CITTÀ D’AMERICA
Robert L. Harmon
Cicero, Illinois: capitali e
criminali all’ombra di Chicago (1857-1930) La
nascita e i primi anni di Cicero, 1857-1930
Vent’anni dopo la nascita di Chicago e a una decina di
miglia da quella, il 23 giugno 1857, quindici cittadini con pieni diritti
politici, in rappresentanza di dieci famiglie, costituirono la “Township of
Cicero”. Il nome era stato proposto da uno dei fondatori, Augustus Porter, che
convinse gli altri, molti dei quali provenivano come lui dalla parte occidentale
dello stato di New York, ad adottare il nome del suo villaggio natio – Cicero,
appunto – nella contea di Onondaga.1 Dieci anni dopo, Cicero diventava comune (town),
con una popolazione di circa tremila abitanti; nel 1869, l’assemblea
legislativa dell’Illinois garantiva ad esso il diritto all’autosufficienza
politico amministrativa, fissando in sette il numero dei componenti la giunta
amministrativa da eleggere con voto popolare. L’autonomia lasciava considerevoli margini decisionali agli
amministratori (trustees). E i politicanti locali cumularono subito gli
incarichi amministrativi, nel comune e nella township, ricevendo i
relativi stipendi, grazie al fatto che i confini geografici e le strutture
politiche dell’uno e dell’altra coincidevano. Anche dal punto di vista legale
le ordinanze comunali e le leggi della township coincidevano – e
coincidono ancora. Cicero è la sola municipalità in tutto l’Illinois ad avere
queste caratteristiche e una simile struttura politico-amministrativa. Fino al
1902 gli amministratori eletti eleggevano a loro volta il presidente della
giunta cittadina, ma in quell’anno lo statuto comunale fu cambiato, affidando
la scelta al voto popolare. Tra il 1857 e il 1901, Cicero
perse i cinque sesti della propria superficie in seguito a cessioni,
soprattutto a vantaggio di Chicago, e a distacchi, grazie ai quali si formarono
i comuni contigui di Oak Park, Berwyn e Stickney. Chicago ha fatto la parte del
leone, accaparrandosi più della metà del territorio perduto da Cicero grazie al
proprio peso e ai voti nell’assemblea legislativa dello stato. Ora, Cicero è
ridotta a una superficie di meno di sei miglia quadrate. La peculiare struttura amministrativa di Cicero è dovuta
allo storico rapporto di dipendenza, paura e concorrenza nei confronti di
Chicago. I politici locali, temendo che la città potesse essere inghiottita dal
più grande e potente vicino, istituirono un comune e una township in
grado di avere il massimo controllo sulla propria autonomia. Anni dopo, Johnny
Torrio e Al Capone avrebbero compreso l’importanza di tale struttura così
accentrata e gelosa delle proprie prerogative e l’avrebbero usata per
arroccarvisi e per difendere la loro “impresa” dalle forze ad essa ostili ai
livelli statale e nazionale. Nello stesso tempo, però, Capone e i suoi
successori avrebbero fatto uso della struttura politica di Cicero per riuscire
a realizzare il controllo ramificato e centralizzato simile a quello di una corporation
sui propri affari – sulla criminalità di Chicago. Quella struttura unica,
combinata con una crescita febbrile della popolazione, una espansione
industriale altrettanto impetuosa e la vicinanza a Chicago contribuirono a
rendere logica, e non frutto di un caso o capriccio, la scelta di Cicero da
parte di Capone come sede del proprio quartier generale. Nei suoi primi anni,
collocata com’era sul ciglio della prateria, Cicero era terra di frontiera. Il
suo territorio piatto era allora paludoso, dal drenaggio difficoltoso. Le
strade erano poche e malmesse. Fin dagli anni della guerra civile, quando i
giornali di Chicago menzionavano Cicero, nominavano la sua illegalità, i
costumi sfrenati, i modi sbrigativi. La “Chicago Tribune” segnalò ripetutamente
gli omicidi e gli accoltellamenti che vi avevano luogo. Scrisse una volta: “Non
esiste in tutto il paese un posto così senza legge, incivile e
incontrollabile... È come se la maggior parte [della città] fosse popolata da
una congrega di facinorosi attaccabrighe, indomabili e semibarbari”. A quel
tempo, Cicero era un amalgama di villaggi diversi, unificati dal comune statuto
cittadino e divisi dai campanilismi. Ancora oggi, molti dei distretti
amministrativi in cui è suddiviso il comune e varie scuole elementari
mantengono gli antichi nomi. Morton Park, Hawthorne, Drexel, Clyde, Parkholme,
Warren Park, Grant Works sono tutti distretti corrispondenti nel nome agli
antichi villaggi. Grant Works, ad esempio, ha la più numerosa e più vecchia
comunità di immigrati italiani ed è la zona più industrializzata della città.
Fino agli ultimi anni dell’Ottocento, boschetti di aceri fiancheggiavano Cicero
Avenue dalla 12ma alla 16ma Strada e si estendevano per mezzo miglio lungo la
12ma – la Roosevelt Road di oggi – da Cicero a Laramie Avenue. Avevano una
profondità di oltre duecento metri ed erano popolati di corvi e merli e gli
abitanti di Grant Works passavano le serate a sparare ai volatili con carabine
e pistole di piccolo calibro.8 Fino agli anni Venti di questo secolo, ci si
poteva piazzare su Cicero Avenue e, guardando a est, avere davanti più di due
miglia di prateria, prima di arrivare con l’occhio a Western Avenue, dove le
prime abitazioni di Chicago cominciavano ad emergere dall’erba. Nel 1930 gli
aceri non c’erano più, sostituiti dalle case, dagli speakeasies, dai
bordelli, dai negozi all’ingrosso e al dettaglio. Allora, guardare verso est
dalla Cicero Avenue voleva dire guardare all’edificio dall’altra parte della
strada. Nel 1890, Grant Works non aveva né una chiesa, né un bar e chi vi
abitava doveva farsi le due miglia o più fino a Hawthorne per salvarsi l’anima
o bagnarsi il becco. Fu all’incirca quando la Grant Locomotive Works aprì i
battenti su Laramie Avenue, che la prima tavern fece la sua comparsa
all’incrocio tra la 12ma e Cicero Avenue. Ne era proprietario e gestore L. A.
Belmonte. E fu in quel decennio che la sfida tra il prete e il barista per il
controllo di Grant Works divenne infuocata. Ebbero la meglio i blasfemi e i
sacramentali dovettero mangiare la polvere. Nel 1925, c’erano quattro chiese –
tre cattoliche e una presbiteriana – nei ventiquattro isolati di Grant Works;
al confronto, i bar erano già almeno una dozzina all’inizio del proibizionismo,
nel 1919, e sarebbero aumentati a rotta di collo nel corso degli anni Venti,
con il proibizionismo imperante. I bar di Cicero – che chiamavano saloons e
taverns – hanno sempre avuto un ruolo centrale nella comunità e
nell’economia della città. Funzionavano come centri sociali in cui i clienti
immigrati, insieme con i cicchetti e la birra, potevano ricevere gratis
consigli e indicazioni riguardanti le loro pratiche. Le carte per la
cittadinanza venivano compilate lì per lì in molti di questi bar. Adele
Lorenzini, nata Ruffo da immigrati veneti, racconta che suo padre Egidio,
proprietario e gestore di bar, aiutava gli immigrati italiani a compilare i
moduli per ottenere la cittadinanza e altri documenti. Questo “servizio”
derivava logicamente dal fatto che i gestori sapevano leggere e scrivere in
inglese, oltre che nelle lingue d’origine. E i dati dei censimenti del 1910 e
del 1920 confermano che tutti i gestori di bar erano in grado di parlare,
leggere e scrivere in inglese. Inoltre, le loro tariffe – quando esistevano –
per la compilazione di moduli legali erano considerevolmente più basse di
quelle di un avvocato: nel bar essa poteva costare un giro o due di birre per i
presenti, mentre da un avvocato poteva essere pari a una settimana di salario
(alla Malleable la paga di un fonditore era in media di 12-15 dollari). Il bar
funzionava anche come centro organizzativo politico e di canalizzazione del
voto: voti e appoggi si comperavano con i bicchieri. Alla “Cicero Inn” di Nello
Lorenzini venivano “appianate” le contravvenzioni stradali, venivano
distribuiti i posti di lavoro nelle opere pubbliche e, a Natale, venivano
elargiti più di seicento pacchi dono a clienti e gente del quartiere. Ogni
pacco conteneva un pollo o un tacchino, del pane, della frutta e una bottiglia
di whiskey. Dal punto di vista economico, il ruolo dei bar nella fase formativa
della città fu decisivo. Per rendere Cicero attraente per le industrie, il
commercio e l’edilizia residenziale bisognava prosciugare il terreno paludoso e
costruire una rete fognaria. Il denaro necessario per i lavori nelle strade e
per la nuova centrale di pompaggio dell’acqua fu raccolto facendo pagare le
licenze ai bar. Nel 1911, la città incassava 70.000 dollari all’anno grazie
alle licenze per la vendita degli alcolici ed erano proprio queste tasse che
permettevano di tenere bassa la tassazione dei cittadini. E la bassa tassazione
goduta a Cicero fu la ragione principale sia della sconfitta del referendum che
nel 1911 aveva richiesto l’annessione della città a Chicago, sia dell’arrivo
delle industrie. Furono dunque i bar di Cicero che difesero l’indipendenza
della città, oltre a caratterizzarne la vita politica, sociale e culturale. Ci
si sposava anche, e si facevano le veglie per i defunti, nei bar. Non c’è
dubbio che i bar fossero i gangli vitali della vita cittadina. Ma quando
subentrò il proibizionismo quella fonte così importante di gettito fiscale fu
azzerata. La sua scomparsa fu compensata dal boom nell’edilizia industriale e
residenziale degli anni Venti, ma quando il crollo di Wall Street del 1929
fermò il lavoro nell’industria e nell’edilizia, Cicero vide crollare le proprie
entrate fiscali. Solo la fine del proibizionismo nel 1933 e la riapertura
legale dei bar e, di nuovo, le tasse sulle licenze salvarono la città. La corporation del capitale, 1890-1940
Non appena l’erba della prateria sparì e i gerbidi furono
sostituiti da strade, case, asfalto e cemento, le grandi corporations e
i milionari si presentarono a investire, speculare, pagare salari e, in
generale, a fare quattrini. Già nel 1864 le ferrovie avevano compreso il valore
commerciale della posizione di Cicero. La Burlington and Quincy Railroad fece
transitare il suo primo treno attraverso Cicero il 1° maggio 1864 e, in
seguito, costruì qui il suo scalo principale per l’area di Chicago. Poco tempo
dopo, la Baltimore and Ohio Railroad e la Illinois Central Railroad costruirono
diramazioni per servire le nuove industrie e istituirono fermate in città.
Nettie Green e Harold McCormick possono essere indicati come esemplari
rappresentativi della speculazione immobiliare. Negli ultimi decenni
dell’Ottocento, Nettie Green era definita “la donna più ricca d’America”. Era
una vedova di New York, che trasformò una piccola fortuna in una enorme fortuna
grazie a oculati investimenti immobiliari, azionari e assicurativi. Uno degli
investimenti immobiliari di Green ebbe luogo a Cicero, dove possedeva la terra
su cui sarebbero cresciuti il distretto di Grant Works e la grande fonderia
della National Malleable Castings. Nel 1889, l’intero pezzo di terra fu
acquistato dalla Baldwin Locomotive Company, la corporation di
Filadelfia che per tutto l’ultimo quarto di secolo fu la maggiore costruttrice
di locomotive degli Stati Uniti. Per fronteggiare la concorrenza, la Baldwin
cercava un luogo adatto per costruire uno stabilimento più grande e avanzato
tecnologicamente. Lo trovò a Cicero, che offriva tasse limitate, terra a buon
prezzo, adeguate diramazioni ferroviarie per i movimenti dei prodotti e delle
merci e soprattutto una vicinanza immediata a Chicago, il maggior nodo
ferroviario nazionale. La società cercò anche di “organizzare” la propria
manodopera tentando di impiantare una company town a Grant Works. Fu lei
a lottizzare la terra a Grant Works e orchestrare il referendum del 1890 in cui
i residenti del distretto votarono per staccarsi da Cicero e formare un comune
autonomo. Lo Stato aveva già riconosciuto il nuovo comune, quando le procedure
vennero trovate irregolari e Grant Works fu costretta a ritornare nel seno di
Cicero. Vent’anni dopo, la Baldwin fu comprata dal maggiore dei suoi
concorrenti, che smobilitò lo stabilimento di Filadelfia e vendette il
complesso di Grant Works alla Malleable, che spostò da Chicago a Cicero la sua
fonderia principale. Il vicino di casa di Nettie Green, sulla 16ma Strada, era
Harold McCormick, il figlio multimilionario dell’inventore e costruttore della
mietitrice, che era proprietario di 180 acri immediatamente a sud di Grant
Works, in quella che è oggi l’area residenziale di Parkholme. Harold McCormick,
come il padre Cyrus, aveva uno spiccato interesse per le innovazioni
tecnologiche. Nel suo caso si trattava però dell’aviazione, che faceva allora i
suoi primi passi sia tecnici, sia commerciali. Il giovane McCormick offrì la
sua terra in affitto all’Aero Club di Chicago, che ne fece un campo
d’aviazione. Il giorno dell’apertura – il campo fu inaugurato il 4 luglio 1911
e chiuse i cancelli il 16 aprile 1916 – erano già quindici gli aeroplani che
avevano scelto il campo di Cicero come base permanente. La pista era lunga 450
metri e correva in direzione est-ovest lungo la 16ma. Il campo era attrezzato
per accomodare 40.000 spettatori per gli spettacoli aerei e i suoi hangar
potevano contenere 250 aeroplani. Nel giro di un anno, Cicero era già diventata
una delle capitali mondiali del volo. Uno stabilimento per la produzione di
aerei fu impiantato ai bordi del campo e aviatori e tecnici da tutto il mondo
venivano al “Cicero Field”. Nel 1912, erano 359 i voli che facevano capo a
Cicero, quasi tanti quanti erano i voli in partenza dai campi di tutto il resto
del paese. Tuttavia, nel settembre 1913, McCormick vendette il terreno su cui
sorgeva il campo d’aviazione alla Grant Land Association, per costruirvi case
d’abitazione. L’Aero Club poté mantenere aperto il campo fino al 1916, quando
ebbe inizio la progettazione della comunità di Parkholme. La storia
dell’aviazione, in particolare nei suoi aspetti commerciali, fece dunque
soltanto un breve scalo a Cicero; dopo di allora, Chicago riprese il comando.
La più grande tra le iniziative del grande capitale industriale a Cicero fu
quella cui diede vita la Western Electric a Hawthorne nel 1903. La AT&T
scelse quei 292 acri per costruirvi il proprio stabilimento modello. Doveva
essere esemplare non soltanto dal punto di vista della struttura organizzativa,
ma anche nel senso propriamente fisico; infatti, il successivo impianto di Camden,
nel New Jersey, sarebbe stato una copia di quello di Cicero. Ma la Western
Electric era all’avanguardia anche nelle nuove tecnologie per la produzione di
beni di consumo di massa, nell’impiego della psicologia industriale, nella
pianificazione aziendale, oltre che nell’impiego dei principi
dell’organizzazione scientifica della produzione. Anzi, non si è forse dato
esempio migliore della Western Electric per quanto riguarda i prodotti di
consumo elettrici e nessun impianto può servire meglio degli “Hawthorne Works”
per dare conto delle strategie delle grandi corporations, per illustrare
la condizione dell’operaio-massa al lavoro sulle linee di montaggio, per
ricostruire i percorsi dell’intervento della psicologia industriale
sull’organizzazione tayloristica del lavoro (infatti, il famoso “Hawthorne
Study” di Elton Mayo venne attuato qui tra il 1927 e il ’32). La fabbrica di
Hawthorne era nota soprattutto per la produzione di telefoni e relais
telefonici per il Bell Telephone System, ma dal 1905 al 1926, vi si produssero
anche ventilatori, toasters, lavatrici e aspirapolvere. Inoltre, la Western
Electric produceva anche pellicola per film, sia per il muto, sia per i talkies.
In altre parole, la Western Electric aveva sviluppato produzioni destinate ai
consumi in espansione molto rapida: nel 1925, il 93 per cento delle famiglie di
Chicago aveva l’elettricità e il consumo di corrente era raddoppiato. Nel corso
della seconda guerra mondiale, la Western Electric fu il principale produttore
nazionale di radar. Forniva da sola più della metà di tutti gli impianti radar
installati sugli aerei e sulle navi e ad essa andava un terzo del miliardo di
dollari speso annualmente per i radar. In quegli anni, Chicago era uno dei
centri dell’industria radio-elettronica ed aveva 75.000 addetti nel settore; di
quelli, almeno 40.000 erano occupati nello stabilimento di Cicero. Nel 1944,
l’anno di punta nella produzione bellica, la Western Electric aveva contratti
col governo federale per 750 milioni di dollari. Oltre ai radar, la produzione
riguardava telefoni da campo, fili e cavi, microfoni, impianti radio per i
carri armati, cuffie e i famosi “puntatori”, che resero assai più accurato il
tiro delle antiaeree. Quei contratti erano particolarmente vantaggiosi per
l’azienda, perché gli eventuali costi aggiuntivi non coperti dal contratto
venivano coperti dallo stato dell’Illinois (che aveva pagato anche la
conversione alla produzione bellica). Inoltre, mentre i salari erano bloccati,
i profitti non lo erano. E infatti questi ultimi più che raddoppiarono nel
corso della guerra. Fin dall’inizio, quello della Western Electric era un mondo
a sé, a Cicero. Già dai primi anni Venti la fabbrica aveva il suo ospedale,
dotato di un nuovo e costoso impianto per i raggi X. Come risulta dalle interviste
dello “Hawthorne Study”, i medici e dentisti locali incoraggiavano i dipendenti
di Hawthorne a usare il reparto radiologico dell’ospedale. La fabbrica aveva
anche una biblioteca, forniva scuole serali, aveva un’orchestra di buon
livello, organizzava danze durante l’interruzione per il pranzo e pubblicava un
giornale, “The Microphone”. Nel 1929 furono costruiti gli impianti sportivi
Albright, che includevano una palestra, un campo da baseball, vari campi da
tennis, un prato per il golf. Vi si organizzarono tornei di softball, incontri
di atletica e, d’inverno, tornei di bowling e pallacanestro tra i dipendenti
della fabbrica. Tra l’altro, emerge ancora dalle interviste dello “Hawthorne
Study” che tutte le attività sportive e sociali erano aperte alle donne e che
queste partecipavano attivamente e in gran numero. La Western Electric forniva
ai suoi dipendenti anche l’assistenza malattia, due settimane di ferie pagate,
un programma pensionistico e la possibilità della compartecipazione ai
profitti. Hawthorne era dunque un luogo “totale”, in cui si andava a lavorare,
si risparmiava, ci si svagava, si studiava, ci si incontrava e si trovava
l’anima gemella. Gli uomini guadagnavano in media tra i 25 e i 30 dollari alla
settimana e le donne tra i 20 e i 25 dollari. La settimana lavorativa era di 50
ore e includeva il sabato, ma c’era chi, specialmente nel turno di notte,
raggiungeva la settantina di ore. Alla paga si aggiungeva però il cottimo, che
poteva arrivare attorno ai dieci dollari settimanali e che veniva pagato su
base mensile. Per gran parte della sua storia, lo stabilimento di Hawthorne
impiegò circa 30.000 operai di entrambi i sessi e fu uno dei maggiori
imprenditori dell’area di Chicago. L’occupazione vi ebbe due punte massime,
attorno ai 40.000 dipendenti, nel 1929, prima della Grande Depressione, e poi
di nuovo negli anni della seconda guerra mondiale, quando le donne arrivarono
ad essere la maggioranza. Popolazione, immigrazione ed edilizia
residenziale, 1900-1930
L’arrivo del grande capitale portò un’espansione impetuosa
della popolazione e degli impianti produttivi. Nel 1920, Cicero era il centro
maggiore della Cook County – dopo Chicago – con una popolazione di oltre 50.000
persone. Era la quinta città dell’Illinois e il secondo centro industriale del
paese. Nonostante la Depressione, la popolazione continuò a crescere: quasi
65.000 persone nel 1940 e più di 70.000 negli anni Cinquanta. Oggi è scesa a
61.000. Alla fine della seconda guerra mondiale, Cicero era uno dei primi dieci
centri industriali degli Stati Uniti. Vicino alla Western Electric’ era un
complesso industriale lungo un miglio e largo la metà, in cui erano collocate
forge, fonderie, stamperie di ottone, presse, imprese petrolchimiche e altre
manifatture, tutte collegate con diramazioni ferroviarie. Gran parte
dell’espansione fu alimentata dall’immigrazione massiccia dei contadini
europei, che diventavano qui lavoratori industriali. Il Town Directory del
1940 elenca in ordine decrescente i gruppi presenti: cechi, slovacchi, polacchi,
lituani, italiani, olandesi, irlandesi e inglesi. Gli italiani di Grant Works
offrono un esempio della crescita demografica e del profilo occupazionale. Il
censimento del 1910 vi registrava la presenza di 270 italiani; quello di dieci
anni dopo ne rilevava 1340. Dal punto di vista occupazionale, nel 1910 troviamo
che, dei 144 italiani occupati, 81 lavoravano in fonderie di ghisa o nella
siderurgia (76 come manovali e 59 di loro nella sola Malleable). Rispetto al
totale degli occupati, i manovali erano 115. L’esplosione dell’edilizia
residenziale degli anni Venti fu il risvolto della crescita economica e
demografica. Gran parte delle abitazioni ancora in piedi oggi furono costruite
allora. Ma a differenza di quelle precedenti, per esempio a Grant Works, le
case degli anni Venti non furono frutto del rapporto diretto tra singoli
committenti e impresari. Furono invece grandi imprese a progettare e costruire,
riempiendo un isolato dopo l’altro di casette unifamiliari e a due piani. Non
soltanto il costo medio di una villetta di questo tipo era di 12.000 dollari,
mentre se uno “se la costruiva” gliene costava 8500; cambiavano anche altri
aspetti rilevanti. La realizzazione di questi grandi progetti residenziali era
finanziata da mutui delle banche ai costruttori, che poi vendevano gli edifici
attraverso agenti immobiliari. La corporation aveva dunque fatto la sua
comparsa anche in questo settore: non esercitava più il suo potere decisionale
solo nel luogo di lavoro, ma anche in cucina e nel tinello. Come le parti
prodotte in fabbrica, anche le case diventavano tutte uguali, strada dopo
strada, rata dopo rata. Al Capone, le elezioni del
1924 e la corporation del crimine, 1924-1944 L’immagine tradizionale di Al Capone è stata quella del
signore della violenza e del terrore, del burattinaio della prostituzione,
dell’inveterato compratore di politicanti e poliziotti, del contrabbandiere. In
effetti, fu tutto ciò e anche qualcosa d’altro, ed è proprio questo che vale la
pena di esaminare; in particolare, il suo ruolo nella trasformazione della
criminalità in grande impresa: la corporation del crimine. È anche una
storia che si intreccia con quella dei lavoratori e del mondo industriale di
Cicero. A dispetto di tutto quanto è stato scritto su di lui, permane una
considerevole confusione fattuale e ideologica a proposito delle sue origini e
dei modelli secondo cui organizzò le sue attività. Alcuni libri presentano Al
Capone come immigrato dall’Italia meridionale: Alson J. Smith, in Syndicate
City, lo definisce “il giovane calabrese sfregiato”, mentre Bill e Lori
Granger, nel loro Lords of the Last Machine del 1987, lo definiscono un
“immigrato siciliano”. In entrambi i casi l’implicazione è che il crimine
organizzato è stato importato negli Stati Uniti dagli appartenenti alla mafia,
alla camorra, alla ’ndrangheta. Per cui quella criminalità e i suoi
organizzatori sono forze estranee, inserite nel tronco sano della società
americana in conseguenza dell’immigrazione di masse ignoranti della democrazia
e delle possibilità offerte dal capitalismo industriale. I fatti, però, non
sorreggono queste interpretazioni. Anzitutto, Al Capone era nato a Brooklyn,
New York, e parlò sempre il dialetto napoletano con accento americano. E mentre
non esistono prove che sapesse leggere o scrivere l’italiano, è ovvio che
sapeva leggere e scrivere l’inglese (aveva frequentato gli otto anni delle
scuole elementari). Infine, in tutta la sua vita, Capone non mise mai piede in
Italia. In realtà, il successo di Al Capone deriva più dal suo essere americano,
che dal retaggio italiano. Come gli Stati Uniti degli anni Venti, anche lui era
giovane e con il mondo davanti a sé: quando si impadronì di Chicago, nel 1924,
aveva venticinque anni. Questo Horatio Alger criminale passò da guardaspalle e
picchiatore a miliardario nell’arco di cinque anni. Non deve sorprendere,
quindi, che molti – sia americani, sia immigrati – guardassero a lui con un
misto di invidia, paura e rispetto. Non è neppure da sottovalutare il suo
“assimilazionismo”; egli infatti sposò un’americana di origini irlandesi di
nome Mae Coughlin. In breve, Al Capone non era tanto italo-americano, quanto
uno statunitense di origini italiane. L’America aveva modellato l’ispirazione e
il genio criminale di Capone. Non erano la mafia o la camorra i suoi
riferimenti: la struttura organizzativa da lui eretta aveva come modello la corporation
americana. Egli organizzò il suo impero sulla falsariga di una holding,
con un consiglio d’amministrazione del quale egli stesso era il presidente. La
competenza finanziaria di Jake Guzik fece per la criminalità organizzata quello
che Arthur Andersen fece per la grande impresa capitalistica: prendere i
profitti dell’“organizzazione” – il syndicate: il termine inglese
include le accezioni criminali e affaristiche – e impiegarli in una rete di
investimenti in attività capitalistiche legali, che avrebbero prodotto profitti
a loro volta, oltre a “lavare” il denaro sporco. Prima della concentrazione
monopolistica di Al Capone, la criminalità di Chicago funzionava secondo una
logica di tipo laissez faire, caratterizzata com’era da una congerie di
bande slegate che si facevano la guerra per il controllo di una zona o di un
settore d’attività. Gli effetti combinati del proibizionismo e dell’offensiva
monopolizzatrice di Capone furono l’assorbimento o l’eliminazione fisica delle
bande che resistevano alla “fusione” e la “centralizzazione”. C’è da
meravigliarsi del fatto che nessuna delle opere che racconta la “Capone story”
ponga attenzione sul fatto che lo stabilimento della Western Electric si
trovava a venticinque passi dal quartier generale di Al Capone a Cicero. Forse
è proprio da lì che il gangster derivò il modello organizzativo della propria
grande impresa: gli bastava guardare fuori della finestra. E il suo locale
si chiamava Hawthorne Inn, non Bella Napoli. Non c’è dubbio che i bordelli e
gli speakeasies – i bar clan destini – che l’organizzazione di Capone
aprì a Cicero funzionassero come una fabbrica e avessero i lavoratori di
fabbrica come clienti. Nel loro periodo migliore i ventidue bordelli
producevano entrate annue per 10 milioni di dollari. La più grande tra le
fabbriche del sesso dell’organizzazione di Capone fu aperta nel 1925 nella
parte meridionale di Cicero, vicino all’ippodromo di Hawthorne. L’edificio a
due piani, di legno che assomigliava a un magazzino, funzionava come un reparto
di assemblaggio. Vi lavoravano cento donne e la tariffa era di cinque dollari,
invece dei due abituali. Gli avventori venivano ammessi attraverso tre porte
consecutive. Al pianterreno, c’era un enorme stanzone con le panche di legno
tutt’intorno, lungo le pareti, su cui potevano trovare posto 200 avventori. Non
c’era mai da aspettare più di mezz’ora, per passare dal fondo della fila alla
testa. Le donne sfilavano in reggiseno e mutandine. Il piano superiore era
suddiviso in cento piccoli scompartimenti. Robert St. John racconta che “non si
parlava molto. Il traffico scorreva veloce”. Lo stesso autore nota ancora:
“Qui, in questo posto ai margini di Cicero, Scarface Al Capone aveva preso
la sordidezza e ne aveva fatto un big business”. Altre fonti di guadagno
altrettanto redditizie – sempre a Cicero – erano i 161 speakeasies e
bische che Capone controllava direttamente o in compartecipazione. Erano aperti
giorno e notte, sempre. Un boccale di birra costava 25 cent, un bicchiere di
vino 30 cent, e il cicchetto di whiskey era a 75 cent. Davanti ai locali, i
buttadentro cercavano di invogliare i passanti a entrare e a bere, giocare,
andare a donne. Molti di quegli speakeasies erano lungo la Cicero
Avenue, sull’altro lato rispetto alla Western Electric, ben visibili e a pochi
passi dalla fabbrica, per cui da trenta a quarantamila persone passavano loro
davanti andando al lavoro, a mangiare, a casa, sei giorni la settimana per
cinquanta settimane all’anno. Uno dei locali più redditizi era lo Hawthorne
Smoke Shop, di fianco al quartier generale. Il suo gestore Frankie Pope
incassava 50.000 dollari al giorno soltanto con le scommesse sulle corse.
Naturalmente, tutti i bordelli, i bar e le bische godevano della protezione
della polizia. Anche quando venivano progettate irruzioni, i locali venivano
avvertiti con il debito anticipo, in modo che le attività e i clienti potessero
essere “sistemati” senza incomodi per nessuno. Lo stesso Capone valutò una
volta che le mazzette alla polizia di Chicago ammontassero complessivamente a
trenta milioni di dollari annui. Del resto, metà di quei poliziotti negli anni
Venti era sul libro paga del gangster. Quando la corruzione col denaro non
riusciva a ottenere quanto desiderato, rimaneva sempre il ricorso alla
violenza. La conquista di Cicero da parte di Al Capone iniziò con le elezioni
comunali del 1924, nelle quali le tattiche e le strategie dell’organizzazione
gangsteristica assomigliarono sia alle pratiche sindacali di Henry Ford e altri
come lui, sia a quelle dei fascisti italiani. Per molti versi quelle elezioni
ricordano quelle dello stesso anno in Italia, che insieme con l’assassinio
Matteotti e le sue conseguenze segnarono la definitiva presa del potere di
Mussolini. Le elezioni di Cicero del 1924 rimangono un esempio di come la
violenza organizzata potesse essere impiegata per raccogliere voti, conquistare
cariche e imporre le scelte politico-amministrative. Il giorno del voto era il
1° aprile, ma non ci fu posto per gli scherzi. Alla chiusura dei seggi, due
uomini erano stati uccisi con le armi da fuoco non lontano dal quartier
generale di Al Capone, un altro aveva avuto la gola tagliata e un quarto era
stato ucciso in un bar. Un poliziotto che aveva “interferito” con i brogli in
corso e con l’intimidazione degli elettori fu pestato. A un militante
dell’opposizione democratica, Michael Gavin, spararono alle gambe, dopo di che
lo relegarono nella cantina di un albergo controllato dall’organizzazione
insieme con altri otto come lui. Il segretario elettorale, Joe Price, fu
rapito, picchiato e tenuto legato fino a dopo la chiusura dei seggi. Gli uomini
di Capone, con le tasche delle giacche rigonfie, istruivano gli elettori sulle
scelte da fare. Entravano nei seggi e chiedevano a ognuno come avrebbe votato.
A ogni risposta insoddisfacente, lo scherano dava uno scappellotto
all’elettore, gli prendeva la scheda, votava per lui e affidava infine la
scheda al presidente di seggio. Al Capone aveva fatto affluire a Cicero un
esercito di duecento uomini armati. Tra loro c’era Frank McErlane, il primo a
usare il mitra in uno scontro tra gang rivali, e c’erano i “Ragen Colts”, una
banda irlandese della zona dei mattatoi. Il loro principale protettore era
Frank Ragen, un potente funzionario della contea, che pagava l’affitto del loro
ritrovo e forniva denaro per altre attività. In cambio, la banda si metteva a
disposizione sua e dei suoi amici. Uno dei giovani riassunse per un reporter il
ruolo da loro avuto a Cicero: “Quando noi entravamo in un seggio, uscivano
tutti gli altri”. I Colts erano violenti e numerosi; il loro motto era:
“Colpisci me e ne colpisci duemila”. Era la stessa banda che aveva avuto una
parte tragicamente importante nello scatenare la sommossa antinera del 1919 a
Chicago, in cui ventitré afroamericani furono uccisi e centinaia feriti. Le
elezioni del 1° aprile terminarono con uno scontro a fuoco sulla strada lungo
la fabbrica della Western Electric. Il giudice Edmund K. Jarecki, dietro
richiesta di una parte dei cittadini, aveva inviato 70 poliziotti per riportare
l’ordine a Cicero. Quando la polizia arrivò, al tramonto, davanti al seggio
sull’incrocio tra Cicero Avenue e la 22ma strada, trovò Al Capone, Frank Capone
e Charlie Fischetti che “istruivano” gli elettori pistole alla mano. I tre
cominciarono a sparare quasi subito. Frank Capone mirò al poliziotto McGlynn,
ma la sua arma fece cilecca. I fucili dello stesso McGlynn e dell’altro
poliziotto Grogan invece spararono e Frank Capone cadde ucciso. Intanto Al si
era dato alla fuga lungo Cicero Avenue, sparando ai poliziotti e Fischetti,
dopo un breve scontro a fuoco, fu catturato. Né Al Capone, né Charlie Fischetti
furono mai incriminati. Gli inquirenti trovarono dopo una lunga indagine che
entrambi gli accusati avevano il porto d’armi e che Capone svolgeva allora
funzioni di sostituto ufficiale giudiziario. Rappresentava, letteralmente, la
legge. È inutile dire che la lista “sostenuta” da lui, capeggiata dal docile
Joseph Z. Klenha, stravinse. L’organizzazione non tollerò a Cicero nessuna
opposizione al proprio dominio, che veniva esercitato in modo diretto e con
mano pesante. In un’occasione in cui il sindaco Klenha non aveva eseguito gli
ordini, Capone gli andò incontro sui gradini del municipio e lo atterrò a
pugni. Il sindaco cercò di rialzarsi ma fu atterrato nuovamente a calci. Alla
scena assistette un poliziotto locale, che se ne andò facendo finta di niente.
Del resto, era pratica consolidata quella di dare una lezione anche ai
poliziotti di Cicero che non obbedivano all’organizzazione. In un’altra
occasione, la giunta ebbe la temerarietà di proporre un’ordinanza che Capone
aveva invitato a dimenticare. Proprio mentre si stava per procedere alla sua
approvazione, una squadra di scherani interruppe la riunione con le armi in
pugno. Il membro della giunta che presiedeva la riunione fu trascinato in
strada di fronte al municipio e brutalizzato. Quando la polizia della contea
cercava di attuare un’incursione nei locali dell’organizzazione a Cicero,
Capone veniva informato e traslocava i liquori in qualche altro posto sicuro –
tra questi, le cantine del municipio, usate più di una volta per questo tipo di
emergenze. La storia di Al Capone, creatore della corporation criminale,
non si interrompe a questo punto, naturalmente; come non si interruppe la
presenza delle corporations industriali a Cicero. Tuttavia, alla fine
degli anni Venti, la città e i suoi abitanti erano ormai tenuti saldamente in
pugno da quelle grandi imprese, industriali e criminali. La fisionomia della
città era formata. Oggi Cicero non è all’altezza delle passate “grandezze”
anche se quella interrelazione tra affari, politica e criminalità che prese
corpo allora si è prolungata nel tempo e rimane, anche oggi, un suo tratto
distintivo. L'irresistibile
ambizione di scalare i cieli
Tecnologica manifestazione di un’ancestrale ambizione di scalare il
cielo, il grattacielo è creatura del fuoco mascherata da genio dell’aria:
olimpico od orwelliano, quest’impasto di ambizioni e di paure è il nevralgico
punto d’incrocio tra astrazione ed economia, il relais dove la storia si
smarrisce nel mito e l’eterno ritorno di una vicenda, non più lunga di un
secolo, fa da cemento a una retorica che proietta l’arte del costruire
nell’assolutezza del simbolo, sin quasi al limite della sua trasformazione in
icona. Beffarda sfida alla pazienza del classificatore, la storia del
grattacielo si svolge ciclica come le spire di un serpente, pronta a rinascere,
come un’Araba Fenice, dalle ceneri dei suoi incendi. Fu dalla depressione del
grande crollo finanziario del 1929 che sorse il Rockefeller Center, cruciale
punto di passaggio dalla concezione monolitica della torre abitata a quella
integrata della città verticale e quindi autentico giro di boa verso la terza
generazione del grattacielo americano. Così come fu dalle ceneri reali del
«Great Fire» di Chicago, l’8 ottobre 1871, che si svilupparono quelle
innovazioni tecnologiche — i sistemi antincendio, la struttura d’acciaio
eccetera — da cui si sarebbe generata l’inedita progenie dei mostruosi
dinosauri meccanici, avviando la trasformazione dell’America nel «Paese dei
giganti» e delle metropoli statunitensi in parchi giurassici di un futuro
prossimo venturo. Fu proprio da quelle basi tecniche che sorse uno stile
architettonico, o perlomeno un tipo edilizio, originale e tipicamente
americano, cui in seguito fu dato il nome di Scuola di Chicago. Se nella città
commerciale per eccellenza i primi edifici alti avevano le fattezze massicce e
pesanti dei loro rudi pionieri, nella capitale intellettuale del Nord, New
York, non tardarono ad assumere il plusvalore simbolico di una trionfante
modernità: si avviò così una contesa tra il «gigante e la giraffa» ancor oggi
non del tutto sopita e che nel 1928, Cass Gilbert, riassunse in questi termini:
«La mutevole skyline di New York è una delle meraviglie di un’epoca
straordinaria. Nelle linee verticali del grattacielo riconosciamo il vero
simbolo di un popolo strenuo e avventuroso e che non conosce requie, fiducioso
nella propria forza e nel proprio potere». Il Woolworth, il Crysler, l’Empire
State, il Waldorf Astoria, il Rockefeller Center descrissero i picchi di un
diagramma che traduceva i cicli dell’economia in una sempre più raffinata
paranoia di gigantismo estetico, cui neppure l’Europa dei razionalisti seppe
resistere. Così come non seppe resistere, all’indomani del conflitto mondiale,
alle lusinghe di quei prismi translucidi e volatili, come la Lever House, che
per la prima volta cristallizzavano in codici di appeal internazionale il nuovo
desiderio di democrazia degli affari, di trasparenza dei commerci che,
paradossalmente, faceva apparire le sedi delle corporation multinazionali come
promessa di una globalizzazione auspicabile e desiderata. Emblema trionfante o indesiderato invasore, il grattacielo è stato
sempre in bilico tra apologia e critica, salutato da molti come il «grande dono
americano all’arte del costruire», contestato da altri come il cavallo di Troia
di una disumanizzazione dai pericolosi effetti sulla salute fisica e morale
della nazione. Negli anni Trenta, Lewis Mumford stigmatizzava quella «forma
urbana che torreggia verso il cielo, nella quale le esigenze vitali concrete
degli abitanti sono subordinate a considerazioni di danaro», mentre R.W. Sexton
dipingeva il grattacielo come «nobile espressione degli alti ideali del moderno
business americano» e il cileno Francisco Mujica scorgeva dietro le sue
poderose cortine «la parte migliore del Paese». Quando arrivò nella capitale del Midwest, Louis Sullivan — che alla
fine dell’Ottocento per primo codificò l’arte del grattacielo trasformando
l’embrionale golem di piani d’acciaio, vetri e mattoni in una maschia
espressione di organica bellezza — trovò un cantiere pieno di mota e di malta,
dove «sembrava che nei sogni prima dell’alba vi fosse qualcosa di immateriale,
qualcosa nei pensieri degli uomini che aspirava ad andare oltre il generale
livello di intelligenza e il rauco grido: dagli dagli». Prodotti
dell’estetica del computer, i superskyscraper del Nuovo Millennio sono parte
della rivoluzione postindustriale, dell’era dei microprocessori e dei
videoterminali. Con le loro superfici levigate e scintillanti ci hanno abituato
al gusto di silhouette evanescenti e quasi cangianti che annullano nell’aria
ogni segno di materialità in omaggio a una società che sembra aver bandito
dolore e fatica, in omaggio a un’estetica dell’accessibilità e della velocità.
Trasformati in segni sembrano dunque aver perso il senso originario di luogo di
lavoro, facendo prevalere il fascino della figura sulle ragioni dell’economia.
Quintessenza del capitalismo avanzato, soddisfano la domanda di spazi
centralizzati e di posizioni di prestigio, offrendo un contesto tecnologicamente
avanzato alle esigenze del business moderno: ma la chiave del loro successo in
America e in Europa, come il segreto della loro attuale proliferazione
nell’inconsueto paesaggio tropicale delle megalopoli asiatiche, non può essere
semplicisticamente addebitata alle favorevoli prestazioni funzionali derivanti
dalla concentrazione di spazi e di risorse. «Dalla torre di Babele in poi — come ha osservato Ada Louise
Huxtable — le fantasie dei costruttori di ogni tempo sono state verticali più
che orizzontali». La fisicità di torri che progettisti, politici o finanzieri
d’assalto vogliono sempre più colossali e complesse nasconde infatti una
«metafisica dell’estensione» che fa tornare d’attualità la profezia di Wright,
che negli anni Cinquanta pensava a un grattacielo che, invece di
«cannibalizzare» la città facendola implodere nei suoi atri, nelle sue
gallerie, nei suoi piani e nelle sue skylobby, si facesse esso stesso città:
«Nessuno si può permettere di costruirlo oggi, ma nessuno potrà permettersi di
non costruirlo in futuro». Disegnato come solitaria emergenza artificiale nella vastità
orizzontale di un enorme territorio naturale, l’«albero fuggito dalla foresta»
— il Mile-high skyscraper di Broadacre city — rimarrà solo un sogno di carta:
ma è significativo che da esso abbiano continuato a riprodursi gli incubi a
occhi aperti di Television City con cui Donald Trump avrebbe voluto dominare il
fronte a mare di Manhattan non distante dal World Trade Center, della Tour Sans
Fins di Jean Nouvel per la Défence a Parigi, della Millennium Tower di Norman
Foster per il Giappone o del missile sagomato di SOM per Chicago. Nonostante la palese assurdità logistica e funzionale posta da
questa «coazione a salire», sul futuro dei grattacieli — almeno sino al crollo
delle Twin Towers — i pareri continuano a essere discordi e i limiti sembrano
essere, ancora una volta, più urbanistici e umani, che tecnologici o
finanziari. In ogni caso, non si può non riconoscere come il grattacielo,
esprimendo un’architettura estrema e paradossale, abbia modificato la nostra
percezione storica della città dando avvio, come ha scritto Diana Agrest, a un
«processo simbolico pressoché indipendente dallo stesso progettista»: al di
fuori di questa mitologia, impastata di realistico senso del business e di
spontanea convergenza popolare, oggi, come agli inizi del secolo passato,
sarebbe difficile spiegare con il solo ricorso alle motivazioni economiche di
sfruttamento del suolo quel frenetico impulso alla competizione, quella
incoercibile e mai sopita spinta a «far grande» cui la città americana deve la
progressiva lievitazione della sua mutevole frontiera verso il cielo.
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