STORIA DI UN TELO

 

L’acqua mi inondava le scarpe. La pressione della pianta del piede la rimandava fuori in maniera disordinata. Schizzava via da fori mai visti.

Pioveva come mai era piovuto quell’anno. Gocce grosse come uova. Ma calde sulla pelle e dentro i tessuti.

Lara mi stava attendendo. Era dai suoi in un villino al mare. A qualche chilometro da casa mia. E io correvo, sotto la pioggia incessante; con lo zaino di telo che mi segava le spalle; la giacca di jeans aderente come una seconda pelle; e le superga gonfie d’acqua.

La stazione era semi deserta e il treno già fermo al binario. Salii e presi a sedere in un vagone vuoto. Lo zaino gocciolava dal ripiano. Dalle maniche della giacca cadevano poche gocce scure e sonore. E mi persi subito in immagini di lei. Che attende passeggiando nervosamente proprio di fianco alle rotaie. Che salta e si agita al vedermi scendere i gradini della carrozza. Che mi bacia e mi stringe e mi asciuga con il suo corpo.

Un fremito mi assalì all’improvviso. Il treno si stava movendo con sussulti frequenti e rumorosi. E poi prese ad andare, lentamente; raggiungendo in pochi istanti i miei pensieri. Mi ridiede coscienza del posto e di me stesso; del vapore che esalava dai miei abiti. Dell’umidità che mi si infilava nella pelle. Del fresco che cominciava ad assalire le dita dei piedi. Del cotone ruvido delle scarpe che stringeva le caviglie nude. Dell’odore dei jeans bagnati. Delle mie mani rigate. Dei polpastrelli stravolti.

Slacciai le scarpe e misi i piedi sotto le cosce. Alitai sulle mani e le frizionai l’un l’altra con forza. Poi ricordai di avere un jeans di ricambio nello zaino e un’altra maglietta. Il telo da mare non l’avevo portato. Non ho mai sopportato di stendermi sulla sabbia e sotto il sole; a sudare; ma un telo mi sarebbe stato utile.

Nessuno in vista, tolsi i pantaloni bagnati di dosso e provai ad asciugarmi con le mani nude. Le gambe erano pallide e chiazzate di rosso. I radi peli fuoriuscirono ritti dal freddo. Erano chiari e sottili; li detestavo; avrei voluto bei peli scuri sulle gambe e sulle braccia, e un vello soffice sul torace. Pure, due peli due si potevano contare sul petto; solitari e fulvi. Una peluria morbida secondava il labbro superiore. Ma un bel gruppetto di peli ricciuti e scuri si intravedeva sotto il tessuto madido delle mutande bianche. Quelli sì che mi procuravano una virile soddisfazione. Eppure Lara non ne aveva mai fatto parola. Li aveva visti certo, e sentiti sotto le mani in perlustrazione nei miei pantaloni ma pareva più attratta dalla pelle liscia del mio sesso pronto che da quei piccoli peli ribelli. Lei aveva un pelo marrone chiaro, rado e calmo, anche dopo insistenti sfregamenti delle mie mani aperte. E invisibili peli castani sulle braccia. Ma questo mi piaceva. Non ho mai amato le donne irsute. Anche se non ne avevo ancora conosciute sino allora. Lara era la mia prima vera ragazza. La prima che mi si fosse mostrata nuda dinanzi. La prima che mi avesse concesso di toccare la sua vagina umida.

Quei pensieri; il vagone vuoto e attraversato dall’aria pungente che si insinuava negli spazi aperti dei finestrini; la pioggia che picchiava sulle lamiere e i vetri; l’odore di bagnato; mi assalirono i sensi, e il sesso si gonfiò adagio. Pulsava aritmicamente sotto le dita a causa di una piccola vena che lo percorre sin quasi alla punta purpurea. Sollevai un lembo delle mutande e mi misi ad osservarlo; la sua nuova dimensione mi rendeva orgoglioso; ero convinto che nessun altro ne possedesse di quelle fattezze. Che quello fosse un dono di natura soltanto mio: da offrire in un infinito gesto d’amore. E già immaginavo il momento in cui sarebbe accaduto. Magari su un letto di sabbia in riva al mare. Con la risacca che accarezza i piedi. Con la luna che illumina gli spasimi. Ne avevo anche un po’ paura. Renato mi aveva detto che si sarebbe rotto in punta. Non avevo compreso bene, e lui non era stato del tutto chiaro; parlava di un pezzetto di carne che si sarebbe spezzato e del sangue che ne sarebbe fuoriuscito. Sangue caldo. Rosso. A fiotti. Ma poi disse che non sarebbe stato così doloroso: E che non accade a tutti. Ma già vedevo la mia creatura deturpata e monca di chissà quale pezzo di carne. Feci scorrere la pelle che copre il glande e vidi quel piccolo pezzo di carne di cui parlava Renato. Era poca cosa. Ne avrei potuto fare a meno.

Renato mi aveva anche detto che ci si deve esercitare a provare piacere, altrimenti si perde tutto il sapore. Che bisognava sfregare la punta del sesso con il palmo della mano aperta fino a farla diventare viola. Che poi bisognava fermarsi e stringerlo con due mani con forza; quasi a stritolarlo. Ma ciò mi procurava un acuto dolore che arrivava al cervello. E lo avevo fatto soltanto una volta nel passato proprio per quella ragione. Qualche altro compagno di classe gli aveva infatti ribattuto che pratiche come quella potevano portare persino al tumore. Ma in quel momento mi venne voglia, e comincia a sfregare la punta con la mano aperta. Provavo un gran piacere. Sollevai lentamente lo sguardo; vidi la porta dello scompartimento aprirsi. In uno scatto fulmineo posi il jeans sulla vita e lasciai scoperte sole le gambe che incrociai sotto il sedere. Entrò una donna con una grossa valigia. Sicuro non notò alcunché e tardò parecchio tempo prima di sistemarsi. Soprattutto ebbe difficoltà con la grossa valigia che non entrava nel ripiano per tutta la sua lunghezza. Mi guardò più volte, forse in cerca di aiuto, ma io non mi spostai e feci finta di nulla. Del resto non avrei potuto neanche alzarmi.

La maledicevo, non potevo credere che con tanto spazio a disposizione dovesse sedersi proprio lì. Finalmente prese posto e mi guardò dritto negli occhi. – Lo avevo prenotato – disse, quasi a scusarsi, e poi cominciò ad abbassare lo sguardo. Sgranò gli occhi. Forse realizzò solo allora che ero praticamente nudo. Nudo e bagnato. Un ragazzino nudo e bagnato in un vagone vuoto. E soltanto allora io cominciai ad osservarla. L’avevo vista entrare, guardata posare con difficoltà la valigia sul ripiano, ma osservata no. Il suo decolleté lasciava scoperto parte di un esuberante seno che si sollevava con il respiro ancora leggermente affannato. Le sue mani erano poggiate placidamente sulla gonna chiara e sottile. Sul labbro superiore si affollavano piccole gocce di sudore o di pioggia. I suoi occhi erano chiari e indiscreti. Mi sentii penetrato dal suo sguardo e l’intero mio corpo fu attraversato da un fremito improvviso. – Poverino, hai freddo? – disse e mi si avvicinò. Prese ad accarezzarmi i capelli. Ma come fosse stato il pelo di un cagnolino infreddolito e abbandonato. Poi trasse dei fazzoletti di carta dalla borsa. Mi frizionò dolcemente i capelli dietro la nuca; poi quelli più prossimi alle orecchie; poi quelli sulla sommità del capo. I suoi gesti erano sapienti; mai incerti. E li accompagnava con frasi che rendevano tutto naturale come solo può essere tra una madre e un figlio. – Ma sei proprio tutto bagnato; aspetta che ti prendo un’asciugamani dalla valigia – e si sollevò con grazia, le braccia tese verso quell’enorme contenitore di pelle marrone. Ma stavolta le mie le furono subito dietro e l’aiutarono prontamente; non senza imbarazzo. Il jeans era ricaduto sul pavimento e avevo indosso solo una maglietta di cotone e le mutande ancora umide. Il mio sesso era ancora più ansioso di carezze dopo tante attenzioni e faceva quasi capolino attraverso lo spazio ricavato nello slip. Lei sembrava non ci facesse troppo caso. Tirò fuori un bel telo ampio e me lo pose sulle spalle. – Prima però leviamo questa maglietta tutta bagnata – disse e la prese da lembi inferiori facendola scivolare adagio. Il cotone aderiva quasi alla pelle e lasciava minuscole goccioline che brillavano in quell’aria terribilmente liquida. – Forse è il caso che leviamo anche queste mutande fradice – aggiunse e non mi diede neanche il tempo di ritrarmi o reagire. Le portò giù in un istante. Riprese il telo e me lo avvolse indosso. Mi massaggiò le spalle, mi frizionò il torace, mi tenne il viso freddo tra le mani e se lo pose sul petto. Continuava incessantemente a parlare e a ripetere che avrebbe voluto tanto avere un maschietto come me; che aveva avuto solo figlie femmine. Ben tre. La maggiore forse poco più grande di me e due gemelle probabilmente della mia stessa età. Ma non mi chiese mai che età avessi.

E mentre mi parlava io sentivo il suo calore fuggire dalla sommità dei seni. E il suo profumo pervadere ogni centimetro del mio viso. Poi lasciò andare la mano sul mio sesso ancora turgido. Sempre più turgido. E sempre più turgido man mano che lo frizionava col telo asciutto. Sembrava che non smettesse più di indurirsi e di crescere. E percepii la punta delle sue dita carezzarne delicatamente la punta. Poi le sue labbra mi sfiorarono i capelli e scesero in piccoli e impercettibili sussulti sulla mia nuca; e risalirono il sentiero sino alla base delle orecchie; e riscesero senza fretta sul collo. La sentivo ansimare e le parole che pronunciava erano ora indolenti calde e solide. Sempre meno frequenti. Poi mi scoprì e mi guardò dritto negli occhi. Le sue pupille tremolavano ed erano velate d’una trasparente ombra liquida. La sua bocca era aperta e lasciava fuggire ansimi caldi e umidi come un vento di scirocco. Si aprì la camicetta e poggiò la mia mano destra sul suo seno. La guidava con sapienza lungo tutto il bordo del reggiseno e poi la introdusse sotto il tessuto, lasciandola della forma di una piccola coppetta da gelato proprio in prossimità del capezzolo. Un immenso capezzolo turgido che mi forava il palmo della mano. Io ero paralizzato, mi sembrava di vivere in un film del quale non ero che un semplice spettatore. Potevo quasi vedere il mio corpo dal di fuori: non come in uno specchio ma come se io fossi lo specchio. La cosa non mi inquietava affatto, solo non riuscivo a viverla. Non mi ci sentivo realmente dentro. Ma mi vedevo ansimare come dopo un’ora di ginnastica. Vedevo i miei zigomi accesi; il mio torace pigmentato di vivide chiazze rosse; il mio ventre stringersi e dilatarsi al tempo del respiro incostante; le dita dei piedi torcersi e stirarsi. Non mi ero mai visto in quel modo.

All’improvviso lei mi fu sopra con tutto il suo corpo. Si sollevò la gonna e si abbassò le mutandine con un gesto veloce e furtivo. Mi prese il sesso con una mano e se lo introdusse delicatamente nel suo. Persi per un momento coscienza e stentai a riavermi. Credevo che non sarei più riuscito a respirare. Poi emisi un suono gracido come quello di una rana in uno stagno. Il suo corpo e si agitava e schiumeggiava, poi si placava e ondeggiava serenamente secondando lo sferragliamento esasperante del treno, poi riprendeva a muoversi freneticamente.

Ebbi uno spasimo lungo e potente. Mi strinse con forza a sé per tenermi nel suo corpo e assaporare tutta l’energia che defluiva dalle mie membra agitate. Rimase così per diversi minuti, attendendo che il suo respiro tornasse costante, che il mio s’affievolisse pigramente sul suo collo. Poi si sollevò e si asciugò e mi asciugò delicatamente. Non parlava più; mi guardava con sguardi teneri e sereni. Mi fece indossare la maglietta e il jeans asciutti. Mi pose sulle spalle il telo pregno del suo odore. Mi tenne stretto mormorandomi ogni tanto qualcosa. Parole che non percepii se non nel loro morbido suono. Senza far caso al significato.

Guardò fuori dal finestrino; stavamo attraversando un’altra stazione deserta. Si sollevò d’improvviso. – Dio mio, devo scendere alla prossima – e s’affrettò a recuperare le sue cose. Si ricompose e ravviò i capelli. Uscì dandomi un bacio sulla fronte. – Il telo puoi tenerlo, per ricordo – aggiunse e scomparve oltre la porta dello scompartimento. Guardai per un istante fuori dal finestrino. Mi parve di riconoscere alcune abitazioni. – Dio mio, anch’io devo scendere! – esclamai e recuperai in fretta le mie cose ancora stordito dall’incredibile esperienza che avevo vissuto. Mi diressi nella direzione opposta alla sua, non so perché, forse per non perdere il gusto di quei momenti, non avrei saputo che dirle. Così scesi i gradini con difficoltà; quasi caddi. Le gambe erano tutte un torpore. Mi condussero però fino a Lara che mi corse incontro e mi abbracciò con un impeto che io non riuscivo più ad avere. Mi carezzò il viso e mi baciò la bocca con le labbra strette. Poi mi guardò l’intera figura. – Che bello che sei qui – disse; poi aggiunse corrugando impercettibilmente la fronte - Perché porti il telo sulle spalle?

- Sentivo freddo – risposi cercando di dare poco peso alla cosa. Lei assunse un’espressione interrogativa, - che strano, mi pare di averlo già visto questo telo – aggiunse. – Me lo avrai visto qualche altra volta, è tanto che lo tengo – replicai. – Ma tu non eri quello che odiava i teli? – chiese ma senza troppo desiderio di avere una risposta. – Che facciamo, andiamo? – chiesi in un momento di silenzio. – No, non ancora, aspettiamo anche mia madre. Ha preso lo stesso tuo treno.

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