rispose che essa si rifiutava di considerare insormontabili gli indicati ostacoli di ordine amministrativo o pratico ed avrebbe proceduto ugualmente).

Oltre alle riforme già ricordate, che hanno già avuto attuazione, vanno altresì menzionate quelle ancora parzialmente in cantiere (o recentemente attuate: vedi in particolare la legge 13 febbraio 2001, n. 48), relative, da un lato, al reclutamento di nuova "forza lavoro" con la quale rinforzare l'organico della magistratura (sia attraverso l'accelerazione delle procedure ordinarie di accesso, sia attraverso forme di reclutamento straordinario che attingano ad altri settori professionali); dall'altro alla istituzione di forme alternative di risoluzione delle controversie civili; infine alla introduzione di rimedi interni che permettano di arginare il crescente ricorso dei privati interessati alla Corte di Strasburgo.

La nozione di "durata ragionevole" del processo civile è stata fissata in sede europea nella misura media di tre anni in primo grado (ed in sei anni come durata complessiva per un procedimento che ha percorso tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione), avvertendo tuttavia che tale termine può essere anche notevolmente ridotto ove siano in questione interessi di particolare importanza e rilevanza (di solito concernenti la materia di famiglia, lo stato delle persone, la materia del lavoro, il trattamento pensionistico eccetera; come esempio di specie, possono essere citate le cause, pendenti innanzi al tribunale di Roma, promosse nei confronti del Ministero della sanità negli anni ottanta da emofilici e politrasfusi contagiati da Aids); interessi che richiedono quindi una risposta più rapida ed efficace da parte degli organi giudiziari.

Ove riconosca esistente la violazione dell'articolo 6, la Corte assegna un risarcimento alla parte lesa (a titolo di "equa soddisfazione"), che viene mediamente fissato in lire 2 milioni per ciascun anno di durata del procedimento in primo grado ed in lire un milione per ciascun anno di appello.

Iniziando dalla riforma del giudice unico, è noto che essa è stata concepita in una prospettiva di recupero e maggiore utilizzazione della "forza lavoro" disponibile, al fine di eliminare le inefficienze ed i ritardi che si diceva derivassero da una trattazione collegiale delle cause. é a tutti noto che tale forma di trattazione può a volte appesantire la sollecita definizione del procedimento in quanto prevede una serie di scansioni - l'udienza collegiale, la camera di consiglio, l'esame e la firma della sentenza - che non ricorrono ove la causa sia decisa dal giudice unico. é indubbio che nel settore penale (laddove la trattazione collegiale impegna tre giudici per una intera udienza) la riforma ha avuto risultati senz'altro positivi. In tale campo, si sono dunque liberate nuove "forze lavoro" da utilizzare a fini di maggiore efficienza. Diversa mi sembra essere invece l'esperienza del settore civile. é a tutti noto che il "collegio" si limitava spesso già in precedenza ad un vuoto simulacro, ad una apparenza, posto che accadeva già nella prassi corrente che venisse totalmente omesso (o si limitasse solo ai casi più rilevanti). Risulta quindi evidente come la riforma, quanto meno per il settore civile, non ha apportato grandi differenze e miglioramenti rispetto al passato. Anzi, eliminando la riflessione ed il confronto collegiale (ove solitamente aveva luogo un utile scambio di opinioni e di informazioni sui procedimenti in corso), ha sicuramente aumentato la possibilità di decisioni contrastanti e difformi. In sostanza, ci ha reso tutti un po' "pretori" nell'esercizio dell'attività giurisdizionale; autonomi ed indipendenti sì, ma anche poco portati a confrontarci gli uni con gli altri ed a rinunciare eventualmente alle rispettive opinioni personali. Lasciatelo dire a chi, come il sottoscritto, per molti anni ha fatto il giudice monocratico e solo tardi è arrivato al collegiale: il collegio è una grande palestra per il magistrato, nel collegio si impara sempre molto dagli altri colleghi, nel collegio c'è sempre un utile scambio di opinioni, nel collegio ci si accorge che le proprie idee possono a volte essere del tutto effimere e fallaci. é stato quindi un peccato l'aver perso il "valore" collegiale della decisione, inseguendo finalità di maggiore efficienza che potevano forse essere perseguite e realizzate anche nel quadro ordinamentale esistente.

Esaminiamo adesso le sezioni stralcio. Nel solo tribunale di Roma, i procedimenti più antichi e risalenti con data di inizio anteriore all'aprile 1995 erano in numero di circa 65.000 nel novembre 1998. Essi sono stati attribuiti ai giudici onorari aggregati, e cioè ad avvocati, notai, professori universitari, che hanno accettato di dare una mano all'organizzazione giudiziaria per eliminare il vecchio arretrato. A Roma, l'organico ne prevedeva inizialmente 103, adesso il loro numero ammonta a circa 90, ma ben presto arriveranno ulteriori giudici per completare la forza lavoro disponibile.

Devo premettere che, contrariamente alle voci ed alle dicerie che circolavano - e circolano tuttora - nell'ambiente forense sulla qualità e sulla efficienza di tale categoria di magistrati, l'esperienza che è stata fatta (anche dal sottoscritto in prima persona quale presidente di una delle sezioni stralcio e quale coordinatore dell'intero settore) è largamente positiva, in quanto in circa due anni e mezzo di attività i Goa hanno eliminato (qualcuno - è vero - dice "stralciato" o peggio ancora "stracciato") circa metà dei procedimenti loro assegnati.

Andiamo infine al riordino delle circoscrizioni territoriali e all'istituzione dei tribunali metropolitani. La riforma in materia è stata molto più timida e cauta di quanto forse sarebbe stato necessario. Probabilmente hanno avuto rilievo anche problemi di budget o di bilancio, che poi hanno fatto premio su ogni altra considerazione.

Limitando l'esame alla situazione di Roma, l'ipotesi che si era prospettata all'inizio era quella di istituire tre distinti poli giudiziari che comprendessero due autonome circoscrizioni giudiziarie, da affiancare a quella centrale, ciascuna dotata di un adeguato bacino di utenza. Oltre al tribunale di Tivoli, che è stato poi effettivamente istituito, si prevedeva la creazione di un tribunale cosiddetto "del Litorale", che comprendesse i territori di Ostia, Ardea, Pomezia ed inglobasse buona parte della zona sud di Roma. In tal modo si sarebbe forse decongestionato il tribunale di Roma, che si presenta come uno degli uffici giudiziari più grandi del mondo e sicuramente quello più grande d'Europa (ufficio che comprende attualmente circa quattrocento magistrati, tra quelli addetti al settore civile e quelli del settore penale, e quasi duemila amministrativi, e che riceve giornalmente un afflusso di pubblico adeguato al numero degli affari trattati).

L'ipotesi del tribunale del Litorale non è passata (è stata creata la sezione distaccata di Ostia, che peraltro fa sempre parte del tribunale di Roma) e si è invece istituito il solo tribunale di Tivoli, che ha tolto a Roma una porzione non particolarmente significativa degli affari (e si tratta del resto di un ufficio ancora al di là da venire, in quanto manca ancora di una sede adeguata e vi sono molti problemi di avvio dell'attività giudiziaria).

Si può dire quindi che il riordino delle circoscrizioni giudiziarie, quanto meno per l'area di Roma (meno per quelle di altre città, come ad esempio Napoli), non ha

finora apportato grandi cambiamenti.

Che fare allora? Come affrontare la sfida che ci lancia l'Europa? Come adeguare il nostro sistema a quello dei partners europei? Come far sì che la nostra organizzazione giudiziaria raggiunga o quanto meno si avvicini ai livelli dei nostri vicini?

Le riforme che sono state fatte non sono sicuramente sufficienti. Ritengo che non siano sufficienti nemmeno quelle in cantiere od in corso di approvazione. Alcune di esse sembrano anzi destinate ad aggravare il male, piuttosto che a curarlo. Parlo in particolare della legge recentemente entrata in vigore, nota come "legge Pinto", destinata a prevedere una "equa riparazione" in favore delle parti in caso vi sia stata violazione della "durata ragionevole" del processo.

Mi pare che il rimedio che è stato predisposto sia peggiore del male. é come un cerotto o una benda sporca messa sopra una ferita purulenta. Si può giustificare solo richiamando il noto detto "a mali estremi, estremi rimedi". é interessante rilevare che lo stanziamento previsto dalla legge è di circa tredici miliardi, più o meno corrispondente alla somma spesa annualmente dallo Stato per i risarcimenti stabiliti dalla Corte di Strasburgo. In sostanza, invece di pagare tredici miliardi l'anno su imposizione europea, si è preferito stanziarli in anticipo, nell'intento di istituire un filtro che permetta alla Corte europea di applicare l'articolo 41 della Convenzione (l'equa soddisfazione viene infatti accordata se il diritto interno non permette di rimuovere altrimenti le conseguenze della violazione).

Invece di curare realmente i mali della giustizia, intervenendo sulla sostanza dei problemi e quindi eliminando le cause dei ritardi, si è creata una nuova istanza risarcitoria, moltiplicando in tal modo le occasioni di contenzioso, con presumibile grande soddisfazione per molti operatori. E, a questo punto, è facile prevedere il panorama futuro. La domanda di equa riparazione può infatti essere proposta anche durante la pendenza del procedimento. Essa diventerà una costante in ogni causa che duri (o si preveda che duri) oltre il termine ritenuto "ragionevole" (saranno i tre anni in primo grado, o sarà anche meno, come ammesso dalla stessa Corte europea in ipotesi specifiche?). Si preparerà l'atto di citazione ed intanto si terrà pronto ed in caldo il ricorso alla corte di appello per ottenere l'equa riparazione. E perchè limitare tale felice opportunità solo alla parte attrice? Anche il convenuto ha diritto ad un processo celere e veloce (pur avendo fatto di tutto, a volte, per rallentare la procedura). Perchè dunque negare a quest'ultimo l'equo risarcimento?

Il tutto risulta poi condito dalla pesante previsione dell'articolo 5, ove è stabilito che il decreto di accoglimento della domanda sia comunicato al procuratore generale della Corte dei conti ed ai titolari dell'azione disciplinare nei confronti "dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento" e si prefigura quindi chiaramente un addebito di responsabilità a carico del magistrato procedente. E ciò senza che vi sia alcuna menzione di tutti gli altri profili che possono rilevare al riguardo e come se solo il magistrato, e non anche altre categorie di operatori, fosse responsabile per l'accertato ritardo.

Non mi nascondo che la normativa in questione è probabilmente il frutto di un accordo intervenuto tra lo Stato italiano e le autorità europee, al fine di arginare il diluvio di ricorsi che rischiava di intasare la stessa giustizia di Strasburgo. é a tutti noto il cosiddetto "fenomeno Benevento" e cioè la provenienza territoriale ben individuata di molti ricorsi ex articolo 6, che sono stati presentati da un unico studio professionale (si è trattato in genere di ricorsi in materia di previdenza ed assistenza)

Ma anche tenendo conto delle esigenze indicate, si potevano forse evitare alcuni eccessi nei confronti di una categoria, quella dei magistrati, che, pur non avendo mai brillato in passato per produttività ed efficienza, sicuramente non può essere ritenuta la sola responsabile di quanto è accaduto.

Mi riferisco ancora alla norma di cui all'articolo 2, terzo comma, lettera b), che stabilisce che il danno non patrimoniale subito dall'istante è riparato, "oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell'avvenuta violazione".

é noto che tale forma di risarcimento viene normalmente adoperata in procedimenti - come quelli di diffamazione a mezzo stampa, ovvero relativi a fatti di concorrenza sleale, ovvero ancora a violazioni del diritto di autore o della normativa in tema di marchi e brevetti - in cui la pubblicità della decisione costituisce un mezzo ulteriore di riparazione del pregiudizio subito. Si pensi alla persona diffamata da un articolo di giornale: la somma di denaro che viene attribuita può a volte non essere sufficiente a restituire l'onore o la reputazione

perduti; si rende necessario uno strumento accessorio che valga a ristabilire la verità lesa. Questo strumento è costituito dalla pubblicazione della sentenza su uno o più giornali (pubblicazione che dovrebbe di regola essere eseguita con lo stesso rilievo tipografico ed editoriale che è stato attribuito alla notizia diffamatoria).

Nulla di tutto ciò nell'ipotesi di specie. Non vi è infatti alcuna esigenza specifica di conoscenza ulteriore. Al soggetto danneggiato è normalmente del tutto indifferente ottenere, oltre al risarcimento pecuniario, altre "adeguate forme di pubblicità". Ed allora il significato della norma non può essere altro che quello di una "messa in berlina", di una "gogna pubblica" nei confronti del giudice al quale viene ascritto il ritardo. In sostanza si vuole che tutti sappiano: quel determinato processo non si è concluso entro un "termine ragionevole" in quanto il giudice (o il cancelliere, o altro funzionario pubblico) è stato negligente. Ma - ci si domanda - quando è che vi è negligenza? é sufficiente che il giudice abbia avuto sul ruolo mille processi da trattare, o ce ne vogliono 1.500, o ancora di più? Quid iuris se ne aveva solo 200 o 300, ma ciascuno di notevole impegno e rilevanza; anche in questo caso è stato negligente? E cosa avviene se doveva occuparsi nello stesso periodo di un processo di eccezionale rilievo, che lo ha assorbito interamente? L'addebito si limita poi solo al giudice interessato o si estende anche al presidente di sezione, al presidente del tribunale, al presidente della corte di appello che non hanno adeguatamente vigilato?

Come si vede bene, con questa norma si conferisce rilevanza esterna (di segno afflittivo) a fatti che avrebbero in linea di principio esclusiva valenza disciplinare e che dovrebbero quindi come tali essere esaminati dall'organo di autogoverno nella sede istituzionale prevista. E ciò avviene addirittura prima che sia stata attivata una vera e propria azione disciplinare.

Dispone d'altra parte il successivo articolo 5 che il decreto di accoglimento della domanda è comunicato, oltre che alle parti, anche al procuratore generale della Corte dei conti, nonché ai titolari dell'azione disciplinare. E dunque è espressamente previsto che eventuali negligenze verificatesi nel corso del procedimento possano avere ricadute sia sotto il profilo della responsabilità contabile, sia sotto quello della responsabilità disciplinare.

Il tutto - si ripete, tale appare l'impianto della norma - come se nell'attuale panorama processuale e procedimentale ogni inefficienza, ogni mancanza, ogni ritardo non fosse da attribuire alle carenze del sistema, alla farraginosità delle norme, alla condotta dilatoria delle parti e dei loro difensori, bensì sempre e soltanto al giudice titolare del procedimento (trattato in questo caso come il "funzionario" che ha in carico la "pratica").

Che fare dunque? Siamo veramente caduti così in basso da meritare un simile trattamento? Siamo ancora in tempo per recuperare credito e considerazione di fronte alle istituzioni ed alla opinione pubblica? Oppure è troppo tardi. E soprattutto è sufficiente per risalire la china solo uno sforzo della volontà, uno scatto di orgoglio?

No, ritengo che non sia sufficiente. Sono fermamente convinto - e qui parlo in generale - che nell'attuale sistema e nel vigente quadro normativo processuale ogni tentativo individuale di produrre più sentenze, di definire più cause, di lavorare in sostanza di più, non potrà mai farci raggiungere il traguardo indicato da Strasburgo (i tre anni in primo grado sono del resto l'obiettivo minimo stabilito in sede europea; la Danimarca ha da tempo reso noto che il tempo medio di definizione dei propri procedimenti civili è di 26 - e non si tratta di mesi ma di giorni! - mentre è di 10-34 giorni quello di definizione dei procedimenti penali, questa volta in relazione alla gravità dei reati per cui si procede).

Ma l'alternativa non può essere quella di adagiarsi sull'esistente e far finta che nulla sia accaduto. Nessuno potrà e dovrà dire: "tanto peggio, tanto meglio". Nessuno dovrà accontentarsi dei risultati della routine quotidiana, continuando a volte a fare il meno possibile o comunque solo quanto è richiesto dalle contingenti circostanze. Ciascuno invece dovrà dare il proprio apporto leale, commisurato alla propria indole ed alle proprie possibilità personali, senza richiamare sterili alibi e cercando invece di rispondere con impegno e serenità agli imperativi dettati dalla propria coscienza.

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FABRIZIO MERLUZZI. UNA PANORAMICA DALLA PARTE DEGLI AVVOCATI

L avvocatura ritiene fondamentale il sistema delle garanzie senza con questo porsi in contrasto con i magistrati con i quali - se si superano i rispettivi "istinti" di appartenenza - condivide il senso della legalità e della giustizia. Ed infatti non può disconoscersi che la garanzia nell'acquisizione della prova, nel percorso procedimentale, nella partecipazione delle parti alla formazione del convincimento del giudice costituiscano momenti essenziali per garantire sentenze giuste. Ma innanzitutto un sistema efficiente deve essere in grado di produrre delle leggi intellegibili e coerenti. Noi tutti che le leggi le applichiamo e le sperimentiamo ogni giorno abbiamo il dovere di denunciare la formulazione oscura della legislazione degli ultimi decenni e la incapacità di una classe politica di produrre una legislazione coerente e programmatica.

Abbiamo salutato come una conquista giuridica l'intervento della Corte costituzionale sull'articolo 5 del codice penale senza avvederci che tale intervento altro non era se non la presa d'atto che l'ignoranza di alcune leggi da parte del cittadino italiano è quasi inevitabile e non dipende da una sua colpa ma dalla incapacità del legislatore di formulare leggi chiare, precise, sistematiche. Abbiamo poi una classe politica incapace di far progredire una nazione educandola al rispetto delle regole, dei deboli, della legalità.

Giustizialismi e tolleranza zero nei confronti di alcuni soggetti (quasi sempre i più deboli: tossicodipendenti, immigrati, emarginati), rivendicazioni garantistiche solo in occasione di alcune vicende all'evidenza interessanti per questo o quel soggetto politico. Per dirla tutta basti pensare alla xenofobia o alle polemiche sui permessi premio rilasciati a detenuti che reiterano i reati o al caso Sofri e a quello Previti. Una volta la magistratura è lassista e non garantisce la collettività lasciando fuori dal carcere chiunque o, peggio, feroci e conclamati assassini; un'altra volta condanna ingiustamente un innocente o arresta senza prove un galantuomo. Il tutto spesso e volentieri condito da una pretesa complicità dei bravi avvocati che imporrebbero al giudice una decisione ingiusta; quasi che di fronte ad un bravo avvocato il giudice diventi un fruttivendolo e di fronte al mediocre riacquisti la sua veste e la sua capacità di giudice.

Processi spettacolo o dibattuti in televisione e mass media utilizzati come cavallo di battaglia per questa o quella tesi senza che la politica sulla e per la giustizia si sia mai snodata in interventi sui mass media pacati, ragionati con un programma duraturo che riguardi tutti e non pochi soggetti imputati o futuri deputati alle prossime elezioni.

Tutto questo non ci appartiene e non ci deve vedere schierati. Occorre ritrovare ancora una volta il senso della legalità ed il rispetto delle regole come unica espressione di una giustizia efficiente. Ed allora cominciamo col dire che le regole e le garanzie sono essenziali per una giustizia capace di produrre sentenze giuste. In questo sistema le regole sono necessarie ed il loro rispetto è innanzitutto rispetto della legalità.

Il contraddittorio è necessario ed essenziale alla stessa funzione del giudice. Solo la possibilità di partecipare congiuntamente alla formazione della prova pone chi deve emettere la decisione nella condizione di appropriarsi del maggior numero possibile di informazioni e della specificità delle funzioni rappresentate dall'accusa e dalla difesa.

Il sistema delle nullità e delle inutilizzabilità è garanzia non del colpevole ma del processo e della voglia del cittadino di giungere alla migliore decisione possibile: nostro compito è quello di far comprendere ed educare la gente a questi ideali di giustizia senza farci coinvolgere nei processi di piazza o nelle polemiche dei politicanti.

Il sistema delle impugnazioni è necessario ed irrinunciabile non tanto per i rilievi statistici - che già dimostrerebbero l'utilità dell'istituto dell'appello - quanto per il controllo di una decisione che è pur sempre il frutto di sinergie interpretative di uomini e non di superuomini, onde il controllo di colleghi - non di fruttivendoli - diviene espressione ed una delle forme dell'autogoverno della magistratura. A questo occorre aggiungere che proprio la prassi ci ha insegnato come molte sentenze si siano rivelate ingiuste.

Come coniugare tutto questo con l'efficienza? Il binomio apparentemente difficile da raggiungere in realtà è più a portata di mano di quanto si pensi. L'errore metodologico, nel quale per troppo tempo si è incorsi e che ha condotto con la nostra - confessiamocelo - fin troppo consapevole complicità al collasso cui siamo arrivati, è consistito nello schieramento e nel senso di appartenenza di ciascuna delle forze operatrici in campo. Abbiamo assistito ad uno scontro frontale tra garantismo e giustizialismo senza alcuna capacità di confessare l'esistenza di "piccole lobbies", interessi personalistici e/o politici, corporativismi a volta di classe altre volte di categoria; senza la forza e la volontà di espungere - diciamoci anche questo - le fisiologiche mele marce, gli incapaci, gli scorretti, i fannulloni, i millantatori. In poche parole, da un lato il rispetto delle regole e della legalità è stato identificato come un attacco alla istituzione giustizia, dall'altro il sistema delle garanzie si è spesso utilizzato per raggiungere una impunità in concreto.

Ma a questo punto mi sembra opportuno soffermarci un attimo per verificare come si può raggiungere la compatibilità dei due termini del binomio da cui siamo partiti. Efficienza vuoI dire innanzitutto efficienza della parti: avvocati, giudici, pubblici ministeri. Solo soggetti preparati, attenti, capaci e deontologicamente corretti possono costituire il presupposto per una giustizia efficiente e garantita. Credo che su questo nessuno di noi la pensi diversamente. Ed allora, poichè credo che questi incontri debbano anche ed innanzitutto costituire un momento di autocritica, ritengo opportuno invitare i miei colleghi avvocati a non continuare a pensare che "i panni sporchi si lavano in casa" - e penso che analogo invito ai propri colleghi lo faranno anche i magistrati - ma a porsi seriamente il problema di come le garanzie costituiscano un momento fondamentale per il giusto processo se ed in quanto le stesse corrispondano alle finalità cui sono preordinate. Occorre dirci che il sistema delle garanzie non deve costituire un mezzo strumentalmente teso ad ostacolare il processo ma - cosa ben più fondamentale ed insopprimibile - lo strumento attraverso il quale realizzare quella giustizia giusta e la validità della decisione finale. Sotto questo profilo le garanzie sono uno degli strumenti per l'efficienza se e nella misura in cui vengono utilizzate in modo corretto e per le finalità per cui sono approntate.

L'eccezione difensiva in presenza di una nullità è necessario e preciso dovere del difensore, ma quella stessa eccezione riservata ad un momento successivo diviene non più rispetto di una regola ed affermazione di un diritto ma strumento di elusione del processo e difesa dal processo. Non ritengo deontologicamente corretto assistere impassibili al verificarsi di una nullità assoluta che si ha la possibilità di far rilevare immediatamente ristabilendo il diritto leso o negato.

Credo che una attenta riforma sul punto potrebbe e dovrebbe essere condivisa anche dall'avvocatura. Il riconoscimento dell'impedimento difensivo è una delle massime espressioni del rispetto del ruolo dell'avvocatura e quando viene disconosciuto si è di fronte ad un grave calo del rispetto di quel ruolo e delle garanzie, ma l'uso strumentale dell'avviso di fissazione di un'udienza nel corso della quale si procederà alla sola costituzione delle parti per ottenere il rinvio di un altro processo non è corretto esercizio della funzione difensiva.

Troppo spesso notiamo segni di insofferenza da parte dei giudici nei confronti dell'esame e del controesame svolto dal difensore - spessissimo dovuto al fatto che il giudice ignora a cosa serva quel tassello nel mosaico della difesa - ma quanti sono veramente gli esami ed i controesami corretti ed utili? Quante volte si perdono inutilmente ore nel fare domande inutili od oggetto di riesame critico delle circostanze che è materia che attiene alla discussione? Quanta impreparazione c'è rispetto alla cross examination e quante volte il controesame si rivela un inutile palcoscenico a beneficio della platea del cliente?

Ma un capitolo a sè meritano altri due fenomeni intorno ai quali occorre riflettere. La difesa d'ufficio e la difesa dei pentiti sono due temi che richiederebbero interi convegni; per ora li accenno affinchè ci si confronti col tempo un po' su tutto. Partiamo dalla seconda. L'avvocatura in materia di difesa dei pentiti deve necessariamente porsi un momento di seria riflessione. So ed avverto chi mi ascolta che non tutti condividono la mia tesi (d'altra parte non sono particolarmente rappresentativo della classe forense e quindi posso esprimere liberamente le mie opinioni senza coinvolgere le nostre istituzioni) ma il capitolo sulla difesa dei pentiti rappresenta a mio avviso una grave mancanza di coerenza.

Ci si lamenta continuamente che i difensori dei pentiti sono sempre gli stessi e che questo rappresenta un pericolo per la genuinità delle dichiarazioni eteroaccusatorie. Domando ai colleghi se di fronte ad un cliente che chiede consiglio al difensore circa il contenuto di alcune dichiarazioni che intende rendere l'avvocato abbia o meno il dovere di assisterlo. Vi chiedo ancora se riterreste davvero deontologicamente scorretto il difensore che consigliasse il suo assistito di non rendere quella dichiarazione perchè in contrasto con altra dichiarazione di un altro cliente - anch'esso pentito - perchè il rischio è quello di non essere creduto e dunque perdere il programma di protezione o, peggio, rischiare la calunnia ovvero porsi in una situazione che rischia di delegittimare la posizione processuale di entrambi. Vi chiedo di interrogarci sul perchè dovremmo considerare scorretto ed ingiusto utilizzare le nonne sul "pentitismo" quando le stesse sono legge dello Stato - e dunque come è nostro dovere consigliare per il meglio il nostro cliente utilizzando quelle norme - ed invece considerare corretto e giusto eccepire la nullità della citazione perchè effettuata a mani della moglie convivente e non presso lo studio del difensore ove l'imputato aveva eletto domicilio.

Se convenite con me che questi comportamenti sono entrambi corretti e dunque leciti, legittimi e doverosi dobbiamo prendere atto che la difesa dei pentiti - tralasciando sempre possibili ma invero rari comportamenti illeciti dei colleghi - è un problema di cui dobbiamo farci carico Non possiamo lamentarci del fatto che i difensori sono sempre gli stessi e poi rifiutare sistematicamente la difesa dei pentiti o, peggio, emarginare chi quella difesa la assume. Non dobbiamo dimenticare che la difesa è diritto costituzionalmente garantito anche per il pentito che - pur nella sua particolare e difficile collocazione - è anch'esso un cittadino imputato. Il fenomeno del pentitismo è difficile da gestire, è preoccupante nelle sue collocazioni, è allarmante nella sua utilizzazione, ma a maggior ragione l'impegno dell'avvocatura deve essere indirizzato al maggior rispetto della legalità e delle regole e, dunque, impone una maggiore e ben più numerosa presenza dei difensori nella difesa di chi sceglie di usufruire di regole premiali volute dallo Stato proprio in difesa della genuinità delle dichiarazioni e del rispetto di quelle regole.

Discorso ancora più preoccupante è quello della difesa d'ufficio che richiede una severa autocritica da parte dell'avvocatura. La difesa d'ufficio è semplicemente inesistente e questo non può che dipendere da noi e da un legislatore da noi troppo poco informato e sensibilizzato. Occorre maggiore coscienza della propria funzione e dunque un maggiore impegno nel suo svolgimento. Il. controllo è inesistente ed il più delle volte la nomina del difensore di ufficio si risolve in una presenza muta o svogliata che ricorda tanto un vecchio film con Alberto Sordi. Troppo spesso il difensore di ufficio contatta il cliente e se non lo trova o non riceve risposta semplicemente si disinteressa del caso lasciando al collega di udienza il compito di rappresentare il simulacro della difesa. C'È una dignità nel nostro compito che viene continuamente svilita da soggetti del tutto irresponsabili. Occorre una scelta decisa: o si rinuncia alla dignità del nostro ruolo e si accetta il suo ridimensionamento o si grida a gran voce che è necessaria una vera riforma - che non potrà avere costo zero e ci tornerò ancora - e si sviluppano controlli ben più severi sulle violazioni della difesa d'ufficio.

Ho parlato a lungo dei nostri errori e dei nostri limiti interni; potrei parlare altrettanto a lungo di questi stessi difetti della magistratura, a partire dalla mancanza di autocontrollo, di alcune basse professionalità, di troppo frequenti e troppo esasperate spettacolarizzazioni, di appropriazioni di competenze estranee, ma penso che questo esame in un rapporto di sana e leale franchezza spetti innanzitutto a loro e quindi non mi interessa in questa sede approfondirli perchè avremo modo di dibatterne ancora nella ricerca di quel cemento comune che ci ha portati qui. é però il momento della proposizione e della indicazione di possibili soluzioni per ricondurre il binomio garanzie-efficienza ad unità.

Quali le possibili soluzioni ad un processo troppo spesso solo apparentemente garantista e contraddistinto da una tale lunghezza da non rappresentare quasi mai una sentenza giusta in un tempo ragionevole? Occorre una seria riforma dei costumi e della mentalità. Ma innanzitutto occorre prendere atto che la lunghezza dei processi non dipende dai garantismi o dagli scioperi o dall'inerzia degli uffici: essenzialmente dipende da scarsa professionalità delle forze in campo.

Come rimediare. Non esistono possibilità di riforme a costo zero. Non avalliamo le tesi dei politici buone per le piazze. Un sistema di garanzie coniugato con l'efficienza necessita di costi veri, reali e non di contorsionismi.

Un sistema penale non può interessarsi di tutto. Occorre una scelta seria sulla rilevanza penale delle azioni umane. Ogni fatto troverà un comitato, una corrente, un'associazione che potrebbe essere in grado di dimostrarne il possibile allarme sociale, ma onestà intellettuale vorrebbe che la giustizia facesse un passo indietro e la pubblica amministrazione riempisse i vuoti e la sua inefficiente assenza. Non è il giudice di pace in materia penale che risolve il problema ma solo una seria e radicale depenalizzazione che comporti sanzioni amministrative che, essendo meno gravi e ben più incruente, possono essere affidate alla pubblica amministrazione. Certamente questo richiede un salto di qualità delle funzioni e dei soggetti che operano nel pubblico ma non possiamo giurisdizionalizzare tutto. Ma soprattutto occorrono più strutture, più organici nella magistratura (è di ieri la statistica dei procedimenti a Milano), più preparazione culturale e professionale e tutto questo ha un costo.

La scuola di formazione comune deve essere un obiettivo primario se si vuole garantire un'efficienza in un sistema equilibrato tra accusa e difesa, ma questo ha un costo. Se si crede che lo Stato deve garantire la difesa allora occorre che sia garantita anche economicamente la difesa d'ufficio attraverso l'accesso gratuito al fascicolo e lo stanziamento di fondi per il pagamento - magari ridotto - degli onorari dell'avvocato che saranno posti a carico dell'imputato in caso di condanna, ma anche questo ha un costo.

Se non si vuole la sclerotizzazione di una funzione o la sostituzione dell'esperienza pratica allo studio ed alla evoluzione teorica occorre imporre la creazione di serie e comuni scuole di aggiornamento obbligatorie per tutti ed anche questo ha un costo. A tutto questo se veramente vogliamo superare le logiche di appartenenza occorre aggiungere una seria magari solo consultiva partecipazione alle forme di controllo della professionalità e della correttezza delle parti.

Credo che l'opinione degli avvocati in ordine alla valutazione della professionalità dei magistrati possa essere un momento non di intrusione ma di valida collaborazione provenendo da un osservatorio che spesso o quasi sempre i magistrati non possono che ignorare. Parleremo in altro momento della separazione delle carriere ma vi chiedo come può il Consiglio superiore della magistratura stabilire se quel pubblico ministero sarà o potrà essere un buon giudice o se quel giudice potrebbe forse essere un ottimo pubblico ministero ma un mediocre giudicante se ignora il più della sua attività professionale?

Avevo accennato alle statistiche per negarne la validità in termini di reale efficienza, ma in termini di professionalità potrebbero diventare un utile strumento. Non tanto per sapere il numero dei processi definiti (in questo vi è solo efficientismo) quanto il numero dei processi portati utilmente a compimento. Potrei indicarvi alcune situazioni di questo foro che vedono statistiche allarmanti di decisioni di taluni giudici radicalmente riformate in appello, o statistiche impressionanti di Gup che dispongono il rinvio a giudizio che si conclude con sentenze assolutorie. Ho personale contezza di casi di rinvio a giudizio a reato già prescritto (e qui viene da chiedersi dove era il difensore).

Certo potrebbe rivelarsi pericoloso l'ingresso dell'avvocatura nella valutazione dei magistrati ma ritengo più che possibile trovare una formula che non mini l'indipendenza della magistratura e che non si risolva nella possibilità per un foro che abbia in antipatia un giudice ed un pubblico ministero di stroncarne il lavoro. D'altro canto un controllo della magistratura sull'avvocatura in parte esiste in concreto attraverso la gestione del processo, in parte è già possibile attraverso la partecipazione del pubblico ministero all'azione disciplinare ed attraverso la facoltà di impugnazione dei provvedimenti degli organi disciplinari. In ogni caso personalmente non sarei contrario ad una partecipazione diretta di membri del Consiglio giudiziario alla sezione disciplinare.

In definitiva credo che se congiuntamente ci adoperiamo nel richiedere certe riforme ed accantonando lo spirito di appartenenza adoperiamo le nostre necessarie ed insopprimibili specificità potremo sinergicamente raggiungere una giustizia garantita ed efficiente.

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LAURA NISSOLINO. UN CONFRONTO PERMANENTE

La lentezza dei procedimenti giudiziari è sicuramente uno dei problemi che maggiormente attanagliano l'Italia che spesso è stata inadempiente agli obblighi assunti con la Convenzione europea per i diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Altro problema è dato dalla carenza delle strutture e dell'organico, il che ci porta ad analizzare il problema generale non soltanto della carenza di fondi ormai istituzionalmente presente visto che spesso la giustizia è stata considerata un po' il fanalino di coda di tutti quanti i finanziamenti disposti dallo Stato, ma anche ad un problema legato alla innovazione legislativa ed organizzazione delle risorse che sono state stanziate. L'ultima legislatura ha dato in effetti una accelerazione a queste ipotesi di innovazione dedicando un maggior fondo alla giustizia e creando per la finanziaria del 2001 una ipotesi di aumento dei finanziamenti pari addirittura all'1,50 per cento del bilancio totale dello Stato, il che è già molto se si considera che in passato si era arrivati al massimo allo 0,6-0,7 per cento. é sicuramente un buon passo avanti ma non è ancora sufficiente: bisogna anche ipotizzare queste riforme legate ai progetti organizzativi e alle effettive utilizzazioni delle risorse.

é necessario sollecitare una riforma organica e unitaria del processo civile e, nelle more, un maggior rispetto e una puntuale applicazione della normativa esistente e anche un rispetto delle forme rituali: questo anche per il cittadino che spesso si trova a rendere proprie dichiarazioni in qualità di teste, per esempio, nei corridoi o a stupirsi del fatto che nei procedimenti civili il cancelliere in udienza è ormai dimenticato. é necessario in questo modo anche ottenere il recupero di una interpretazione coordinata del codice di procedura civile che eviti quelle discrepanze giurisprudenziali che spesso minano la certezza del diritto nel cittadino.

Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare un recupero preformale dell'utilizzo dell'articolo 96 del codice di procedura civile circa la lite temeraria laddove il contenzioso fosse assolutamente carente dei necessari presupposti. L'ultima legislatura ha anche ipotizzato la creazione delle cosiddette camere di conciliazione, cioè i famosi riti alternativi che sono sicuramente auspicabili laddove l'ipotesi sia di fatto sostenuta dalla reale volontà delle parti di addivenire alla definizione della controversia.

Spesso, nell'ambito dei procedimenti legati ai risarcimenti dei danni per le vittime o ad esempio di malasanità o di altre problematiche della nostra giustizia, vediamo che le assicurazioni non hanno questo interesse ad anticipare il pagamento ma contano sul procrastinarsi del processo civile proprio per evitare quel pagamento immediato che darebbe fine al procedimento.

L'ultimo appunto che volevo fare in merito al diritto è legato alla nuova normativa sul gratuito patrocinio che recentemente, nel febbraio, ha compreso finalmente il procedimento civile. Dobbiamo tener presente che sicuramente è un grossissimo passo avanti in relazione a quella che era purtroppo la nostra normativa ferma al regio decreto del 1923, però è ancora poco se si considera che il limite previsto per coloro che vogliono accedere a questo tipo di servizio è quello dei 18 milioni. Poichè a breve entrerà in vigore il contributo unificato per l'iscrizione al ruolo che aumenterà sensibilmente i costi di accesso alla giustizia, probabilmente questo limite è ancora esiguo e quindi forse sarebbe necessario un ulteriore sforzo per arrivare a riconoscere veramente la nostra giustizia come servizio per tutti. Sarebbe poi auspicabile anche addivenire al tanto paventato tribunale della famiglia; da anni si valuta questo problema grosso legato alle famiglie di fatto rispetto alle famiglie istituzionali con l'accesso a diverse strutture quale il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni.

Questo per quel che riguardava il concetto generale di diritto della giustizia. L'altro argomento di cui vorrei parlare è il concetto di servizio della giustizia che noi auspichiamo possa ancora aumentare e creare sempre di più quella cultura della informazione e della accoglienza necessaria ad ogni cittadino che si rivolge alla giustizia. Ipotizziamo quindi e sosteniamo ormai da diverso tempo la creazione di uffici di relazioni con il pubblico presso ogni sede dei tribunali italiani. Il Ministero della giustizia nel 2000 si è dotato di un ufficio relazioni con il pubblico il cui funzionario è pronto a mettere a disposizione la conoscenza acquisita ed anche la pratica avuta nell'arco di questo anno per tentare di iniziare anche a Roma una ipotesi di questo tipo.

Allo stesso modo si potrebbe creare un sito Internet, visto che ormai il computer è diventato di casa a tutti, al fine di permettere a chi non può o non vuole recarsi direttamente negli uffici di fare uno screening dei documenti necessari. Questo eviterebbe le lunghe file ai vari terminali o ai vari uffici informazioni per chiedere notizie che potrebbero essere anticipate arrivando direttamente a fare la propria richiesta senza dover accumulare lunghe file.

Altra ipotesi potrebbe essere quella dei cosiddetti call centers, semplicemente dei centralini a cui far riferimento per un contatto telefonico per coloro che purtroppo ancora non hanno la capacità di utilizzare il computer.

Chiudo riferendomi in particolare all'intervento del professor Arieta che ha formulato l'ipotesi generale di una maggiore collaborazione fra avvocati e magistrati, ma direi in genere fra tutti gli utenti e gli operatori della giustizia. La costituenda Associazione del presidente Almerighi, come è auspicabile, forse ci aiuterà in questo: nel futuro ci aiuterà nella speranza di creare dei veri e propri tavoli di confronto permanenti dove includere tutti, magistrati, operatori del settore ed amministrativi, al fine di ottenere quel giusto riconoscimento alla giustizia che per anni è stato negato.

UGO LONGO. UN RICORDO PERSONALE

L'incontro odierno coincide con il momento fondativo dell'Associazione che abbiamo voluto creare, alla quale abbiamo attribuito il nome che voi sapete e al quale il dottor Vadalà ha dato una precisazione e, diciamo così, un contorno ancora più delineato. é un'Associazione che già dal numero dei partecipanti dimostra la validità della sua esistenza e direi con merito di chi ha promosso questo movimento e che è Mario Almerighi, al quale va certamente il plauso di tutti noi per avere suscitato un interesse che man mano si andava spegnendo su quelli che sembravano e sembrano problemi irresolubili della giustizia penale per un verso e civile per l'altro verso.

Vorrei ricordare solo un episodio: alla fine degli anni settanta ero difensore in un processo che riguardava il cosiddetto scandalo dei petroli. Arrivano gli atti a Roma per un meccanismo di competenza ovviamente a tutti voi noto; studio gli atti nel momento in cui vengono depositati e mi accorgo che un pretore di Genova aveva iniziato un'indagine a tappeto su una serie di finanziamenti che si ritenevano illeciti erogati a partiti attraverso meccanismi imprenditoriali certamente ambigui ed equivoci. Questo processo era iniziato proprio per lo stimolo di questo pretore che si chiamava Mario Almerighi. Un giorno - parlo di venti anni fa - girando per l'ufficio istruzione (allora così si chiamava) del tribunale di Roma vedo un giudice istruttore Mario Almerighi. Busso, mi presento e chiedo: lei è il pretore Almerighi di Genova? SÌ. é l'unico superstite del processo dello scandalo dei petroli che si è perso nelle nebbie della prescrizione e comunque dei proscioglimenti, dopo venti anni che quel processo era stato iniziato da un pretore. Ricordo questo episodio per dire come la professionalità, al di là delle funzioni, è certamente una nota che caratterizza la figura del magistrato e dell'avvocato.

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"Isonomia" " l'organo ufficiale della prima e finora unica Associazione che riunisce magistrati ed avvocati, insieme ad altri operatori del diritto (tra cui periti ed interpreti), nel comune sforzo di confrontare opinioni ed esperienze al servizio della giustizia. Il giornale " rivolto agli addetti ai lavori e in genere ai cittadini allo scopo di favorirne la conoscenza del mondo giudiziario con il quale le circostanze della vita possono metterli a contatto. In questo senso la divulgazione di conoscenze specifiche aiuta ogni persona normale a non trovarsi impreparata di fronte a circostanze spesso imprevedibili.

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GIUSEPPE ZUPO. UN PO' DI DOTTRINA

Vorrei un momento specificare: non c'è una riflessione sullo Stato in questa fase. Ma c'è qualche studente (che poi diventa magistrato, avvocato) che abbia studiato oggi nelle università la dottrina dello Stato? No. Qualunque essa sia: liberale, autoritaria, marxista.

Siccome la nonna è, dopo la composizione del conflitto, una reductio ad unum, dobbiamo capire qual è la matrice da cui viene.

Se non abbiamo una riflessione su quello che è lo Stato in questo momento, che cosa ne può venire sul pensiero, sulla norma, sulla sua funzione e quindi sulla funzione del legislatore che la fa e di quelli che la applicano, magistrati e avvocati?

E possibile oggi - perchè non do per scontato che sia possibile nella dottrina dello Stato - una reductio ad unum?

Allora dobbiamo discutere se l'ordinamento chiuso delle fonti di origine napoleonica è ancora valido oppure no; cioè se non discutiamo, se non riflettiamo su questo - e poi tutta la questione va a riferirsi al sistema delle fonti - penso che ognuno di noi possa presentare un vasto cahier de doléances, ma non faremmo passi avanti.

Il fatto è che non ci sono più maestri o forse ci sono solo cattivi maestri.

Quindi è fondamentale la questione posta da Ionta nel suo brevissimo ma molto efficace intervento: la questione della cultura, la cultura delle istituzioni, la cultura degli ordinamenti, dello Stato.

Ovviamente, interfaccia di questa, la questione della mentalità di ognuno di noi, perchè la mentalità procede (almeno nelle persone oneste: e oggi è stato fatto richiamo non inopportuno all'onestà intellettuale) man mano che ci formiamo una convinzione sulle cose fondamentali e trasformiamo anche il nostro modo di essere, di sentire le cose.

Dopo questo accenno non risoluto che accentua un problema già posto dal consigliere Ionta, vado a un esempio (e con questo concludo, perchè altrimenti ruberei troppo tempo agli altri).

é stata fatta una legge recentissima di cui tardi mi sono accorto, dopo un mese che era stata pubblicata; non ne ho seguito neanche i lavori perchè il grido che ognuno di noi si sentirebbe di fare (l'ho detto stamattina a Ionta) è: basta con le leggi; fateci affondare con quelle che abbiamo. Basta!

Anche per questa overdose che non coglie più nessun ascoltatore, non avevo letto una delle poche, anzi forse l'unica legge che considero tra virgolette rivoluzionaria, perchè ho una mentalità opaca, attutita.

La legge rivoluzionaria è quella sulle indagini dei difensori.

Cari, è rivoluzionaria, ma il suo effetto rivoluzionario dipende dalla mentalità con cui magistrati e avvocati la applicheranno e la faranno applicare.

I criteri rivoluzionari sono quelli che qualcuno ha definito con brutta terminologia la proprietà del teste: chi prima arriva si impossessa del teste, che non può essere sentito sulle stesse cose (parliamo delle indagini preliminari, ma poi sono quelle che fanno il dibattimento con il meccanismo delle contestazioni).

Questo è forse da rivedere perchè c'è un sistema concorrenziale, però c'è una grandissima spinta anche all'inerzia del magistrato.

Vado anche in là: non solo all'inerzia, anche al fatto che un magistrato del pubblico ministero a volte è sovraccarico di lavoro e dice di non poter esaminare.

Ha un processo, aspetta delle conclusioni: sta fermo lì.

Adesso l'avvocato, che entri con una mentalità diversa, si fa lui le indagini, non a dispetto ma d'accordo con il pubblico ministero; le fa con il pubblico ministero; gli porta il suo fascicolo e gli dice: lei valuti, se vuole integrare integri, altrimenti andiamo dal giudice e facciamo il rinvio a giudizio oppure l'archiviazione.

é una legge rivoluzionaria, però esige un cambiamento di mentalità ed esige soprattutto - ma qui il discorso non intendo aprirlo: vi accenno soltanto - una forte consapevolezza e presenza delle responsabilità connesse al diverso ruolo soprattutto di noi avvocati, perchè nel momento in cui noi facciamo questo - attenzione - diventiamo non collaboratori di giustizia, come è stato detto, ma pubblici ufficiali esposti su una frontiera molto difficile; quindi dobbiamo molto irrobustire i problemi della responsabilità.

Guai se non lo facessimo. scadrebbe anche questa occasione che ci è stata data.

LILLO BRUCCOLERI. PRIMA LE REGOLE

Il nostro argomento ha preso lo spunto dal nome di questa Associazione, la cui scelta è stata un po' sofferta. Si era criticato il termine "isonomia" sostenendo che fosse poco accessibile ai più; allora, per provocazione, avevo segnato "aristonomia", perchè se questo fosse stato lo spirito avremmo in tal modo parlato del diritto dei pochi, di una preferenza per quelle forme di partecipazione minoritaria ma qualificata. Non sempre le minoranze in quanto tali sono state destinate a non fare la storia; è vero invece il contrario: spesso le minoranze hanno poi determinato il corso degli eventi.

Ma vorrei entrare nel tema: garanzie ed efficienza nel processo. Mi domando se l'espressione "garanzie ed efficienza" sia una endiadi o piuttosto un ossimoro, se sia una proposizione dialettica che prelude a una sintesi ulteriore di composizione oppure una insanabile antinomia. Questo è il punto, perchè non sempre garanzie ed efficienza sono concetti non solo accettabili ma anche tra loro compatibili. Garanzia vuol dire assicurare il rispetto delle regole; vuol dire assicurare che almeno i princìpi fondamentali su cui poggia l'ordinamento siano sempre e comunque rispettati. Efficienza vuol dire, nell'ambito di questi princìpi, poter assicurare una certa snellezza alle procedure; efficienza vuoi dire anche accettare in nome della emergenza disposizioni liberticide; efficienza vuol dire anche, in nome sempre della necessità di velocizzazione delle procedure, scavalcare a pie' pari delle conquiste giuridiche fondamentali che hanno richiesto elaborazioni molto travagliate nel corso della storia.

Se questo fosse - e noi non vogliamo che sia - sarebbe un autentico tradimento nei confronti di coloro che con il sangue hanno conquistato quelle garanzie fondamentali a cui non bisogna mai sottrarsi. Allora, se questo è, l'iniziativa dell'Associazione "Isonomia" è innanzitutto un richiamo di ciascuno di noi e di tutti al necessario rispetto della legalità intesa nel senso più ampio.

Si parlava prima della Convenzione di salvaguardia dei diritti umani e della Corte di Strasburgo, lamentandosi che per il 90 per cento l'Italia subisce condanne perchè i processi sono lenti soprattutto nel settore civile. La Convenzione garantisce i diritti dell'uomo in tutte le sue manifestazioni: è contro la violazione dei diritti fondamentali di libertà. Grazie al cielo l'Italia non viene mai chiamata a rispondere di questo tipo di violazioni: questa è una dimostrazione, una attestazione, una patente di civiltà per il nostro paese di cui francamente non possiamo che compiacerci.

Poco fa l'avvocato Acquaroli ci richiamava all'idem sentire che ci deve ispirare. Questo punto di incontro tra gente che ama il diritto è opportuno per portare, al di fuori degli schemi di precedenti iniziative, a una sede di confronto e di collaborazione ove ciascuno, attraverso le proprie esperienze personali che gli derivano anche dal ruolo svolto, rechi un contributo perchè si cresca, perchè si costruisca.

Si è accennato - e concludo con questo spunto: ce ne sono tanti - alla legge sulle attività investigative della difesa, legge che ho monitorato fin da quando è comparsa all'orizzonte. Ma il fatto che questa legge importante esordisca con un articolo che riconosce al difensore il diritto a che sia apposta, anche in calce ad una copia fotostatica, l'attestazione di avvenuto deposito di un atto; che una cosa banalissima introduca un argomento di dimensioni amplissime ci fa capire come, da una parte, ci sia un notevole passo avanti sulle grandi questioni e, dall'altra, ci sia il naufragio assoluto sulle questioni quotidiane in cui non si riesce a trovare un momento di sollievo.

Non vado oltre e concludo osservando che anche attraverso le piccole cose si può andare verso il miglioramento del sistema nel suo complesso. In questo senso, portando ciascuno il contributo della propria formazione e della propria esperienza umana e professionale, si può pervenire a risultati apprezzabili.

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Sono stati riportati in questo numero alcuni degli interventi svolti al convegno del 24 marzo scorso. Ci riserviamo di pubblicare alla prossima uscita altri autorevoli contributi, tra cui quelli di

Cesare Mirabelli, Giovanni Galloni e Marcello Marinari.

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