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Il nome e la memoria
(I romanzi di Giorgio Van Straten)


“Io sono le storie che ho raccontato”. Dopo un tirocinio lungo 13 anni, 4 romanzi e una raccolta di racconti Giorgio Van Straten è diventato un vero scrittore e Il mio nome a memoria ne è la prova e la consacrazione. Già nel primo romanzo, Generazione (Garzanti, Milano 1987),  aveva dimostrato di avere talento e di saper esplorare l’animo dei suoi personaggi, seguendo in modo personale la lezione di un grande narratore e maestro come Romano Bilenchi. In quell’opera prima aveva costruito, con stile asciutto e con  armonica architettura, uno spartito a più voci in cui si potessero riconoscere coloro (o almeno una parte di coloro) che erano giunti alla maggiore età negli anni ’70, in tempo per raccogliere le speranze di cambiamento nate nel decennio precedente,  gioire per il successo del PCI nel 1975 e poi patire come sconfitta anche personale il riflusso degli anni ’80. Nel romanzo successivo, Ritmi per il nostro ballo (Marsilio, Venezia 1992), si era un po’ perduto nella riproposizione del medesimo schema narrativo, applicato questa volta al rapporto tra la generazione dei giovani degli anni’80 e quella di chi aveva fatto la Resistenza. Ne era sortito un libro ibrido, irrisolto, forse per un eccesso di pudore o di ambizione che lo allontanava dalla vera storia che avrebbe voluto e potuto raccontare, quella del rapporto tra un giovane come Van Straten e un vecchio come Bilenchi.
  Pure facendo dire al protagonista narratore di un suo romanzo “E’ difficile capire quello che succede nella vita reale, troppo tempo poco per rifletterci sopra”, questo scrittore ha saputo evitare le secche del minimalismo e sgusciare, più per istinto di narratore che per  scelta ideologica, dalle trappole del postmoderno e si è dedicato a raccontare il tempo presente costruendo una sorta di storia delle disillusioni di una generazione. Perciò, anche quando non se ne condividono le posizioni ideologiche e le interpretazioni della realtà, a cominciare da un eccesso di semplificazione riguardo alle cause del fallimento delle ipotesi di trasformazione della società alle quali i personaggi positivi dei suoi romanzi si richiamano (Corruzione, Giunti, Firenze 1995), gli va dato comunque atto di aver avuto il coraggio di affrontare la questione. Ciò nel quadro della produzione dei narratori italiani cosiddetti giovani è raro, e quindi va ascritto a suo merito.
  In Il mio nome a memoria Van Straten trova il coraggio di esporsi in prima persona, andando oltre la funzione del narratore (“io sono solo quello che racconta la storia”, aveva scritto in Corruzione),
e ricostruisce, con gli strumenti manzoniani del documento storico e dell’invenzione, la storia del proprio nome, e quindi delle generazioni di Van Straten che nell’arco di quasi due secoli hanno portato a lui. Il soggetto narrante si presenta come restauratore di un quadro le cui parti irrecuperabili dalla memoria dei documenti vanno completate dall’immaginazione, che è legittimata, prima che dalla verosimiglianza, dall’affetto e dal bisogno di narrare che è una forma della vita. Quando necessario, perciò, il narratore non esita a farsi personaggio e a sfidare lo scacco dell’impossibilità di conoscere completamente la verità della storia che gli appartiene e che vuole narrare. Questo modo di procedere dà al romanzo la forza dell’esperienza autentica, in cui vicende personali, che in quanto tali sono destinate alla memoria di chi le ha vissute e di coloro che per amore le ereditano, diventano parte della grande storia, la quale ne viene illuminata a tratti in quadri che dicono tanto le gioie più belle quanto gli orrori ingiustificabili. 
  Attorno a questo romanzo Van Straten aveva girato a lungo, come a cercare dentro di sé la forza di raccontarla (tracce se ne trovano anche in precedenti romanzi, come nel capitolo iniziale di Ritmi per il nostro ballo), ora lo ha realizzato. E noi, come lettori, sentiamo che questa storia ci appartiene e che l’avremo cara nella nostra memoria, come avviene sempre per i libri degni di essere amati.

P.S.: Avevo già scritto questa nota, quando è giunta la notizia che il romanzo è piaciuto anche ai giurati del Premio Viareggio, i quali lo hanno eletto vincitore per la sezione narrativa.

(Il Grandevetro, n. 155, dicembre 2000-febbraio 2001)

 

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