il Rimino - Riministoria

Il nostro doping quotidiano
Come rovinarsi la vita usando male la mente

Nella camminata da vecchio che sono abituato a fare quasi ogni giorno, l'altra sera ho incontrato due signore straniere che passeggiavano parlando nella loro lingua, e spingendo altrettante carrozzine dove placidamente dormivano i loro neonati.

Ho pensato a quelle creature. Tra vent'anni, se non cambieranno patria, saranno i nuovi cittadini d'un Paese che sta discutendo da mattina a sera, talora con calma, altre volte con preoccupazione, in certe occasioni con onestà, spesso con perfidia e malafede, sul rapporto che si instaura in un territorio tra chi lo abita da un pezzo (soltanto personalmente, od anche per via di discendenza), e chi invece vi arriva all'improvviso, insalutato ospite.

E' ovvio che auguro a quelle creature di trovare un mondo migliore e meno ostile di quello che forse (e anche senza forse) hanno conosciuto i loro genitori. In un campo come quello dell'emigrazione agiscono fattori inconsci che forse si possono spiegare con certe ritualità le cui origini appartengono però non soltanto al genere umano: qualsiasi essere vivente, ovvero anche le bestie, sono abituate a segnare il loro territorio.

Ma tra il gesto istintivo che determina poi l'aggressività verso chi varca il confine delineato, ed il comportamento di chi si presume definirsi un essere razionale ed un animale sociale, dovrebbe passare una qualche differenza. E' la differenza che dovrebbe aver accumulato il trascorrere del tempo, ma che svanisce se pensiamo che ancora oggi, come tanti millenni fa, abbiamo la guerra come unico strumento di risoluzione dei contrasti.

Se quei neonati che dormivano serenamente nella loro carrozzina, all'ombra delle piante agitate da un fresco vento primaverile, avessero potuto ascoltarmi (e se per un'improvvisa mediazione celeste avessimo potuto colloquiare), oltre ad augurargli le cose che ho appena detto, avrei per onestà anche dovuto aggiungere di non fidarsi troppo delle mie parole perché purtroppo la paura verso chi viene da fuori (da cento chilometri, da mille, da tremila, non contano i numeri), fa parte del nostro destino sociale, è frutto di un nostro diffuso, placido doping quotidiano: con esso ci sentiamo più forti, anche se ciò non significa che realmente lo siamo. Con esso, cerchiamo di nascondere a noi stessi le nostre personali debolezze, fingendoci dei superman che poi l'altrui malvagità può ricompensare con l'annientamento totale (leggi terrorismo).

Questa paura di chi è, non dico, straniero, ma nuovo per noi, dovrebbe essere vinta anche da un'altra serie di considerazioni. Siamo un popolo che fino a pochi anni fa aveva un'emigrazione altissima perché da noi non c'era abbastanza cibo per tutti (non è retorica, è statistica). Siamo anche un popolo che impiega, attualmente, un'altissima percentuale di manodopera straniera immigrata, al punto che lo stesso mondo industriale non condivide l'astio leghista (odiano chi ha la pelle di colore diverso, e poi chiedono il Crocifisso ad ogni cantone): se dovessimo cacciare tutti quelli che non 'piacciono' a certi politici, la produzione italiana si fermerebbe.

(Il bello della nostra produzione è che è in gran parte "in nero", e noi non vogliamo i negri, che trattiamo come esseri inferiori soltanto per la loro provenienza geografica.)

Se quei lavoratori ci servono per tirare avanti la baracca, dovremmo considerarli cittadini di pari grado a noi: ma questo non succederà mai, perché la nostra economia, quella che fa andare in brodo di giuggiole i liberisti, si è costruita quarant'anni fa con le sofferenze dei meridionali in quasi tutto il Nord, così come oggi sfrutta il lavoro nero dei negri (che proprio nel Nord-Est hanno cominciato a scioperare all'insegna del motto: «No, badrone», cioè ricorrendo al linguaggio attribuito ai loro antenati nel doppiaggio in italiano dei film americani).

Noi siamo un popolo che ha ancora un altro tipo di emigrazione: quella dei cervelli che qui non trovano posto e finanziamenti, e vanno a lavorare all'estero non soltanto per soddisfazione personale, non soltanto per reagire alla mafiosità politica delle protezioni di casta, ma anche per impiegare dignitosamente i loro talenti, giusta la parabola evangelica, ed il senso di dignità morale di chi non vuole soccombere alle prepotenze ed alle vigliaccate che leggiamo dovunque sull'argomento.

Ma noi, tutto questo non lo vogliamo ammettere e ricordare perché i nostri quotidiani doping mentali ci rallegrano facendoci credere che il nostro è il miglior mondo esistente.

Pensate all'incoscienza di genitori, allenatori, dirigenti sportivi che rovinano i giovani con il doping vero, quello chimico: sono le stesse cose che accadevano trent'anni fa nei Paesi dell'Est comunista, dove i ragazzi si uccidevano con le loro mani, ricorrendo a quelle perverse tecniche di rafforzamento del fisico, perché sognavano di evadere dalla miserie che il partito garantiva a tutti, mentre a loro prometteva non solamente la gloria sportiva ma pure gli effetti che essa comportava (un'agiatezza che là avrebbero definito borghese, una casa decente, una vita meno povera dei loro connazionali). Andate a leggere quanto Gianpaolo Ormezzano ha scritto anni fa al proposito.

Da noi si può vivere discretamente senza ricorrere a quei trucchi che invece si usano: ed allora perché accade? Credo proprio per quest'altro doping di cui dicevo, il nostro doping mentale che ci vuol fare credere grandi, onnipotenti, signori della nostra vita e di quella del prossimo.

Ci sono altri modi per rovinarsi l'esistenza: pensate a chi sprofonda nell'abisso del gioco e di chi si affida ai maghi. Bastano (basterebbero) pochi elementi per un semplice ragionamento da usare con queste persone: ma spesso le parole sono inutili quando uno sta precipitando. Allora forse l'unica soluzione potrebbe essere quella di prevenire.

Bisognerebbe cominciare nelle scuole, a dimostrare che non esiste nessuna legge numerica per i ritardi nel gioco del lotto: perché ogni volta, in base al calcolo delle probabilità, per ogni estrazione, ci sono sempre novanta numeri, e tutti sono egualmente posizionati davanti alla sorte, nessuno deve uscire per forza perché non è sortito nelle estrazioni precedenti. (Come al solito, siamo bravi a salvarci l'anima: il lotto serve allo Stato, lo si usa per i monumenti, e quindi non ti curar di lui, ma guarda e passa).

Maghi: possibile che la cultura scolastica e quella mediatica non riescano a dimostrare che sono dei gangster quelli che approfittano delle altrui debolezze per arricchirsi usando i più vari stratagemmi truffaldini? Ci sono numerose reti televisive che vivono soltanto grazie a cartomanti, astrologi, indovini, angeli sensitivi, consiglieri spirituali che quotidianamente inondano le case e le famiglie di messaggi pericolosi: meglio loro del medico, meglio loro della scienza, meglio loro del conforto di un'altra persona che ti può aiutare semplicemente, senza spillarti quattrini.

Roberta De Monticelli, una filosofa milanese che lavora a Ginevra, intervistata da Barbara Palombelli del Corsera (29 aprile), ha dichiarato: «Se non cerchiamo di offrire gli strumenti per riflettere e tentare di comprendere il nuovo che ci sta sconvolgendo, la gente finirà in massa dal mago, dallo stregone, dal guru». Riassume efficacemente il titolo dell'articolo: «Se la mente si impigrisce vincono i maghi».

Ma noi, anziché usare la mente, preferiamo farci ingannare. E' scoppiata al Giro d'Italia la nuova puntata dello scandalo del doping nel ciclismo. La gente gridava ai microfoni delle tivù che il Giro è bello, lasciatecelo godere, di queste cose non c'interessiamo. Qualche direttore di telegiornale leggeva le notizie sfottendo con un ironico sorrisino i magistrati che stanno lavorando sull'argomento.

Il doping è un'invenzione delle Procure. Ci sentiamo tutti belli forti nelle nostre certezze. Il male della società, sono gli immigrati. La rovina dell'economia, è la richiesta delle tutele per i lavoratori. Questo è il nostro doping mentale quotidiano. Per il quale, il rimedio sta nell'uso corretto della nostra ragione. Sta, anzi starebbe, come sostiene la professoressa De Monticelli.

Post scriptum. Perché la professoressa De Monticelli lavora in Svizzera? Lo spiega lei stessa: «In certi anni [in Italia] era più facile diventare docente avendo portato la borsa di Tizio, che non studiando e pubblicando in giro per il mondo». Cito da Repubblica del 22 maggio: Sabrina Malpede, 30 anni [s.malpede@ic.ac.uk], «ricercatrice presso una prestigiosa università londinese», «cervello scappato all'estero», scrive: «Dopo più di quattro anni di esperienza all'estero, mi dichiaro felice della mia scelta e con questa lettera invito tutti i laureandi e laureati d'Italia a seguire questa strada» perché in Italia, con i tagli dei fondi alla ricerca scientifica, si tagliano «i ponti con lo sviluppo».

Pietro Corsi

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