Gianfranco Manfredi si racconta...

Ho fatto degli studi di filosofia e sono laureato in Storia della Filosofia. Stavo per ottenere la cattedra, mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: "Ma io da grande voglio fare il professore universitario?" No! Allora, siccome avevo cominciato casualmente a fare il cantante (il cantautore) lasciai perdere l'insegnamento. Essendomi sempre considerato più un narratore che un cantante, quella fu un'esperienza che, anche se ho continuato per anni, è diventata abbastanza secondaria poiché ho cominciato a lavorare nel cinema come sceneggiatore ed a pubblicare i miei romanzi con Feltrinelli (Magia rossa, Cromantica, Ultimi vampiri) e già affrontavo i temi del fantastico che al tempo in Italia non andavano per la maggiore. Ho scritto, in seguito, romanzi con altri editori (ed è una cosa che ancora continuo) e poi, quando pensavo di aver già passato tutti i lavori possibili, è nata (ancora casualmente) questa cosa del fumetto: dopo un'esperienza con una piccola casa editrice (Editoriale Dardo), con un fumetto che si chiamava Gordon Link, Sergio Bonelli mi ha chiamato. Mi ha chiesto di scrivere sceneggiature per Dylan Dog e se avevo un progetto mio. Così ho elaborato un progetto tutto mio e, aspettando sue decisioni in proposito, ho scritto varie storie di Dylan Dog e di Nick Raider. 
Successivamente è partito il mio progetto di Magico Vento, fumetto che incrocia un po' i temi del western e dell'horror. L'incontro con la cultura indiana, con le sue figure mitologiche, fu molto difficile per i bianchi. Fu l'epoca in cui cominciava lo spiritismo, persino il generale Custer era uno spiritista. Con Magico Vento volevo raccontare tutto questo lato del west che fino ad ora non era stato narrato e quindi sacrificato alle semplici pistole. 


Intervista a Gianfranco Manfredi
(di Massimiliano Leone con la collaborazione di Rossella Leone)

Gianfranco Manfredi è l'autore di Magico Vento, fumetto Bonelli, ma in passato ha insegnato filosofia all'Università Statale di Milano per poi rinunciare alla docenza e dedicarsi a tempo pieno alla musica e al cinema. Ma perché ha abbandonato la carriera accademica, com'era l'università che ha conosciuto? Ne abbiamo parlato con lui in un incontro alla Bonelli editore.

Qual è stata la sua esperienza universitaria?
Nel 1978 ho dato le dimissioni. Sarei passato incaricato quell’anno ma ormai facevo un altro mestiere e giudicavo non etico percepire lo stipendio in università, chiedere sospensioni a vita e intanto fare il musicista e lavorare nel cinema come sceneggiatore; stavo sempre a Roma. Quell’anno, in tutta Italia, sono stati in tre a dare le dimissioni dall’università: col fatto che si otteneva la cattedra, la cattedra l’hanno presa tutti! Lavoravo un po’ con la rivista critica di "Storia della filosofia" di Dal Pra, proprio perché ero con lui e mi occupavo del ‘700 e di Rousseau in particolare: la mia tesi di laurea. Per il fatto che eravamo in pieni anni ‘70, non c’erano riviste, non c’erano movimenti politici studenteschi o associazionismo politico, era stato tutto completamente spaccato dal movimento studentesco. Rimanevano solo le riviste filosofiche di istituto come quella di Dal Pra. In seguito non ho più avuto rapporti con l’ambiente universitario, per cui ignoro ciò che è successo nel frattempo.
Lasciare l’ambiente universitario è stata quindi solo una scelta sua personale, etica?
No. Etica solo per il fatto che io nel frattempo avevo anche altri interessi, facevo musica e lavoravo nel cinema, ma spesso sono cose che non hanno una continuità, sono lavori stagionali che non ti impediscono anche di avere corsi, di poter in qualche modo tenere un piede in università. In genere, quel che si chiede è l’aspettativa, ma io, tra l’altro, non mi interessavo molto alla didattica e avrei voluto continuare a fare la ricerca, il ricercatore. In quel periodo non c’era Internet: se uno domandava, per esempio, a una università americana dei manoscritti, delle fotocopie, doveva farlo attraverso l’università e quando alla fine della trafila c’erano da pagare 10 dollari, nessuno era disposto a farlo e i documenti non arrivavano. Per i due anni nei quali ho fatto ricerca, siccome stavo lavorando in particolare su Rousseau, mi sono pagato tutto io, cioè sono andato a Ginevra quindici giorni agli Archivi J.J. Rousseau, sono andato a Parigi altri dieci giorni a fare tutte le ricerche alla Biblioteca Nazionale, senza chiedere una lira all’università, anche perché non avevo voglia di seguire tutte le procedure burocratiche. Quindi l’università, come struttura, non dava alcun tipo di aiuto alla ricerca, si doveva fare un lavoro di istituto, cioè dare una mano in biblioteca e poi fare parte dell’esamificio, che era abbastanza difficile per me per alcuni motivi. Il primo era che fino all’anno prima ero uno che interrompeva gli esami, e quindi poi farli era un imbarazzo. Con il movimento studentesco (io facevo parte del collettivo di filosofia), bloccavamo gli esami, entrando nelle aule, per ottenere determinate cose o contro certi modi di organizzare gli esami. Passare da chi li interrompe a chi li fa è una cosa sconcertante. Sconcertante anche nel merito, perché l’unico cambiamento che c’era stato non era nella struttura degli esami, che erano tornati autoritari, ma era che, mentre prima si portavano solo Kant e Hegel, ora si portava Lenin. Nella fase delle lotte del movimento studentesco, noi eravamo riusciti a ottenere determinate conquiste, come l’esame di gruppo, che era giusto quando, per esempio, un gruppo aveva oggettivamente lavorato insieme e presentato delle ricerche comuni, doveva essere valutato insieme. Poi si valutavano anche le persone singolarmente. Era una ricerca collettiva, ma la valutazione era anche individuale, è successo che alcuni di noi erano da 30 e lode e rinunciavano al voto pieno, altri meritavano 18 e hanno preso di più. Si faceva una valutazione che aggiustasse i rapporti del gruppo, non era come si legge oggi sui giornali, che c’era allegria: 30 garantito e passavano tutti! Comunque, diciamo, si contrattava tutte le volte. Dopo la fase del movimento studentesco, alla fine degli anni ‘70, le cose erano cambiate: molti del movimento studentesco erano diventati assistenti, come nell’esercito, quando i ribelli vengono fatti caporali e sergenti e poi vengono incaricati di comandare sulla truppa... Era una situazione imbarazzante. Nel ’77, a Milano, ero anche un cantante di movimento, di riferimento, quindi gli studenti mi conoscevano benissimo e trovarsi uno che prima interrompeva gli esami e che per di più è un cantante etichettato, che ora invece fa gli esami, era una situazione, alla lunga, obiettivamente insostenibile. Non è stato, quindi, solo per la questione etica del doppio lavoro, sentivo di non dover più far parte dell’ambiente universitario che era avvilente per una serie di motivi: incapacità di fare una ricerca, rapporti pregiudicati con gli studenti... Dirò, tra l’altro, una cosa che mi aveva fatto molto piacere: quando diedi le mie dimissioni, Dal Pra mi disse: "Ha fatto bene, perché oggi chi vuol far ricerca e si interessa dei fatti... insomma, il lavoro culturale non si fa qua, si fa fuori". Era anche un po’ amaro sentirlo dire da lui che era una persona che ha passato tutta la vita in università. Non so se sia ancora così, allora era drammaticamente così, c’era tutto un mondo mediatico che cominciava, da cui l’università assolutamente prescindeva, oppure era mediato, ad esempio, il rapporto con l’editoria, dal barone, che poteva anche commissionare ricerche ai suoi studenti e poi stamparle a nome proprio, come suo libro. Quando si facevano riunioni di facoltà, poi, non si discuteva certo di questioni filosofiche, o dell’argomento dei corsi; la grande maggioranza alzava il dito solo quando c’era da fare il punto su delle cose sindacali, che riguardavano questioni burocratiche. Erano persone che avevano occupato un posto e si occupavano della carriera e di quante recensioni facevano sulla loro rivistina, oppure del tipo di gestione del piccolo potere che c’era lì dentro. Le riunioni di facoltà non erano mai delle riunioni di scambio culturale.