il GRILLO parlante
per un'informazione equa e solidale nell'Est veronese
 
supplemento a "la Voce Civica", Aut.Trib.VR n.1215 del 27 maggio 1996 - Direttore Responsabile: Amedeo Tosi

L'intelligenza è un frutto che si raccoglie nel giardino del vicino (proverbio Batabwa-Rep.Dem.Congo)   

 
Appuntamenti da non perdere
 
 
25/1/01 Verona - LEGGE QUADRO SULL'ASSISTENZA
 
Giovedì 25 gennaio 2001, ore 20.45 presso la Sala Marani dell'Ospedale di Borgo Trento (Verona), il ministro delle Solidarietà Sociali, Livia Turco, illustrerà la nuova Legge quadro sull'assistenza.Coordinerà l'incontro il senatore Luigi Viviani. Interverranno: Marco Vesentini (presidente dell'Associazione Italiana Ass. Spastici), Emma Ugolini (Assessore alle Politiche Sociali di Fumane) e Franco Dalla Mura (Avvocato Amministrativista). L'incontro è organizzato dal coordinamento veronese "L'Ulivo Insieme per l'Italia".
 
 
26/1/01 Vicenza - ENTI LOCALI E SOCIETA' CIVILE
 
L'Associazione "Libera Veneto", l'Assessorato all'Istruzione della Provincia di Vicenza, l'Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Vicenza e la Società Generale di Mutuo Soccorso (sgms@sgms.it) organizzano un palinsesto di incontri dal titolo: "Costruire la legalità nel terzo millennio". Il primo incontro si terrà venerdì 26 gennaio 2001, ore 20,30 presso l'Auditorium I.T.G. "Canova", Viale Astichello 195 - Vicenza (ingresso gratuito), con on.Nichi Vendola e Gianfranco Bettin, che parleranno in merito a "Il ruolo degli Enti Locali nella società civile". I prossimi incontri saranno comunicati nel prossimo numero de "il GRILLO parlante".
 
 
27/1/01 Monteforte d'Alpone (VR) - CONVEGNO IN MEMORIA DI GIUSEPPE ZAMBON

Gli "Amici di NordEst", il sindacato SPI CGIL, Auser e il mensile LiberEtà organizzano per SABATO 27 gennaio 2001, ore 15, presso il Teatro Parrocchiale di Monteforte d'Alpone (via Matteotti, 15) un convegno dal titolo : STAMPA DI PAESE" in memoria dell'insegnante e giornalista Giuseppe Zambon. Viaggio all'interno dell'informazione locale presentato da Amedeo Tosi. Relatori: Giuseppe Giulietti (giornalista, parlamentare, relatore della nuova legge sull'editoria), Gustavo Franchetto (vicepresidente del consiglio regionale Veneto) Michelangelo Bellinetti (Caporedattore centrale de l'Arena)) e Gabriella Poli (Segretaria Nazionale Sindacato Pensionati SPI-Cgil). Presiede: Giovanni Nalin (Segretario Provinciale CGIL e Responsabile della zona di San Bonifacio).

28/1/2001 Fumane (VR) - Parole e fatti per liberarci dal potere della mafia
 
Il Gruppo per il Pluralismo e il Dialogo organizza per domenica 28 gennaio, dalle ore 16 alle 19, a Fumane presso la sala consiliare del Municipio, un incontro sul tema: "Parole e fatti per liberarci dal potere della mafia". Relazione introduttiva di Maurizio Artale (Responsabile del Centro di Accoglienza "Padre Nostro" che opera nel quartiere Brancaccio  di Palermo).
Il Centro "Padre Nostro" opera in uno dei quartieri più a rischio della città di Palermo. Il quartiere Brancaccio, infatti, è tristemente noto quale "tradizionale roccaforte del potere mafioso". Tale affermazione non trova la sua giustificazione solo sulla reale presenza di un forte potere criminale all'interno del territorio, ma la sua veridicità poggia soprattutto sulla brutale uccisione di don Pino Puglisi, avvenuta la sera del 15 settembre 1993.
Un accurato studio sull'ambiente fa, purtroppo, emergere una grande povertà materiale e culturale del quartiere, aggravata dall'elevato numero di disoccupati.
 

MASSMEDIA
 
1) Edizioni Achab di Verona comunica che è uscito il nuovo libro Joséito Fernández e la sua Guajira Guantanamera.
Visitate il sito http://www.edizioni-achab.it/libri/index.html
 
2) Il Comitato zonale del basso veronese di "ARCI Nuova Associazione" organizza a Legnago il Festival cinematografico "Vicolo Corto". Per informazioni: arci@sttspa.it . Inoltre mercoledì 31 gennaio alle ore 18 nella Sala 2 del cinema Italia di Legnago (via Matteotti, 24) si terrà il convegno "Fare Cinema nel 3° millennio". Interverranno: Mario Brenta (regista cinematografico), Sirio Luginbhul (regista e storico dell'underground italiano), Marco G. Ferrari (regista cinematografico americano presente all'ultimo festival di New York), Nico D'Alessandria (che sarà presente con il suo nuovo film in anteprima per Verona e provincia, REGINA COELI). Moderatore: Ugo Brusaporco (storico e critico cinematografico). L'ingresso gratuito dev'essere richiesto agli organizzatori, altrimenti il biglietto avrà il costo di £ 10.000.
 
3) Da vedere: GARAGE OLIMPO di Marco Bechis (110' min - Italia/Argentina 1999). Per saperne di più: www.garageolimpo.it
Maria, giovane maestra che lavora in una bidonville di Buenos Aires, vive insieme a sua madre Diane, in una grande casa. Per vivere affittano le stanze ad uomini soli. Una mattina alcuni agenti dell'esercito, in borghese, prelevano la ragazza e la conducono in un luogo di tortura. E' un garage abbandonato nei cui sotterranei si nasconde un vero e proprio quartier generale dove operano poliziotti e militari. Maria riconosce nell'uomo che la interroga, Felix, un suo ex-inquilino. Tra di loro nasce un ambiguo rapporto di complicità e forse d'amore, fino a che Maria viene "trasferita"… 

MEMORIE DEL SOTTOSUOLO

Dopo quasi 23 anni, qualche cortometraggio, molte sceneggiature e un unico film (Alambrado nel 1992), Marco Bechis decide di parlare - in terza persona - della propria esperienza di desaparecido e di raccontare, con il linguaggio che gli è più congeniale, quello cinematografico, il dramma che ancora oggi continua a sconvolgere l'Argentina. 30.000 sono ad oggi i fantasmi, i desaparecidos che non sono più tornati e che pesano sulla coscienza (?) di uomini che al potere ci sono ancora, o che vivono indisturbati la loro vita di nonni o di pensionati, come il generale Videla. Era il 1977, Marco Bechis aveva 22 anni ed insegnava in una scuola elementare, quando fu prelevato da alcuni soldati e portato in un luogo molto simile a Garage Olimpo, chiamato Club Atletico. Vi rimase pochi mesi e poi, argentino atipico - madre cilena e passaporto italiano - fu liberato ed esiliato in Italia. Per molti, come la Maria del film, essere trasferiti significava invece essere lanciati da un aereo in oceano aperto.
La crudeltà della vicenda, le torture, la violenza non sono però in primo piano in questo film. In risalto è il legame tra la prigioniera e il suo aguzzino, ovvero il rapporto che si può crudelmente instaurare tra chi detiene il potere e chi lo subisce. Marco Bechis preferisce narrare, raccontare, approfondire psicologicamente i personaggi di cui parla, piuttosto che fare un film-documentario. Grazie a una fotografia sporca e cattiva e alla macchina in spalla, sono i particolari a ferire di più: la radio gracchiante e ad alto volume che copre le urla dei torturati, il tavolo da ping pong davanti alle celle dei prigionieri, la quotidianità e la banalità dei gesti normali dei militari che timbrano il cartellino prima di imbracciare gli elettrodi e torturare a morte i prigionieri; ciò che inorridisce di più, infine, in questo film oscuro e claustrofobico, è la violenza psicologica esercitata attraverso l'attesa del nulla in cui vengono lasciati gli "ospiti", e una raffinata strategia della paura messa a punto dagli aguzzini nei minimi particolari. Celle strette e umide, bende sugli occhi, allusioni ai familiari, telefoni che squillano invano e domande, domande, domande… Per contrasto la città fuori: solare, caotica, viva. Normale. L'incomunicabilità tra i due mondi è interrotta solo da alcuni degli "impiegati" che lavorano nel Garage e vivono una vera e propria doppia vita: rispettabili fuori, spietati e crudeli nei sotterranei del locale. Ma la Storia diventa qui, per scelta del regista, la storia di una relazione: Maria e Felix, Maria contro Felix, Felix innamorato di Maria, Maria che gli si affida con malinconica rassegnazione, Felix chissà, solo più crudele degli altri… Entrambi vittime, seguiranno il loro destino fino in fondo: lei andrà a morire, lui a vivere… Niente happy end, naturalmente.
Il film di Bechis non rivela niente di nuovo rispetto a quello che tutto il mondo conosce ormai sul periodo della dittatura dei Generali in Argentina, ma si inserisce in un dibattito più che mai aperto adesso, grazie a nuovi processi, alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo, grazie al caso Pinochet e alla pressione della comunità internazionale. Garage Olimpo, come La notte delle matite spezzate di Hector Oliveira o come La storia ufficiale di Luis Puenzo e Sur dell'esiliato Fernando Solanas, aggiunge un altro tassello alla tragedia che si è consumata in Argentina alla fine degli anni '70, mentre molti continuavano a vivere normalmente, non sapendo e facendo finta di non sapere. Garage Olimpo è, come ha detto il regista stesso, "la storia dei barbari moderni". 
 
C U R I O S I T A'

Sul set c'erano molti dei sopravvissuti, e anche parenti dei desaparecidos. Gli attori recitavano in modo consequenziale e non conoscevano tutto il copione na leggevano la loro parte di volta in volta. "Volevo che fossero concentrati sul qui e ora - ha detto Marco Bechis - e non sull'intero ruolo del personaggio, che li avrebbe messi in un'ottica più speculativa riguardo all'interpretazione". Garage Olimpo nel 1999 è stato presentato nella selezione ufficiale "Un certain regard" al Festival di Cannes, ha vinto la 21a edizione del Festival del Nuovo Cinema Latinoamericano a La Habana, Cuba, ha vinto il Festival di Huelva in Spagna, il premio speciale della giuria al festival di Tessalonica in Grecia e il premio come miglior film al Messina Film Festival.
Luis Alega è un sopravissuto, dopo le torture, alla dittatura dei generali argentini (1976/1983) e oggi vive e lavora a Verona. Ha vissuto l'esperienza narrata nel film ed è disponibile a presentarlo e a raccontare la sua vicenda, parlando anche dell'America Latina in generale. Il suo recapito telefonico al lavoro è 045/8403308 e il fax è 045/8486965 presso la Pronta Accoglienza della Comunità dei Giovani di Porto San Pancrazio.

 
RIFLESSIONI & OPINIONI
 

L’ipocrisia (impoverita) delle “guerre umanitarie”

di Sergio Paronetto (Pax  Christi, Verona)

La discussione sull’ “uranio impoverito” può diventare l’occasione per riflettere su alcuni problemi rilevanti tra loro collegati. Sta venendo a galla  quello che gli oppositori alla guerra  (inascoltati, rimproverati o irrisi) sapevano fin dai primi giorni dei bombardamenti in Kosovo (e dalla Guerra del Golfo di dieci anni fa) a proposito delle armi impiegate, del tipo di guerra in atto e della guerra in generale (“avventura senza ritorno”, ammoniva Giovanni Paolo II). La doverosa solidarietà con le vittime deve essere lucida. L’allarme e la protesta per la salute dei soldati risultano, francamente, paradossali ma, in fondo, possono fare chiarezza.

La questione “uranio impoverito” svela, anzitutto, l’imbroglio della cosiddetta guerra “pulita”, “chirurgica”, “intelligente”. Mette in luce l’ipocrisia della “guerra umanitaria”. Nessuno può ritenere la guerra un’operazione assistenziale o scambiare gli eserciti per organizzazioni di solidarietà. Non è cambiando il nome alla guerra che se ne cambia la sostanza. Non c’è mantello di retorica  che possa coprire la vergogna della guerra che è sempre un fatto terribile e devastante. Fare la guerra vuol dire dare e ricevere morte. Usare armi potenti e distruttive (che possono ritorcersi su chi le usa). Provocare e subire danni, i più forti e duraturi possibile. Lasciare un’eredità di lutti e di tragedie. Nel caso del Kosovo, non è stato un grande obiettivo opporre alla “pulizia etnica” di Milosevic la “sozzura radioattiva” della Nato aggravando la già grave situazione iniziale (occorre ricordare che bombe radioattive sono state sganciate anche lungo la costa italiana dell’Adriatico e nel lago di Garda). Era possibile agire altrimenti.

 L’unica guerra umanitaria è quella non combattuta e attivamente prevenuta. E’ dovere civile prevenire le guerre.  Le condizioni di accettabilità  di un’impresa militare, anche di quella che intende presentarsi come difensiva e umanitaria, oggi non si verificano quasi mai. La guerra possiede una sua logica inarrestabile, sempre più incontrollabile. E ogni guerra costituisce una sorta di sperimentazione per guerre future. La guerra moderna serve per fare affari, per rimodernare gli apparati bellici, per preparare scenari inediti, per affermare un dominio e anticipare il predominio futuro.  E’ sempre, a suo modo, un macabro laboratorio di analisi sul corpo umano e sulla struttura ambientale. La guerra oggi è sempre totale. Ne sono conferma, nei Balcani, i danni sui civili e le conseguenze di lunga durata che colpiscono l’ambiente naturale, economico e umano, la trama produttiva e riproduttiva, quindi il corpo, la salute di tutti e dei figli, i diritti delle future generazioni, le possibilità di ricostruzione e di ripresa. Gli effetti di  certe contaminazioni ambientali durano migliaia di anni. Compromettono il futuro dell’umanità. I fondamenti della vita.        

 Era possibile, in particolare, evitare la guerra in Kosovo: sostenendo fin dall’inizio il gruppo Rugova (non l’UCK  superarmato e mafioso);  favorendo l’ “operazione Colomba”, le iniziative nonviolente di molti volontari di pace la cui azione ha evitato per molto tempo la guerra civile nel popolo kosovaro (lo riconosce un importante documento sottoscritto nel marzo scorso dai rappresentanti delle varie religioni presenti nell’area); ipotizzando, in casi estremi, l’intervento della polizia internazionale dell’ONU, l’opera di “caschi blu” o di  “caschi bianchi”  (corpi civili di pace), nonché un’azione diplomatica stringente della Comunità Europea; dispiegando un lavoro informativo completo animato da volontà di pace. Certe campagne mediatiche che anticipano e affiancano le guerre, come eco dei rumori di fondo,  possono riconvertirsi in opera di prevenzione e di sostegno alla forza progettuale della nonviolenza. Bisogna volerlo.

Alla luce dei fatti e delle prospettive, è urgente rilanciare tutta la problematica dell’armamento nucleare, radioattivo, chimico, batteriologico. Un significativo documento redatto da Pax Christi International, all’attenzione dell’episcopato cattolico e fatto proprio da molti vescovi statunitensi, richiama idee e proposte dell’ONU e della Santa Sede circa i pericoli  e i provvedimenti da adottare. Tra i pericoli, vengono indicati la probabile ulteriore proliferazione di armi atomiche, l’intenzione statunitense di dispiegare una “difesa missilistica nazionale” che spingerebbe Russia e Cina all’imitazione, la mancata ratifica da parte di alcuni paesi  del  bando totale dei test nucleari, la presenza in Europa di molte armi nucleari tattiche. A questo proposito, occorre ricordare che il Veneto (Verona compresa) è stato luogo di  arsenali e di basi nucleari. Negli anni ’80 si è diffusa un’ampia iniziativa riguardante la creazione di zone denuclearizzate per richiamare l’attenzione sull’assurdità di armi tremende, distruttive e autodistruttive a un tempo, comunque pericolose anche per chi le usa e per il territorio che si vorrebbe difendere.

Un aspetto particolare del problema riguarda la presenza, soprattutto, dopo il crollo dell’Urss di un mercato clandestino di materiale nucleare (uranio impoverito e arricchito, mercurio, plutonio) amministrato da bande criminali e mafiose. I commercianti di materiale radioattivo sono numerosi. Anche Verona tra il ’95 e il ’96 li ha conosciuti. C’è stato un omicido collegato al traffico di plutonio. Durante il processo successivo, il giornale locale ( “L’Arena” 2.7.96) ha descritto la città, già coinvolta in commerci di armi e droga (evidenziati dalle indagini di Carlo Palermo), come  una delle basi del traffico internazionale di uranio arricchito, come “crocevia atomico”. In tale ambito, operare per la pace significa lottare contro l’illegalità e la criminalità mafiosa. Costruire la democrazia trasparente.

Da ultimo, si ripropone con  urgenza tutto l’ampio problema delle armi, la cui abbondante produzione e il cui incontrollato commercio diventano nell’immediato le cause più evidenti  dello scoppio di molti conflitti: dai Balcani al Caucaso, dalla Turchia alla Colombia, dal Medio Oriente all’Africa Centrale (Congo, Sierra Leone, Sudan…), dall’Indonesia alle Filippine, dall’India al Pakistan…Com’è lungo e triste l’elenco delle guerre !   Per l’Italia è fondamentale applicare la legge 185 del 1990, avviare iniziative di riconversione dell’industria bellica, realizzare il servizio civile, sperimentare forme di difesa nonviolenta. Grave, in tale contesto, è la firma italiana della Convenzione di Farnborough che si sovrappone, limitandola, alla legge 185 favorendo il commercio di armi verso paesi dove si violano i diritti umani. Anche così si può favorire il terrorismo internazionale! Il quotidiano “Avvenire” (2.1.2001) titola un articolo al riguardo con queste parole: “il 2001 rischia di diventare l’anno dei mercanti d’armi”. Per molti operatori di pace la coscienza di aver visto giusto aumenta le responsabilità. Per la politica che intenda richiamarsi  alla civiltà dei diritti umani, è aperta la possibilità di operare per l’affermazione di un nuovo diritto internazionale. Che vuol dire, in estrema sintesi, salvare l’umanità. Verona 8.1.2001.

 
Palestina, hai perso l'anima!
Violenza chiama violenza, l'abbiamo sempre detto.
di Mao Valpiana (Movimento Nonviolento - Verona)

Le tensioni, gli scontri, la recrudescenza dei combattimenti in Medio Oriente, portano la violenza anche all'interno di Israele e della
Palestina. Il processo di pace si è interrotto, le colombe sono state zittite e i falchi hanno ripreso le armi. Sia in Israele che in Palestina le forze di pace non trovano più ascolto. All'inizio avevamo visto nell'Intifada una forma di resistenza nonviolenta; i sassi contro i blindati potevano simboleggiare la lotta di Davide contro Golia. Abbiamo sostenuto il diritto dei palestinesi a rimanere nella loro terra, il diritto degli israeliani ad avere una patria; sognavamo che i due popoli vivessero da fratelli in due stati sovrani. Ma oggi questo sogno si è infranto. Ancora lungo è il lavoro per vedere la pace tra arabi ed ebrei. La violenza del terrorismo palestinese è entrata come un tumore nel corpo della società. L'ANP (Autorità Nazionale Palestinese), con l'accordo di Arafat, ha ripristinato la pena di morte, i tribunali militari, i processi sommari. L'orrore è già avvenuto: processi di piazza , senza nessuna garanzia di diritto, ed esecuzioni pubbliche tra la folla plaudente. Il mostro della violenza è insaziabile. Qualche mese fa abbiamo visto una folla linciare due soldati israeliani e irriderne i cadaveri; oggi abbiamo visto un plotone di esecuzione fucilare due soldati accusati di "collaborazionismo con il nemico" e la folla urlare di gioia davanti ai corpi crivellati di colpi. L'abisso della barbarie è profondo.
I governi e i popoli di Israele e Palestina hanno ormai perso l'anima.  Qualche flebile voce di pace si alza ancora. Haidar Abdel Shafi, un esponente palestinese ex membro della commissione che ha condotto le trattative di pace con Israele, che è spesso critico nei confronti di Arafat, ha detto: "Ogni volta che è stata eseguita una sentenza è perché la piazza lo richiede a gran voce". La "Associazione per i Diritti Umani e il Supporto ai Prigionieri" ha chiesto che i processi vengano affidati a tribunali civili, perché il sistema dei tribunali militari "È contrario a tutti gli standard internazionali, e non rispetta le regole di un equo processo". Gli obiettori israeliani di Gush Shalom invitano i soldati a non partecipare alle azioni repressive nei territori occupati. L'unica speranza, dunque, sta nei gruppi pacifisti dell'una e dell'altra parte che cercano la riconciliazione, il dialogo, la convivenza. Solo loro, da oggi, saranno i nostri referenti in Palestina e in Israele.

 
 
PERCHE' AMATO NON SAPEVA E NOI SI'
 
di Walter Peruzzi

Nelle esternazioni sui proiettili all'uranio, seguite alle morti sospette  di soldati italiani in "missione di pace" nei Balcani, colpiscono soprattutto l'improntitudine e il cinismo.

NOI NON SAPEVAMO
"Noi abbiamo sempre saputo - ha dichiarato Giuliano Amato - che [l'uranio] era stato usato in Kosovo e non in Bosnia. E abbiamo sempre saputo che la pericolosità si  realizza soltanto a livelli di contatto assolutamente eccezionali, ad esempio prendendone in mano un  frammento con una ferita aperta, mentre in circostanze normali non è affatto pericoloso. Ora invece  cominciamo ad avere una sacrosanta paura che le cose non siano così semplici" ("La Repubblica", 3 gennaio  2001). Amato comincia dunque a "sapere", o a sospettare almeno, a fine 2000. Come il ministro Mattarella ("La Nato non c'informò dei  rischi") o il generale Federici ("Nessuno mi avvisò dei rischi"). Anche il sottosegretario Brutti, rispondendo il 7 maggio 1999 all'interpellanza presentata il 22 aprile dai senatori Russo Spena e Pieroni, dichiarava non esservi "conclusioni sicure sugli effettivi rischi" dell'uranio impoverito e citava a sostegno due indagini del 1988 e 1993, che "non hanno individuato il verificarsi di specifici danni derivanti da contaminazione all'ambiente ed alla salute".

GLI EFFETTI DELL'URANIO IN IRAQ
 
Senonché fin dal 1992-93 il dottor Siegwart-Horst Günther aveva documentato sul "The Baghdad Observer" e su testate tedesche i
danni "all'ambiente ed alla salute", non per i militari occidentali ma per i civili iracheni. Ne scrissero anche "Time", "Guardian", "Le Monde diplomatique" e vari altri giornali stranieri. In Italia ne parlò per prima "Guerre&Pace" (n. 10, aprile 1994), che dedicò la  copertina alla fotografia del proiettile, solo oggi riportata dalla grande stampa, e pubblicò un articolo di Gordon Poole in cui si diceva fra l'altro: "la polvere d'uranio si diffonde nell'aria e sul suolo. Se respirata può provocare il cancro polmonare, mentre le particelle radioattive possono finire nella catena alimentare". L'articolo fu inviato con una lettera di presentazione alle agenzie e ai maggiori quotidiani italiani, che si guardarono bene dal riprenderlo. Nel 1995-96 poi, davanti al dilagare di malattie fra reduci dall'Iraq (la famosa "sindrome del Golfo"), apparvero negli Stati Uniti articoli e libri in materia (ne ricordiamo uno di Clark) e lo stesso governo Usa dovette almeno in parte ammettere quanto aveva in precedenza cercato di occultare. Ma in Italia, benché ne parlassero ormai i quotidiani, le riviste e le radio di sinistra, pacifiste o alternative, si continuava a "non sapere".

L'URANIO NEI BALCANI

Quanto all'impiego dell'uranio in Bosnia nel 1995, fu denunciato nel 1996-97 da "Belgrade Politika", da media bosniaci, da "The Nation" e da varie fonti pacifiste Usa. In Italia la notizia fu ripresa anche quella volta da "Guerre&Pace" (n. 41, luglio 1997) in un articolo del solito Gordon Poole, inviato ad agenzie e quotidiani che reagirono col solito silenzio, salvo il "manifesto". Vi furono poi denunce di altri gruppi pacifisti. D'altra parte, secondo la stessa Nato, "l'utilizzo di armi DU nelle operazioni di Bosnia non è un segreto da anni" ("La Repubblica", 23.12.2000). Di pubblico dominio da subito era infine l'impiego dell'uranio in Kosovo, come dice anche Amato: la notizia fu data da un Tg3 poco dopo l'inizio dei bombardamenti; fu confermata all'Ansa dal generale Marani che definì quei proiettili "radioattivi quanto una pila di orologio"; fu ribadita il 14 maggio 1999 dal generale Walter Jertz in una conferenza stampa della Nato; fu oggetto il 22 aprile dell'interpellanza di Russo Spena-Pieroni prima citata; venne continuamente denunciata dai quotidiani, dai gruppi, dalle riviste, dalle radio e dai siti internet che si opponevano alla guerra; fu indicata come crimine nell'esposto presentato il 1° giugno 1999 alla Procura di Roma dai Comitati contro la guerra e subito archiviato.

PERCHÉ OGGI SANNO

In conclusione, e pur mettendo in conto reticenze o sotterfugi di Usa e Nato verso i peones dell'alleanza, è credibile che quanto  sapevano piccole riviste come la nostra sia "sfuggito" a politici, governi, comandi militari, "servizi" e ai media, anche solo come "voce" da verificare con indagini autonome? È credibile che ancora nel 1999 i soli riferimenti bibliografici del sottosegretario  Brutti fossero due vecchie indagini, insufficienti perfino per una ricerca di scuola media? Che non avesse mai sentito parlare (come i media che oggi invitano fior di esperti a "rivelarci" cos'è l'uranio impoverito) di sindrome del Golfo? O non è piuttosto credibile che militari e governo (così come l'opposizione che lo sostenne nella guerra della Nato) si vedano costretti oggi a "sapere", e a far finta di non aver mai saputo, quello che avrebbero continuato a ignorare se non fossero morti i "nostri ragazzi"?
Il che consiglierebbe di prendere per quello che valgono la virtuosa indignazione di questi giorni contro i proiettili all'uranio e le tante
richieste di bandirli. Questo sdegno e queste richieste, mai avanzate durante i giorni del Kosovo quando erano arcinoti il loro  impiego nella guerra e i loro effetti in quella dell'Iraq, fanno parte della sceneggiata volta a "sopire" l'opinione pubblica in attesa di archiviare la pratica con una dichiarazione di non luogo a procedere per "non provata" nocività.  

ANCHE GLI EX PACIFISTI NON SAPEVANO

Particolarmente indecente è il tentativo di "chiamarsi fuori" degli ex pacifisti, che si erano arruolati nella guerra in Kosovo. I verdi, da Manconi e Semenzato a Mattioli, tuonano sull'inquinamento da uranio impoverito, chiedono inchieste e moratorie. Cossutta se la  prende con la Nato, che è "inaffidabile", e invoca indagini affidate non ai militari ma agli "scienziati", così come il sottosegretario  Calzolaio che, in un'intervista troppo generosamente ospitata dal "manifesto", lamenta i "depistaggi", le imprecisioni e le "mappe incomplete" della Nato, "oggi che la questione è esplosa". E prima che esplodesse? Anche loro bombardavano e non sapevano? Occorre una notevole faccia tosta e un disperato bisogno di conservare la poltrono per dirlo dato che sapevano da anni, avendoli denunciati insieme a noi, gli effetti del DU in Iraq. E non potevano non conoscere l'impiego di quello stesso uranio in Kosovo, essendo di pubblico dominio ed essendo scritto nei numerosi comunicati pacifisti inviati a loro personalmente per invitarli a uscire dalla "sporca" guerra. O si erano "riprogrammati" in modo da leggere e memorizzare solo le veline del Pentagono?

LA VERITÀ DEL GIORNO DOPO

Eppure bastavano quelle per "sapere". Lo dice adesso "Panorama", lo ripete Vittorio Zucconi scrivendo su "La Repubblica" del 4 gennaio (La grande ipocrisia della guerra  'pulita') che dalla guerra del Golfo "la comunità scientifica, medica e militare americana sa che i rischi a lungo termine" dell'uranio impoverito "sono probabilmente elevati e comunque ancora ignoti" tanto è vero che dove lo si produce "le procedure di sicurezza e di decontaminazione sono strettissime, prova implicita del rischio". Dal 1995 poi, aggiunge Zucconi, tutti sapevano o potevano sapere uso ed effetti dell'uranio andando su Internet alla voce 'depleted uranium'. "Nel Mediterraneo sono in corso da tempo studi sull'impatto ambientale e anche sul possibile rapporto causale fra uranio impoverito e leucemia". "Ottimi addetti militari italiani lavorano negli Stati Uniti a fianco di colleghi americani mandano rapporti dettagliati ai superiori e ai ministeri, nella speranza che qualcuno laggiù a Roma legga" e "non ci può essere generale italiano, portoghese o francese che ignorasse l'impiego di queste munizioni". Il problema, conclude Zucconi, è un altro: c'era la "necessità politica" di preservare e difendere "il mito della 'guerra buona' e pulita", e a costo zero per gli alleati, "costruito per rendere digeribile la guerra alle opinioni pubbliche" e "per difendere la nuova dottrina clintoniana dell'intervento umanitario". Ben spiegato. L'unica cosa che "Panorama" e Zucconi non spiegano è dove fossero loro mentre gli altri sapevano ma fingevano di non sapere. Poiché del DU e dei suoi effetti non ci hanno mai parlato prima (e ancora sulla "Repubblica" del 5 gennaio Antonio Polito giura che per la comunità scientifica un legame fra le morti nei Balcani e l'uranio "non c'è"), è da supporre che fossero intenti a propalare, come tutti, le bugie del giorno prima, in attesa di stupirci con la cinica verità del giorno dopo.

SENZA MASCHERA

Oggi che, come dice Calzolaio, "la questione è esplosa" (e finché non sarà dimenticata), lui e altri rivolgono anche un pensiero alle  vittime civili e chiedono di "non usare più quei proiettili".Peccato che a farla esplodere non sia stata la vergogna di aver usato armi proibite (come sapevano) e di aver esposto a radiazioni letali (mille volte documentate) interi paesi, le loro popolazioni, le generazioni future, ma la sgradevole "scoperta" di non averlo fatto in sicurezza, con le "mascherine" indispensabili per dare, senza  ricevere, morte. Nel che consiste la difesa dei diritti umani per l'Occidente.
("Guerre&Pace - n. 76 - febbraio 2001 guerrepace@mclink.it).


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